Discussione generale Ddl di revisione
Costituzionale: Senato - 15 novembre 2005 (seduta del
mattino)
Fonte: Senato |
|
|
|
BASSANINI (DS-U). Signor Presidente,
colleghi, come noto, le Costituzioni moderne assolvono a due funzioni fondamentali.
La prima è quella di definire nelle linee generali l'architettura
istituzionale, organizzare la democrazia, oggi si dice "garantire la governabilità";
cioè delineare istituzioni capaci di risolvere i problemi del Paese
e di tutelare effettivamente i diritti dei cittadini, in coerenza con i
princìpi e i valori della Carta costituzionale e con le scelte dell'elettorato
(o della maggioranza di esso). Una democrazia debole, inefficace e inefficiente
nel far fronte a questi compiti perde legittimazione. Abbiamo bisogno di
istituzioni democratiche forti; ma la forza della democrazia sta nella
sua effettiva rappresentatività, nel consenso e nella partecipazione
dei cittadini senza i quali, alla lunga, le decisioni prese rischiano di
non poter essere attuate.
Vi è però una seconda funzione
delle Costituzioni democratiche moderne non meno essenziale della prima.
È quella di riconoscere e sancire nel loro contenuto essenziale
i fondamentali diritti civili, economici e sociali che spettano ad ogni
persona umana e gli inderogabili doveri di solidarietà che da ciascuno
debbono essere osservati, e di definire le regole generali della competizione
democratica; di dare la certezza che la dignità umana, i diritti
e le libertà, le regole democratiche fondamentali non sono in balìa
delle alterne vicende della competizione politica.
Per queste ragioni, le Costituzioni non
sono destinate a cambiare, come può avvenire per le leggi ordinarie,
ad ogni cambio di maggioranza. La stabilità delle Costituzioni e
la loro supremazia servono a dare a tutti, anche alle minoranze, anche
agli sconfitti della competizione elettorale, la certezza che i diritti,
le libertà, le regole democratiche fondamentali non sono alla mercé
del vincitore dell'ultima competizione elettorale.
Per questo, in quasi tutte le grandi democrazie
si è ritenuto e si ritiene che le leggi di revisione costituzionale
debbano essere il prodotto di larghe intese, di una ampia condivisione
tra maggioranza e opposizione. È una conseguenza coerente di questa
esigenza di stabilità, del ruolo di garanzia dei diritti e delle
libertà di tutti e della certezza delle regole democratiche che
è proprio delle Costituzioni democratiche (o, se preferiamo, liberaldemocratiche).
Nelle ultime legislature, in Italia, si
è tuttavia proceduto o tentato di procedere alla adozione di riforme
costituzionali sostenute dalla sola maggioranza. Ma un Paese non può
vivere e crescere se le regole fondamentali della convivenza comune cambiano
ad ogni cambio di maggioranza. L'erosione della stabilità costituzionale
registrata in Italia in questi anni rappresenta probabilmente uno degli
elementi del clima di insicurezza e smarrimento che prevale nel Paese ed
uno dei fattori della sua crisi. Per ciò, recuperare il valore della
stabilità costituzionale, della certezza delle regole, delle libertà
e dei diritti è uno dei compiti che avevamo e abbiamo davanti.
Due missioni dunque, due funzioni fondamentali
delle Costituzioni democratiche. Ma questo testo fallisce entrambi questi
obiettivi, fa fare alla nostra democrazia straordinari passi indietro su
entrambi questi due terreni fondamentali, quelli su cui si misurano la
forza, il valore e l'efficacia di una Costituzione.
Avevamo e abbiamo un problema di ristabilimento
della stabilità e della supremazia della Costituzione. Nella cosiddetta
Prima Repubblica, esso era assicurato da due fattori. Il primo era il procedimento
aggravato di revisione costituzionale (doppia lettura, maggioranza assoluta
in seconda lettura, referendum oppositivo o confermativo quando la legge
di revisione non avesse raggiunto la maggioranza dei due terzi in seconda
lettura), un procedimento che fu ritenuto sufficiente all'Assemblea costituente
in presenza di due condizioni: da una parte, la scelta allora effettuata,
approvando l'ordine del giorno Giolitti, per un sistema elettorale proporzionale;
dall'altra, la forte e radicata convenzione costituzionale, condivisa dalle
forze politiche allora esistenti, che le modifiche alla Costituzione che
tutte avevano concorso a definire e approvare dovessero necessariamente
essere condivise, dovessero essere comunque approvate a larga maggioranza.
Queste due condizioni sono venute meno:
è stato adottato, del tutto legittimamente e opportunamente (la
stessa Assemblea costituente non aveva costituzionalizzato, proprio per
questo, il sistema elettorale), un sistema elettorale maggioritario; e
sono entrate sulla scena forze politiche che non hanno concorso a elaborare
e approvare la Costituzione repubblicana e che non si sono ritenute compartecipi
della convenzione costituzionale per la quale ciò che era stato
stabilito come legge suprema della nostra convivenza doveva essere modificato
solo sulla base di una larga e condivisa convinzione sulla necessità
delle modifiche da apportare.
In questa condizione, è evidente
che uno degli scopi fondamentali da perseguire, insieme a quello di dare
alla Repubblica istituzioni democratiche più efficaci o di garantire
più efficacemente la governabilità del nostro sistema democratico,
era quello di ricuperare la supremazia, la stabilità della Costituzione,
la certezza e la garanzia dell'intangibilità dei diritti e delle
libertà; dunque, di rafforzare il sistema delle garanzie, a partire
da una riflessione sull'adeguamento della procedura di revisione costituzionale
delineata dall'articolo 138, la quale, venuti meno quei due presupposti,
merita di essere riconsiderata alla luce anche dei procedimenti assai più
aggravati che molte altre democrazie utilizzano per le riforme costituzionali,
al fine di garantire che diritti, libertà, regole democratiche non
siano in balia delle maggioranze del momento, non siano uno degli oggetti
in discussione in relazione all'esito delle competizioni elettorali.
Nessun passo è stato fatto in questa
direzione dal testo al nostro esame. Esso, anzi, da una parte indebolisce
in diversi punti il sistema delle garanzie; dall'altra, determina un vulnus
al principio della condivisione, delle larghe intese, della necessaria
convergenza l'approvazione delle modifiche costituzionali: un vulnus assai
più grave di quello che fu inferto con la legge del 2001, con l'approvazione
del nuovo Titolo V. Infatti, quel precedente, che è comunque un
precedente discutibile, presentava comunque caratteristiche diverse.
Il testo che allora fu approvato nasceva
da una elaborazione comune nell'ambito della Commissione bicamerale per
le riforme istituzionali, uscì da quella Commissione con un'approvazione
a larghissima maggioranza; e fu, fino all'ultimo, sostenuto, anzi patrocinato,
da una larga maggioranza bipartisan nel sistema istituzionale nel suo complesso,
del quale fanno parte anche le istituzioni territoriali (Regioni, Province
e Comuni), che appoggiavano nel 2001 l'approvazione della riforma del Titolo
V indipendentemente dalle opinioni politiche dei titolari delle cariche
di vertice dei governi regionali e locali.
Questa è la prima ragione della
nostra opposizione: se due sono le funzioni fondamentali delle costituzioni
democratiche, la riforma al nostro esame fallisce nel compito di adeguare
il nostro sistema costituzionale alle modifiche intervenute nella Costituzione
materiale sul terreno decisivo della garanzia della supremazia della stabilità
della Costituzione e quindi sul terreno della intangibilità dei
diritti, delle libertà e delle regole democratiche.
L'obiettivo, però, viene mancato
anche sul terreno della governabilità, dell'adeguamento del sistema
delle istituzioni, alle esigenze della nostra epoca: il testo che ci viene
sottoposto registra, sotto questo profilo, pesanti passi indietro rispetto
all'attuale Carta costituzionale. Lo si vede, per cominciare dagli aspetti
più semplici, nella riforma del procedimento legislativo: il nuovo
articolo 70 non potrà che provocare la paralisi dell'attività
legislativa, non solo per la confusa distribuzione di competenze decisionali
deliberative tra Camera e Senato, ma anche perché non contiene una
disposizione che consenta di risolvere il problema della competenza deliberativa
sulle leggi che disciplinano materie diverse inesplicabilmente intrecciate
tra loro, a partire dalla legge finanziaria; per queste, la soluzione proposta
(«spacchettare» il testo legislativo) è qualche volta
utilizzabile, ma per lo più del tutto inutile ed impraticabile,
proprio perché ci sono discipline che non consentono una rigida
suddivisione per materia.
Quanto alla forma di Governo e al ruolo
di Primo Ministro, da un lato, registriamo una eccessiva concentrazione
di poteri in capo al Premier, rischiando peraltro di mettere in un oscuro
cono d'ombra il ruolo del Parlamento e soprattutto della Camera politica,
la Camera dei deputati. Dall'altro, il testo colloca il Primo Ministro
in una posizione pericolosamente debole, attribuendo potenzialmente ad
una piccola frazione di parlamentari della sua maggioranza il potere di
decidere le sorti della legislatura e dello stesso Governo, quindi in qualche
modo di esercitare una influenza condizionante sulla maggioranza, sul Governo
e sull'intero Parlamento; alla sola condizione che questa frazione della
maggioranza disponga - per così dire - di un elettorato di nicchia
disposto a sostenere anche le rivendicazioni identitarie più estreme,
anche a costo di far cadere la legislatura e di mettere in crisi la maggioranza
e la governabilità del Paese.
Questa evenienza è accentuata dalla
legge elettorale che ci viene ora proposta e che rischia di operare in
parallelo con il nuovo assetto costituzionale, perché - come è
evidente - diminuisce la forza di condizionamento delle coalizioni sulle
componenti delle singole coalizioni. Il ritorno anticipato alle urne, con
la nuova legge elettorale, metterà infatti assai meno a rischio
la rappresentanza parlamentare di forze che abbiano rotto, la solidarietà
di coalizione, rispetto a quanto non avvenga con la legge elettorale vigente.
Questo testo riduce inoltre il ruolo del
Parlamento in modo inaccettabile. Abbiamo bisogno di Governi forti controllati
da Parlamenti forti; ma, nella riforma che viene proposta, la Camera dei
deputati è perennemente soggetta al condizionamento e alla minaccia
di scioglimento da parte del Primo ministro, che non incontra alcun limite
nell'esercizio del potere di imporre alla Camera, con la questione di fiducia,
un'alternativa secca: o la Camera vota, a scatola chiusa, il testo proposto
dal Premier oppure va incontro all'inevitabile scioglimento anticipato
della Camera.
Quanto alle modifiche del Titolo V e della
forma dello Stato, questo testo rivela alcuni punti deboli di eccezionale
rilevanza, innanzitutto con l'attribuzione di poteri legislativi esclusivi,
peraltro costruiti in modo confuso. I colleghi della maggioranza mi devono
spiegare come convivranno la competenza legislativa esclusiva del Parlamento
nazionale in materia di tutela della salute e la competenza legislativa
esclusiva dei legislatori regionali in materia di assistenza e organizzazione
sanitaria. L'unica risposta che abbiamo avuto è la distinzione fra
prevenzione e cura delle malattie, distinzione che - com'è noto
- è stata superata circa quaranta o cinquanta anni fa e che non
può essere seriamente riproposta.
A parte gli effetti che avrà questa
confusione nella distribuzione delle competenze esclusive, e la probabile
moltiplicazione di conflitti e controversie di fronte alla Corte costituzionale
in misura ancora maggior di quanto non avvenga con l'attuale assetto, non
c'è dubbio che questo testo si ispira ad un principio non compatibile
con l'esperienza e la storia dei sistemi federali. A differenza dei sistemi
confederali, i sistemi federali non prevedono in alcuna parte al mondo,
neppure negli Stati Uniti, l'esistenza di competenze legislative del tutto
esclusive attribuite alle istituzioni politiche territoriali.
Voglio ancora una volta ricordare il caso
emblematico della sanità. Nella Costituzione degli Stati Uniti la
sanità è competenza legislativa degli Stati; non c'è
una parola nella Costituzione federale che l'attribuisca al Congresso degli
Stati Uniti. Ma questo non ha impedito al Congresso di approvare importanti
programmi federali in materia sanitaria come Medicare e Medicaid e di finanziarli
con fondi federali. Chi si opponeva, il partito repubblicano, non ha mai
invocato l'illegittimità costituzionale di queste disposizioni,
ma ha solo motivato la sua opposizione politica ad un'estensione dell'intervento
pubblico in materia sanitaria.
Con questo testo si perde un'occasione
che avevamo a portata di mano: quella di riscrivere la parte più
controversa del Titolo V, cioè l'articolo 117; la si sarebbe potuta
cogliere, ricorrendo ad una larga intesa tra le forze politiche su un testo
più semplice e più condivisibile che, sul modello della legge
fondamentale di Bonn, prevedesse un adeguato elenco di materie riservate
alla competenza del Parlamento nazionale e che, per tutto il resto, attribuisse
la potestà legislativa alle Regioni, ferma restando tuttavia la
potestà del Parlamento di intervenire con proprie leggi anche in
quelle materie, a tutela dell'unità giuridica ed economica dell'ordinamento
e dell'universalità dei diritti costituzionali dei cittadini.
Una formula semplice ed insieme duttile,
che avrebbe consentito di eliminare molte controversie perché avrebbe
chiaramente identificato una possibilità di intervento del legislatore
nazionale quando le esigenze di coesione del Paese lo richiedessero.
In ogni caso, signor Presidente, questo
testo, come si è visto, fallisce tutti e due gli obiettivi fondamentali
di ogni seria operazione di revisione costituzionale. Il Parlamento lo
approverà. Ma noi confidiamo nel fatto che i cittadini italiani,
nella loro saggezza, con il referendum lo bocceranno e restituiranno così
al Parlamento ed alle forze politiche democratiche il compito, fallito
ahimè in questa legislatura, di delineare, sulla base di un aperto
confronto e col metodo della larga condivisione, le riforme necessarie
per adeguare la nostra Carta costituzionale ai mutamenti intervenuti nel
mondo e nella nostra Costituzione materiale. Per avere una Costituzione
che, in coerenza con i suoi princìpi e valori, garantisca sempre
meglio la certezza e l'intangibilità dei diritti, delle libertà
e delle regole democratiche, e delinei un sistema di istituzioni più
efficace e moderno, garantendo la governabilità del Paese. (Applausi
dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Fassone. Ne ha facoltà.
FASSONE (DS-U). Signor Presidente,
signor Sottosegretario, colleghi, mi guardo intorno e lo spettacolo che
offre l'Aula mi induce a sconforto: stiamo celebrando, o meglio voi state
celebrando - noi lo stiamo soffrendo - l'ultimo atto di un percorso parlamentare
che porterà ad un grandioso stravolgimento della Costituzione ed
in Aula sono presenti pochi senatori dell'opposizione, quasi nessuno della
maggioranza.
È vero che è martedì,
segmento settimanale poco frequentato, è vero che siamo in discussione
generale, da voi intesa come inutile liturgia da consumarsi come sfogatoio
dell'opposizione prima di giungere al momento che conta, quello in cui
i vostri numeri brutalizzeranno i nostri argomenti e la democrazia delle
quantità potrà finalmente celebrare i suoi fasti; è
vero tutto questo, ma è comunque la riforma della Costituzione,
la riforma della lex fundamentalis, del patto tra cittadini e del patto
tra generazioni, le tavole scritte dopo i grandi tornanti della storia,
dopo le guerre quando gli uomini depongono i fucili ed intorno al fuoco
decidono quale sarà il futuro loro e dei loro figli: la Costituzione,
testamento di 100.000 morti, come disse Calamandrei.
Ed invece c'è il deserto in Aula.
Perché questo accade? Credo di poter dare questa spiegazione che
almeno è la mia personale: noi, senatori dell'opposizione, siamo
rassegnati al risultato, ammaestrati da cinque anni di inutili argomenti;
voi, senatori della maggioranza, siete sicuri del risultato ma nello stesso
tempo imbarazzati perché sapete che questa non è una riforma
della Costituzione, nonostante quello che sta scritto nell'epigrafe del
disegno di legge, perché le riforme della Costituzione si fanno
quando vi è l'adesione di tutti o quasi tutti intorno a qualcosa
di comune, perché la Costituzione non è una legge qualsiasi:
è fatta di una pasta speciale che ben pochi forni possono cuocere.
L'azione costituente è cercare
questo qualcosa di comune. Il Parlamento, ricordiamolo, non è un
potere costituente, ma un potere costituito, e infatti l'articolo 138 parla
di revisione della Costituzione, non di rifacimento, non di stravolgimento,
non di spregio della Costituzione! La vostra non è stata la ricerca
di questo qualcosa di comune, tant'è che non è comune nemmeno
a voi tutti. È stata la ricerca consapevole, accanita, rovinosa
del contrario di questo qualcosa di comune. È stata la ricerca di
piegare l'avversario con un colpo di maggioranza assestato con forza costituzionale,
un atto di Governo rinforzato.
In questo caso, con questo stile, con
questo obiettivo non c'è nemmeno materia costituzionale, ma semplicemente
lotta costituzionale, una lotta e un risultato prodotti da questi rapporti
di forza oggi esistenti. Dunque, una Costituzione - se mai dovesse essere
promulgata - destinata a durare quanto durano questi rapporti di forza,
e quindi ad essere superata con l'auspicabile disgelo della prossima primavera.
Altro che testamento dei 100.000 morti: questo è il regolamento
del vostro condominio!
Tutte queste cose vi sono note. Sapete
che con grandissima probabilità il referendum cancellerà
questo prodotto, eppure lo volete, anche se ciò credo che avrà
pesanti ripercussioni politiche ed elettorali. Lo sapete e lo volete.
Volete ancora una volta fare una riforma
contro. È incredibile che vogliate fare la riforma della scuola
e dell'università contro i docenti, la riforma dell'ordinamento
giudiziario contro i magistrati, la riforma della Costituzione contro il
parere di quasi tutti i costituzionalisti; eppure la volete! Questo perché
usate la Costituzione non come quel patto di cui ho detto, ma come una
clava contro l'avversario ed una merce di scambio tra di voi, e questo
non è certo garanzia di un futuro costituzionale! Perché
voi dovete accontentare la Lega, lo ha detto onestamente anche il presidente
Pastore: la Lega Nord ha esercitato una forte pressione perché ha
fatto della devolution - la cosiddetta devolution che mi rifiuto di chiamare
con questo nome - l'ultima bandiera simbolica per ritardare il suo tramonto,
l'ultima autoconsolazione prima dell'autoemarginazione politica.
Pagate questo pedaggio per dare ossigeno
ad un Governo in asfissia di consensi e vi infilate in un gioco infantile
e rovinoso che potrei chiamare il gioco dei cubetti. Sappiamo che i bambini
molto piccoli sono soliti cercare di costruire una torre con dei cubetti
e, siccome non sono esperti della statica, arrivati al terzo, quarto cubetto
messo su in qualche modo, la torre crolla ed è esattamente quello
che capita nel vostro disegno di riforma costituzionale. Quale è
il primo cubetto, quello che facilmente sta in piedi perché è
il primo? E' quello del regionalismo esasperato: potestà legislativa
esclusiva in materie delicatissime, madre del patchwork più bizzarro.
E subito un altro condomino si sente in
dovere e in diritto di collocare il suo cubetto per cui Alleanza Nazionale,
paladina della centralità dello Stato, sostiene, e non affatto a
torto, la necessità di un Senato federale forte - e non ritorno
sulle infinite difficoltà che ci sono state nel costruirlo - per
raccordare, contenere e armonizzare la polverizzazione regionale. Allora
abbiamo costruito una Camera asimmetrica - il che va bene - ma in cui uno
dei due rami non è legato con rapporto fiduciario al Governo.
A questo punto, però, il Senato
federale forte, sciolto dal rapporto fiduciario con il Governo può
intralciare l'azione del medesimo. Ed ecco allora il terzo cubetto: Forza
Italia, paladina della centralità del Governo e, soprattutto, del
Capo del Governo, del Primo ministro, appoggia il terzo cubetto e così
il Senato viene espropriato della sua competenza anche nelle materie in
cui ha l'ultima parola, e assistiamo a quella sorprendente antinomia di
cui all'articolo 70, comma quarto, secondo il quale quando il Governo ritiene
che le proprie modifiche ad un disegno di legge sottoposto all'esame del
Senato siano essenziali per l'attuazione del suo programma chiede al Presidente
della Repubblica un'inusitata autorizzazione a presentarsi al Senato ed
a illustrare le sue motivazioni per chiedergli di assecondarlo.
Se il Senato non lo fa, il disegno di
legge viene tranquillamente e brutalmente trasmesso alla Camera la quale,
evidentemente più sicura perché legata dal rapporto fiduciario,
lo approverà. Quindi non solo avete disegnato una sorta di ircocervo,
perché il Senato o è davvero la Camera delle Regioni, o è
Camera legislativa, o non lo è; non solo avete creato un sistema
di ripartizione di competenze farraginoso e inestricabile, in quanto da
una simulazione effettuata sembra che circa il 40 per cento delle leggi
approvate sarebbe di incerta, incertissima attribuzione all'una o all'altra
competenza, ma alla fine il Senato è non soltanto esposto all'alternativa
tipica «o acconsenti o ti sciolgo»: è puramente e semplicemente
messo da parte.
Ormai, però, la torre è
prossima a crollare perché, se si può espropriare il Senato,
non si può espropriare la Camera, e se la Camera dicesse di no allora
ecco il quarto cubetto, quello che fa crollare tutto. Non basta spostare
il disegno di legge là, perché anche la Camera potrebbe non
essere disponibile ad assecondare il Primo ministro; da qui la minaccia
di scioglimento, sulla quale si è mille volte tornati, ed ecco l'artificiosa
costruzione di una mozione di sfiducia che di fatto non potrà mai
produrre il risultato cui è preordinata, perché basta un
manipolo di fedelissimi del Primo ministro per non raggiungere la maggioranza
all'interno di quella espressa dalle elezioni.
Dunque, il Parlamento viene di fatto espropriato,
ma chi di prepotenza ferisce di prepotenza perisce: infatti la sterilizzazione
totale dell'opposizione, se da una parte mette il Parlamento a disposizione
del Primo ministro, dall'altra pone il Primo ministro nella soggezione
delle ali estreme, perché basterà che anche un piccolo segmento
della maggioranza non voti la fiducia e, siccome non può essere
in alcun modo surrogato da un'opposizione totalmente sterilizzata come
infetta, nemmeno il 95 per cento della Camera potrebbe salvare il Primo
ministro. Questo è il risultato che raggiungerete: la torre dei
cubetti infantilmente edificata crollerà per la vostra stessa dinamica.
Non mi soffermo oltre: oggi non parlo
evidentemente a una maggioranza che non c'è, parlo a coloro che
possono sentire. I 100.000 morti non possono più protestare, ma
i milioni di vivi lo possono fare. Quel popolo che voi esaltate a parole
e misconoscete nei fatti si farà sentire tra pochi mesi e cancellerà
questo sfregio al testamento e voi che stoltamente lo avete voluto. (Applausi
dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e Verdi-Un. Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Tessitore. Ne ha facoltà.
TESSITORE (DS-U). Signor Presidente,
la storia del costituzionalismo, ossia di quella che può definirsi
la "tecnica della libertà", e la storia delle Costituzioni, ossia
dei tentativi di tradurre in norme e in comportamenti politici la tecnica
della libertà, possono riassumersi nel confronto, che spesso è
stato una contrapposizione, tra due princìpi: quello della legalità,
vale a dire la determinazione delle forme garanti dell'ossequio a criteri
formali dei rapporti sociali e politici, e quello della legittimità,
vale a dire l'elemento riguardante il fondamento (morale, etico) della
legge.
Ciò significa che le Costituzioni,
qualsiasi forma di Costituzione, riguardano e non possono non riguardare,
fino al punto da esserne condizionate, i presupposti sociali, economici,
ideologici, in una parola culturali (nel senso ampio e pieno della parola),
di uno spazio - possiamo dire uno Stato, una Nazione, un popolo - e di
un tempo - possiamo dire la temperie sociale, economica, ideologica, culturale
vissuta da un popolo, da una Nazione, da uno Stato -. Credo stia in ciò
la constatazione storica secondo la quale le Costituzioni, nel senso della
formalizzazione dei processi dottrinali del costituzionalismo, sono state
quasi sempre il risultato di eventi straordinari e, talvolta dolorosi e
drammatici, come rivoluzioni, le guerre, le radicali trasformazioni.
Non ho bisogno di fare richiami storici.
Mi limito a ricordare che, nel nostro Paese, periodi determinanti delle
Costituzioni sono quelli del triennio 1796-1799, ossia quello legato alle
trasformazioni indotte dalla Rivoluzione francese, e poi quello della rivoluzione
liberale del Risorgimento e, ancora, quello della rivoluzione democratica
della Resistenza ad un regime dittatoriale responsabile di una guerra totalitaria.
Questa dialettica tra legalità
e legittimità, in qualche misura, si ritrova anche in un altro contrasto
che caratterizza i processi costituenti ed anche il nostro, quello tra
Costituzione come formalizzazione e quindi cristallizzazione dei princìpi
fondamentali e Costituzione materiale e cioè il rispetto e la canalizzazione
della dinamica propria delle forze sociali nell'ordinamento giuridico e
politico.
La nostra Carta costituzionale fu ed è
un tentativo di conciliazione tra il sistema statico della conservazione
di norme originarie e il sistema dinamico degli stessi princìpi
originari in quanto tenuti a rispettare, non staticamente e formalisticamente,
l'adeguamento di tali princìpi alle esigenze della condizione sociale,
economica, ideologica della gente, del popolo, della Nazione che confluiscono
in uno Stato.
Ciò significa, venendo all'oggi,
che una revisione della nostra Carta costituzionale è un'esigenza,
potrei dire una necessità. Ma, ecco il punto: perché ciò
si dia, bisogna porsi nella condizione non dirò di risolvere e neppure
di rispondere del tutto esaurientemente, ma almeno di individuare, di capire,
di interpretare i bisogni, le esigenze degli individui che compongono la
nostra gente, la nostra società, la quale è, un po' come
tutte ma più di tante altre, una società pluralistica, che
ha dato luogo ad una struttura pluricentrica, come elemento caratterizzante
la nostra storia, quella storia che è alla base, con tutte le sue
fratture, rotture, drammi (ma anche conquiste, successi, vittorie), della
nostra Carta costituzionale e del nostro Stato democratico e repubblicano.
E allora la domanda è: questa proposta
di revisione (e lo dico, come si vedrà, problematicamente) soddisfa
questa condizione? Temo proprio di no e lo temo a partire dalla definizione
di ciò che ci sta dinanzi. Che cos'è ciò che viene
proposto? L'esercizio di un potere costituente o l'esercizio di un potere
di revisione? Vale a dire, è una nuova proposta di Costituzione
o una modifica della Costituzione vigente, che però impone il rispetto
delle linee essenziali dell'ordinamento, ossia - si badi bene - della Costituzione
materiale, non della Costituzione formale e statica? Sono convinto che
quanto ci viene proposto non è né l'una cosa, né l'altra
ed è perciò un pasticcio.
Una Costituzione, una revisione di tanta
consistenza quale quella che viene proposta, 57 articoli, l'intera seconda
parte della nostra Carta costituzionale, cioè proprio quella relativa
all'effettuazione dei princìpi fondamentali costituenti, per dir
così, non può, non avrebbe dovuto prescindere, per la forza
delle cose, dalla ricerca del confronto più ampio e articolato,
della discussione più franca, spregiudicata e libera delle idee
e delle interpretazioni delle idee e delle valutazioni delle idee. E ciò
qui, ora, non cinquant'anni fa.
La nostra Costituzione, quella per fortuna
ancora vigente, che mi auguro lo sia ancora a lungo, specie dinanzi a sgorbi
o pasticci come questo proposto, fu il prodotto di discussioni difficili,
talvolta drammatiche, di scontri durissimi, ma fu approvata con il 90 per
cento dei voti. Sta in ciò, con tutte le difficoltà, i ritardi,
forse persino i tradimenti che ne hanno fatto la storia, la sua capacità
di governare un Paese in sviluppo, profondamente trasformato da società
prevalentemente agricola, quale era alla fine della guerra, in un Paese
industriale e moderno, quale è divenuto e quale è, e per
di più, a sua volta, in profonda trasformazione, che può
determinare il suo ulteriore sviluppo, o purtroppo, come sembra avvenire
oggi per pochezza della classe politica che lo governa, il suo declino.
Domando: può essere capace di esprimere
e consolidare tutto quanto ho fin qui accennato la «revisione»
della Costituzione che è stata discussa - si fa per dire - e votata
dal Senato con tempi contingentati, senza risposte articolate alla più
parte delle osservazioni avanzate, bensì con una contrapposizione
di accuse e di modeste giustificazioni, del tipo dell'ostinato, generico,
impreciso richiamo alle presunte colpe del centro-sinistra, quando - io
credo sbagliando, almeno nelle forme - approvò affrettatamente la
riforma del Titolo V (peraltro solo una piccola parte della seconda parte)
della Costituzione? Credo proprio di no, anche perché non ha senso
rispondere con un errore all'errore commesso da altri, ammesso che tale
sia stato quello del centro-sinistra.
E vengo a qualche aspetto particolare.
Il rafforzamento, per tanti versi probabilmente
necessario, del ruolo (non voglio dire del potere) del Presidente del Consiglio
è veramente compatibile con i principi del pluralismo, dell'indefettibilità
dell'opposizione parlamentare, addirittura della stessa maggioranza parlamentare,
garantita dalla forma del nostro Stato e dalla nostra Costituzione quale
resta nella sua prima parte? Non credo.
Ancora: l'indebolimento delle funzioni
e del potere del Presidente della Repubblica è coerente con le funzioni
che la Costituzione formale e materiale gli affida, ossia non solo quello
di mediatore neutro tra Parlamento e Governo, ma quello ben più
ampio di garante dell'ordinamento statale che si esprime nella sua possibilità
di decretare lo scioglimento anticipato delle Camere, di veto sospensivo
nella promulgazione delle leggi, di autorizzazione alla presentazione delle
proposte di legge governative, di nomina di un terzo dei giudici costituzionali,
addirittura - sia pure in forme assai limitate - di legislatori, quali
sono, a tutto titolo, senza essere convalidate dal voto e dal giudizio
popolare, i senatori a vita? Credo proprio di no. Ciò significa
non revisione, ma scardinamento, sostituzione della Carta costituzionale.
Ancora, ed è un punto gravissimo:
è conforme al principio dell'unità e dell'interesse nazionale
(che non è un principio retorico o di bandiera) il pasticciato sistema
della cosiddetta devoluzione, che non si capisce bene cosa sia, se l'instaurazione
di un regime regionalistico (e non lo è quando si affidano alle
Regioni poteri come quelli relativi alla sicurezza, alla salute, alla formazione)
o un regime federale, che, come si sa, è cosa diversa perché
è una forma di limitazione dei poteri in modo non orizzontale ma
verticale, che significa mettere in discussione la forma fondamentale del
Governo parlamentare e della separazione dei poteri, garantiti della prima
parte della Costituzione?
Potrei continuare con l'accenno a norme
più particolari come il Senato delle Regioni, un vero pasticcio
che intacca anche il principio fondamentale dell'uguaglianza formale e
sostanziale dei cittadini, consentendo l'eleggibilità solo ad alcuni.
In conclusione, mi limito ad una sola
osservazione: sono convinto che il nostro Paese sia caratterizzato da una
forte identità nazionale, fatta di cultura, religione e lingua,
e da una debole identità statale. Una Costituzione che voglia rispondere
ai bisogni della nostra società in nome delle esigenze della sicurezza,
della solidarietà e dell'amicizia, che sono i principi fondamentali
della società di oggi e della nostra Costituzione repubblicana e
democratica (che non a caso ripudia la guerra, vuole realizzare l'armonia,
il pluralismo interno ed esterno), deve rafforzare e non indebolire l'identità
statale. Ecco cosa significa l'interesse nazionale, al di là della
retorica: non infiacchire l'identità nazionale.
Questa proposta di modifica della Costituzione
ha la straordinaria capacità di indebolire, fino a smarrire, l'identità
statale e l'identità nazionale del nostro popolo, condannandolo
perciò ad un irreversibile declino. Per questo è un pasticcio,
un pasticcio pericoloso che non merita di essere approvato e che - ne sono
sicuro - sarà cancellato dalla volontà popolare, lasciando
però in piedi le tensioni che provocherà se sarà approvato
e che del resto ha già pericolosamente provocato.
Le forze politiche di questa maggioranza
tracotante saranno severamente giudicate per questo loro gravissimo errore,
un vero misfatto. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U. Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Zavoli. Ne ha facoltà.
ZAVOLI (DS-U). Signor Presidente,
onorevoli colleghi, non aggiungerò nulla a quanto detto sconsolatamente
e desolatamente dal collega Fassone a proposito di quest'Assemblea che
è non sorda né grigia, ma certamente vuota. Ci sconforta
molto prendere la parola su una questione di tale gravità in queste
condizioni, quando ormai si è consumata la speranza di poter influire
dai nostri banchi su una decisione che non conta solo per ciò che
vale di per sé, ma anche perché rappresenta l'estrema prova
che la maggioranza affronta per rimanere unita o spezzata.
Prendere la parola, dicevo, in questo
scampolo di tempo che i Regolamenti ci offrono è come certificare
che una grande questione politica, civile, etica è sul punto di
entrare nella nostra storia nazionale non attraverso la dialettica, e quindi
la ricchezza, di un reciproco confronto, ma grazie a quella che de Tocqueville
- cui non si potrà certo imputare di offendere la democrazia - ha
chiamato la "dittatura della maggioranza", non intendendo ovviamente mettere
in causa i suoi sacrosanti diritti, ma richiamandosi al pericolo che la
logica dei grandi numeri sia in grado di prevalere comunque - anche quando
siano in gioco valori essenziali - senza che ad essi corrisponda il contributo
di chi può fornire motivi di riflessione, indurre interrogativi,
modificare certezze.
Sono dell'idea, signor Presidente, onorevoli
colleghi, in verità semplice, che "se ti parlo per ciò stesso
ti cambio", e altrettanto accade a me "se sei tu a parlarmi": intendo dire,
con queste parole, che non si esce mai indenni da una controversia se essa
viene affrontata con il dialogo, cioè con la volontà di capire
anziché di negare. Ma ciò non è accaduto. Noi siamo
qui, a votare una legge decisiva per la tenuta della coalizione di centro-destra,
tanto che il Premier stesso, avvezzo ai numeri - alla loro fermezza, ma
anche al loro nomadismo - ha rinviato un viaggio in Israele per essere
a Roma, dove è in corso una partita di quelle in cui, lo dico con
il rispetto dovuto al gioco democratico, è bene stare vicino ai
numeri e, per così dire, alle maglie dei giocatori.
Signor Presidente, onorevoli colleghi,
penso al nostro lavoro, all'obbligo civile che ci siamo assunti di testimoniare
l'appartenenza in nome di un bene comune, penso alle parole di don Milani
il quale - fatta salva, ovviamente, ogni legittima distinzione, - disse
che "la politica è uscirne insieme", certo riferendosi alle grandi
questioni che essa pone e deve risolvere. E allora rivado al bilancio del
lungo viaggio della cosiddetta devolution, in cui non c'è traccia
delle tante riflessioni e proposte che i nostri colleghi più versati
nella grave materia hanno vanamente profuso in questa Aula, dove la prima
Costituzione della Repubblica fu il frutto di uno dei più alti e
dialettici confronti di idee e di ideali che la democrazia non solo italiana
abbia mai concepito. Essa venne votata, come ha ricordato il senatore Tessitore,
con il 90 per cento dei consensi.
Di qui a poco, intorno a una parola che
la quasi totalità del Paese non capisce, e incongrua anche per chi
ne intende il senso, voteremo una legge dalla quale saranno rimasti esclusi
i pensieri e gli ideali di quasi la metà del Senato della Repubblica.
Una legge affermatasi in nome dei numeri e, di riflesso, con le modalità
di un votifìcio.
Non credo di venir meno al rispetto che
dobbiamo al Parlamento né di offendere la dignità personale
di chi è stato di parere diverso dal nostro, se dico che un voto
cui viene affidata una così complessa, alta e coinvolgente riforma
nasce, in quest'Aula, nell'impotenza dei rappresentanti di mezzo Paese.
Mi domando con quale animo un uomo come
il Presidente del Consiglio, uso a primeggiare, abbia potuto spingere la
sua duttilità - al punto di castigare il suo orgoglio - fino ad
accettare che tempi e precedenze fossero stabilite dal leader leghista,
un uomo e un politico, si è visto, di grande temperamento il quale,
in questa fase, è il vero vincitore. Lo è tanto che la devolution,
da lui scoperta come surrogato alla secessione, è diventata la proposta
di punta - cioè la chiave e il simbolo dell'intero progetto - da
esibire nella prossima campagna elettorale per portare alle urne una folla
di leghisti momentaneamente appagata.
Poi, il voto del referendum potrà
anche cancellare la riforma, ma intanto la devolution naviga verso un'approvazione
trainata dai partiti della maggioranza come un brulotto esplosivo lanciato
verso il bersaglio nella cui dirompente miscela c'è l'attribuzione
alle Regioni del potere di legislazione esclusiva non solo in materia di
sanità, scuola e polizia locale, ma anche in ogni altra materia
«non espressamente riservata» - cito il testo della proposta,
articolo 117 - «alla legislazione dello Stato».
Sono le aree in cui l'eguaglianza dei
cittadini dovrebbe trovare tutela e garanzia nella Costituzione, mentre
la proposta mira a rendere possibili, di fatto, secessioni regionali foriere
di inevitabili disparità.
Si afferma che lo Stato può ricorrere
al nuovo Senato per far valere l'«interesse nazionale». Una
formula vana, se non è sostanziata di contenuti, dei quali, però,
non si fa cenno, nonostante si tratti della natura e del livello dei diritti
civili e sociali da garantire in tutto il territorio della Repubblica.
Senza dire della distinzione introdotta
sulla rappresentanza parlamentare tra Nazione e Repubblica (il nuovo articolo
67 della Costituzione), che insinua la possibilità di avere lealtà
diverse, e in competizione tra loro, verso lo Stato e le "nazionalità"
che si pretende lo compongano.
Alla negazione dell'identità tra
Nazione e Repubblica fa riscontro la norma transitoria che favorisce la
creazione di nuove Regioni frantumando quelle esistenti e sospende le garanzie
costituzionali sul referendum tra tutti i cittadini coinvolti nella divisione
territoriale.
C'è da domandarsi se partiti che
nel loro nome si richiamano, l'uno, all'Italia e, l'altro, alla Nazione,
possano dare il proprio sostegno a un attacco così scoperto e strumentale
all'unità della nostra Patria, e se non sentano il peso del venir
meno ai loro stessi ideali.
All'indomani del voto della Camera, Andrea
Manzella ha scritto che la responsabilità condivisa di un tale stravolgimento
dei nostri ordinamenti non poneva solo un problema politico, ma anche una
questione, più grave, di coscienza. Siamo in tutto d'accordo con
lui, quando afferma che l'attentato alla Costituzione, anche se fosse destinato
al fallimento per la volontà popolare espressa dal referendum, resterebbe
comunque grave in sé. A prescindere, cioè, dal suo esito.
Infatti, un tale uso del mandato politico
sconfina nella sottovalutazione di un principio che inquina a priori l'intero
progetto di riforma, con il concentrarsi dei poteri in un Primo ministro
che, non soccorrendogli più la fiducia parlamentare, può
decidere di sciogliere la Camera, mentre il Presidente della Repubblica
viene privato del suo ruolo di garante e di custode della Costituzione.
Non credo, a questo proposito, proprio io, di poter aggiungere nulla ai
giudizi negativi di parlamentari e costituzionalisti di gran vaglia e di
ogni tendenza.
Si è poi aggiunto il ricorso a
un altro sistema elettorale, che vede il ritorno al proporzionale, il cui
congegno renderà instabili i Governi con un premio di coalizione
regionale nell'elezione del Senato, condizione obbligata per ottenere il
consenso della Lega. È quello che il senatore Angius ha chiamato
"desiderio di distruzione" in previsione della sconfitta.
PRESIDENTE. Senatore Zavoli, la prego
di concludere.
ZAVOLI (DS-U). Sto concludendo, signor
Presidente. E Veltroni ha definito l'"avvelenamento dei pozzi" prima della
ritirata.
Signor Presidente, onorevoli colleghi,
senza nulla togliere al valore delle critiche tecnico-giuridiche, ecco
perché riteniamo che il rifiuto del progetto debba essere totale.
Una Costituzione di parte va respinta senza riserve e concessioni. Un progetto
che delinea una forma di Governo basata su una contraddizione paradossale,
cioè la dittatura elettiva di un uomo solo, proprio per la sua ispirazione
di parte, non è accettabile in quanto estranea allo spirito costituzionale.
Semplicemente perché è incostituzionale. È la nostra
ferma e irriducibile convinzione. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U.
Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Battisti. Ne ha facoltà.
Prego i colleghi di rispettare, per quanto
possibile, i tempi loro assegnati.
BATTISTI (Mar-DL-U). Signor Presidente,
si conclude qui l'iter di questo testo, composto da ben 57 articoli e che
sostituisce e modifica 50 articoli della Parte II della Costituzione, inserisce
tre nuovi articoli e novella quattro articoli che fanno parte di altre
leggi costituzionali.
Non mi soffermerò sui temi di carattere
specifico, poiché molto e meglio di me è stato già
detto.
Probabilmente avremmo dovuto completare
una lunga fase di transizione per rendere la Costituzione più moderna,
ma anche per riaffermare i valori e i princìpi alla base dell'attuale
testo costituzionale. Avremmo dovuto anche migliorare la nostra legge elettorale
per renderla più consona al volere dei cittadini, che si sono espressi
con chiara volontà nei referendum costituzionali. Insomma, avremmo
dovuto completare una fase decennale di transizione. Oggi, invece, compiamo
un grandissimo passo indietro, sia con l'approvazione di questo testo costituzionale,
sia con l'intento di tornare ad una legge elettorale che ci fa fare - ripeto
- un balzo indietro nel tempo di dieci anni.
Scrive nel 1906 il Santi Romano in un
testo dal titolo "Le prime Carte costituzionali": «Quando le prime
Carte furono emanate era opinione comune che la sovranità delle
forme di cui si vestivano e la consacrazione in un documento scritto dei
princìpi che contenevano dovessero servire ad accrescere la loro
stabilità, che appunto per tali motivi esse erano differenziate
dalle leggi comuni, rispetto alle quali si ritenevano sacre ed intangibili,
che tutta una serie di freni e di garanzie si esercitavano per rendere
ponderate le loro modificazioni, quando non si proclamava addirittura la
loro assoluta immodificabilità».
Voi, quanto al metodo, avete proceduto
in questi due anni e mezzo di discussione al contrario: con una serie di
strappi e con voti di maggioranza, senza rispettare questo principio. Molti
costituzionalisti hanno dichiarato che nel sistema rappresentativo vi è
il dominio del principio di maggioranza, della dura legge dei numeri, che
però le Costituzioni devono funzionare come una sorta di "frigorifero",
perché servono a conservare quanto ognuna delle parti che le sottoscrivono
vuole mantenere integro a lungo, almeno per tutto il tempo in cui il voto
degli elettori la terrà lontana dal Governo. Tale principio fissa
delle precise garanzie, che la Costituzione prevede per assicurare la propria
prevalenza rispetto ad ogni successiva ed eventuale decisione della politica.
La Costituzione non pretende di essere
immutabile, ma richiede che ogni mutamento sia deciso da una maggioranza
parlamentare superiore a quella sufficiente per governare, in modo che
si ripristini il largo consenso che aveva generato il compromesso da cui
è nata.
È un po' la discussione che si
è avuta in Europa tra Costituzioni rigide e Costituzioni flessibili,
ma ricordiamoci comunque che quei princìpi valevano sia per l'una
che per l'altra, che sono proprio quei princìpi che hanno portato
l'Europa del Novecento all'istituzione delle Corti costituzionali e che
comportano anche due altri princìpi. In primo luogo, la divisione
dei poteri, che non risponde solo all'esigenza di assicurare che il potere
sia ripartito tra centri diversi per composizione sociale.
Anche negli Stati Uniti d'America la Costituzione
ripudia qualsiasi differenza sociale per casta, privilegio, o quant'altro,
tutti i poteri si legittimano attraverso il voto degli elettori, tuttavia
il principio della divisione dei poteri viene adottato con particolare
rigore come metodo per frenare il potere ed obbligare ogni organo ad agire
ricercando l'assenso dell'altro. Il Presidente può bloccare le leggi
votate dal Congresso, ma dipende dal Congresso per i tributi, per il bilancio
e per ogni altra legge. Ogni decisione del Congresso, però, può
essere bloccata dal veto del Presidente. Il Presidente, a sua volta, dipende
dal consenso del Senato per la conclusione dei trattati e per le nomine
di maggiore importanza. In sostanza, quello che ci insegna la Costituzione
americana è proprio questo: che la separazione e il controllo reciproco
tra i poteri devono essere assicurati, anche se tutti gli organi dello
Stato sono eletti dal popolo. Ebbene, oggi anche qui voi fate il contrario,
avete una visione - come diceva il senatore Mancino - aziendalistica, una
visione da consiglio di amministrazione dello Stato, dell'ordinamento della
Repubblica e del suo funzionamento.
Un altro passo, che mi ero segnato e che
vorrei leggere, dice: «O la Costituzione è una legge superiore
e prevalente, non modificabile con gli strumenti ordinari, oppure è
posta sullo stesso livello della legislazione ordinaria e, come le altre
leggi, è alterabile quando il legislatore ha il piacere di alterarla.
Se la prima parte è vera, allora una legge contraria alla Costituzione
non è legge; se la seconda parte è vera, allora le Costituzioni
scritte sono un tentativo assurdo da parte del popolo di limitare un potere
per sua stessa natura illimitabile». Questo passo è tratto
da una celebre sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti d'America,
Marbury vs Madison del 1803, ma quei principi, nel tempo, hanno prodotto
Costituzioni moderne, efficaci, efficienti, che ci avrebbero dovuto guidare
nel dare una visione più moderna alla nostra Costituzione.
Un altro principio, quello di legalità
- di cui evidentemente vi siete dimenticati e che avete trascurato - vige
e permea la maggior parte delle Costituzioni moderne e entra in conflitto
con quel principio di maggioranza, perché sottrae alla maggioranza
politica, che esce dalle elezioni e domina i lavori dell'Assemblea legislativa,
ambiti importanti di competenza, soprattutto per ciò che attiene
all'equilibrio tra organi costituzionali e diritti fondamentali dei cittadini.
Dopo l'enunciazione di questi principi,
vediamo che il testo al nostro esame tradisce, nel metodo, tutti questi
principi. Vengono, infatti, modificati 57 articoli, usando l'articolo 138
della Costituzione, che ne mutano l'aspetto complessivo, prevedendo l'indebolimento
del ruolo della Camera dei deputati, fino addirittura a farci ritenere
che ci avviamo verso una forma affievolita di democrazia parlamentare;
il potere di scioglimento delle Camere non più attribuito ad un
organo terzo e super partes, ma al Primo ministro; un eccessivo rafforzamento
della posizione del Presidente del Consiglio, senza che vi sia nessuno
dei bilanciamenti tipici delle Costituzioni proprie dei sistemi presidenziali.
Un dichiarato federalismo, puntualmente
smentito dalle norme al nostro esame, soprattutto con un sistema tributario
e fiscale che non consente alle Regioni una loro effettiva autonomia; un
ruolo del Senato, cosiddetto federale, di fatto pasticciato, confuso ed
indebolito; la nuova elezione dei componenti della Corte costituzionale
che accentua la politicizzazione di quell'organo, la confusione dell'iter
legislativo - è già stato detto - nelle competenze (quella
sanitaria, dell'organizzazione scolastica, i percorsi formativi e regionali).
Insomma, di tutto e di più, meno quello di cui avevamo bisogno:
una riaffermazione dei nostri princìpi e dei nostri valori, ma in
una accentuazione di modernità della nostra Costituzione. Ma questo
è quello che voi da lungo tempo state facendo. In realtà,
le nostre Costituzioni moderne, lo Stato di diritto nascono da un sogno,
scrive Roberto Bin; un sogno antico quanto il pensiero politico; il sogno
che a governare siano le leggi e non gli uomini.
Diceva Aristotele che è preferibile,
senza dubbio, che governi la legge più che un qualunque cittadino.
E, secondo questo stesso ragionamento, anche se è meglio che governino
alcuni, costoro bisogna costituirli guardiani delle leggi e subordinati
alle leggi. In questi quattro anni abbiamo vissuto altro: l'umiliazione
delle leggi perché governa un uomo; cambiamo la Costituzione perché
è più utile alla campagna elettorale di una parte politica;
cambiamo la legge elettorale perché è più utile ad
una parte politica e dimentichiamo quei princìpi che hanno fatto
di questo Paese un Paese moderno e democratico.
Spero però e mi auguro che i cittadini
più fedeli a quei princìpi ed a quei valori della nostra
democrazia sappiano con l'appuntamento referendario sconfessarvi. (Applausi
dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U. Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Petrini. Ne ha facoltà.
PETRINI (Mar-DL-U). Signor Presidente,
il clima in cui stiamo discutendo della riscrittura della nostra Costituzione
è esemplificativo della situazione patologica che stiamo vivendo.
Nel più assoluto disinteresse, nella completa assenza del centro-destra,
stiamo denunciando con un clima obiettivamente funereo la morte della democrazia
italiana, la morte della democrazia almeno nella forma nella quale l'abbiamo
sempre conosciuta, praticata, teorizzata, la morte della democrazia parlamentare,
quella che la storia occidentale ha costruito e ci ha consegnato. Con la
vostra Costituzione non esisterà più.
Vi è un elemento di grave disinformazione
che in questi giorni troviamo sui nostri quotidiani e nelle nostre televisioni:
il fatto che ciò che il Senato sta votando in questo momento è
la riforma della devolution. È un falso perché la devolution
è soltanto parte o parte minimale rispetto alla riforma costituzionale
che noi stiamo varando e, per quanto criticabile possa essere, sarebbe
a parer mio il male minore rispetto al testo al nostro esame. La devolution
sono poche righe, inserite nell'articolo 117 nell'ambito del Titolo V da
noi modificato nella scorsa legislatura, da noi del centro-sinistra.
È curioso che quella modifica non
abbia avuto l'appoggio dell'odierna maggioranza; non solo, ha riscosso
anche critiche e non già perché si paventasse difficoltà
nella sua attuazione, ma perché la si considerava assolutamente
insufficiente a rappresentare quella spinta innovativa che il Paese ci
chiedeva. Questo era il vostro giudizio, quella riforma la giudicaste una
"riformetta" e per questo motivo votaste contro.
Oggi quella stessa riforma ce la rinfacciate
come estremamente ambiziosa, troppo ambiziosa e tale da avere innescato
un grave e insolubile contenzioso tra le Regioni e lo Stato, tra potere
regionale e potere centrale. Vi siete però rifiutati a qualsiasi
rilettura di quella riforma; noi alla luce delle prime e significative
esperienze eravamo disponibili in tal senso, ma - ripeto - vi siete rifiutati
di rileggerla, riscriverla e correggerla. Inoltre, fate credere che, attraverso
quelle poche righe che aggiungono elementi di contraddizione e di confusione,
voi darete efficacia a quella stessa riforma.
Ebbene, siamo al parossismo della mistificazione!
Quelle righe non possono in alcun modo sanare i problemi reali posti da
quella riforma, caso mai li amplificano, perché sono elementi contraddittori,
come hanno evidenziato molti interventi, tra cui quello del senatore Mancino.
È assurdo, infatti, pensare che possano esistere poteri legislativi
esclusivi dello Stato e della Regione nella stessa materia e, ancora, poteri
concorrenti fra Stato e Regioni.
Si aggiunge confusione a confusione, ma
la devolution sarebbe il male minore, posto che in realtà questa
riforma costituzionale contiene ben altro e di ben peggiore. C'è
infatti, come annunciamo, la fine della democrazia parlamentare quale l'abbiamo
sempre conosciuta, teorizzata e praticata. C'è, altresì,
una illegittimità sia nel metodo che nel merito della vostra riforma
costituzionale.
Per quanto riguarda il metodo, va sottolineato
innanzitutto che vi appropriate della Costituzione e la riscrivete, non
avendo però titolo a farlo, posto che siete un potere costituito
e non costituente. Questo è un elemento fondamentale. Qualunque
Costituzione ha in se stessa un elemento di limite alla propria riscrittura,
perché qualunque Costituzione deve avere quale obiettivo la stabilità
del sistema e quindi qualunque Costituzione prevede che possano essere
apportate modifiche soltanto limitatamente e nel segno della continuità
dell'impianto costituzionale. Questa continuità oggi non esiste
e ce lo dice chiaramente la dottrina: «La domanda fondamentale che
ci si deve porre è: i mutamenti introdotti realizzano o no una discontinuità
con la forma di Stato precedente e cioè con i princìpi fondamentali
della Costituzione modificata? In altri termini, il potere di revisione
è stato effettivamente utilizzato come potere costituito e dunque
come potere limitato dalla Costituzione che lo fa essere e lo disciplina,
oppure è stato utilizzato al di fuori di questi limiti e, dunque,
come potere extra ordinem?».
Siamo sicuramente in questa seconda fattispecie,
in quanto è chiaro che l'articolo 138 della Costituzione è
stato violato sia nella sostanza che nello spirito: nella sostanza, perché
l'articolo 138 permette di modificare la Costituzione e non di riscriverla;
nello spirito, perché tale articolo, definendo quel quorum, intende
fare argine a possibili abusi della maggioranza, ma quell'argine è
chiaramente inefficace alla luce del nuovo sistema elettorale maggioritario.
Quell'articolo fu scritto per una Costituzione proporzionale, quel quorum
(la maggioranza assoluta) pareva essere argine sufficiente a qualsiasi
arbitrio nell'ambito di maggioranze che si costituivano all'interno del
Parlamento per un accordo parlamentare e politico. Oggi così non
è più, quelle maggioranze preesistono, escono da un sistema
elettorale maggioritario che trasforma in maggioranza assoluta la maggioranza
relativa nel Paese ed allora lo spirito di quell'articolo è stato
doppiamente tradito.
Le giustificazioni che adducete a questa
illegittimità formale sono sostanzialmente due. La prima è
francamente puerile, non varrebbe neanche la pena di citarla, ma purtroppo
esiste, ed è la giustificazione per cui noi abbiamo stabilito un
precedente in questa direzione che oggi legittima la vostra azione. Il
precedente sarebbe stato la modifica a maggioranza del Titolo V della Costituzione,
che avevate avversato soltanto perché la ritenevate insufficiente.
Ebbene, è chiaro che si tratta di un errore - perché come
tale voi lo giudicaste - e non può costituire precedente che legittimi
successivi, ulteriori errori. Questa è veramente una logica distorsiva.
La seconda giustificazione è che
la riforma, riguardando solo la seconda parte della Carta costituzionale,
non può essere interpretata come una riforma costituzionale in senso
stretto; infatti, sono salvaguardati tutti i princìpi fondamentali
enunciati nella prima parte della Costituzione. Non regge nemmeno questa
argomentazione; ho anticipato già una risposta leggendo un passo
che riguardava la continuità del processo costituzionale.
Vale la pena, peraltro, di specificare
che le due parti della Costituzione coesistono e sono funzionali l'una
all'altra: non possiamo considerare la seconda parte della Costituzione
un'appendice tecnica alla prima. In realtà, i principi enunciati
nella Parte I della Costituzione vigono e vivono soltanto all'interno degli
istituti democratici definiti nella sua Seconda parte. Se quegli istituti
tradiscono lo spirito costituzionalista, ebbene quei princìpi cessano
di vivere e rimangono una mera, sterile enunciazione e nulla di più.
È per questo che voi, ripeto, avete
esercitato un potere costituente che non vi apparteneva, lo avete esercitato
in modo illegittimo, ma ancor peggio avete fatto nel merito di questa riforma,
perché avete riscritto completamente i rapporti fra Governo e Parlamento
e in quella riscrittura avete, come ho annunciato all'inizio, ucciso la
democrazia parlamentare, poiché quel Parlamento è soggetto
all'arbitrio e alla volontà del Governo; quel Parlamento non ha
più una funzione di giudizio e di limite all'esercizio del potere
governativo; cessa di essere rappresentazione di una volontà popolare
per diventare, viceversa, una proiezione del potere esecutivo sul popolo.
Questa è la sua funzione e null'altro.
Non possiamo considerare che sia Costituzione
qualsiasi testo che definisca un'organizzazione e una struttura, un sistema
politico: la Costituzione deve necessariamente contenere elementi di garanzia
nei confronti dell'esercizio del potere. Per questo nascono le Costituzioni
e questo impone la teoria costituzionalista: che ci sia un elemento di
argine, di giudizio e di limitazione al potere politico. Ebbene, questo
elemento voi l'avete espunto dalla Costituzione che ci proponete e quindi
avete in pratica disconosciuto i princìpi stessi del costituzionalismo.
La dottrina distingue fra Costituzioni
reali o garantiste, Costituzioni nominali e fittizie. Le Costituzioni nominali
sono quelle che organizzano un sistema di potere che non ha in sé
quegli elementi di garanzia che sono propri del costituzionalismo. Le Costituzioni
fittizie sono quelle che avrebbero questi elementi, ma poi non li mettono
in pratica. Ebbene, voi avete scritto una Costituzione nominale, una Costituzione
che nega elementi di garanzia circa l'esercizio del potere.
Avete «zavorrato» la rappresentanza
parlamentare con un mandato imperativo che disconosce qualsiasi dottrina
costituzionalista e sostanzialmente azzera il potere rappresentativo che
ciascun deputato dovrebbe avere. Siete arrivati al punto di differenziare
il valore del voto tra il deputato eletto all'interno della maggioranza
e quello che è eletto nell'opposizione; in questa differenziazione,
non ve ne siete accorti, ma avete introdotto un elemento di macroscopica
illegalità, disconoscendo il principio fondamentale della rappresentatività
parlamentare: un deputato che non ha il potere di investire il Governo
della sua fiducia è un deputato di serie B, un deputato che non
rappresenta alcunché.
Le Costituzioni sono organismi viventi;
vivono nella storia, nella cultura, nella tradizione, nel sentimento di
un popolo. Le Costituzioni rappresentano tutto ciò, non possono
essere riscritte ex abrupto soltanto perché considerate antiche
od obsolete. E la nostra Costituzione è assolutamente moderna, ma
voi non ve ne siete accorti perché non avete i valori che sono incarnati
in quella Costituzione. È per questo che oggi li calpestate, perché
non li conoscete, perché questa riscrittura è nel senso di
quella cultura che intende riscrivere una storia, e intende farlo secondo
valori che non sono quelli che in questi cinquant'anni di Repubblica abbiamo
vissuto e convissuto.
State esercitando uno strappo grave e
fatale nell'ordinamento costituzionale, nella cultura, nella storia, nella
sensibilità democratica del nostro popolo. Non stupisce che voi
- vado a concludere - pensiate davvero di poter esportare la democrazia.
Vi siete felicitati del fatto che il popolo iracheno abbia fatto la coda
per andare a votare e del fatto che il Parlamento iracheno così
eletto abbia varato una Costituzione; non vi siete ancora accorti che la
Costituzione è un processo culturale e che purtroppo, in questo
caso, non appartiene a quel popolo. È per questo che le democrazie
non possono essere esportate e sono un bene collettivo che va tutelato.
Tutelato da strappi come quello che voi state facendo. (Applausi dai Gruppi
Mar-DL-U e DS-U e del senatore Colombo. Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Lauro. Ne ha facoltà.
LAURO (Misto-CdL). Signor Presidente,
colleghi, la riforma della Parte II della Costituzione, voluta dal Governo
Berlusconi e dall'alleanza di centro-destra, rappresenta un'intelligente
rimodulazione della Carta per rispondere ai bisogni della comunità
nazionale e del suo tessuto economico e per ottimizzare le performance
del sistema nazionale rispetto al mercato globale. Un salto culturale necessario
al Paese e soprattutto al Mezzogiorno d'Italia, che giace, sia pure con
avanzamenti sociali notevolissimi rispetto a cento, cinquanta o venticinque
anni fa, in una condizione difficile, tanto da rappresentare un'area, quella
dell'Obiettivo 1, che l'Unione Europea supporta finanziariamente per promuovere
lo sviluppo economico.
Il Sud ha bisogno di affrancarsi da una
cultura superata di familiarismo amorale, di assistenzialismo, di clientelismo,
che ne frena la crescita e trasforma la politica in una struttura rigida
che non governa il territorio, ma vi galleggia. Invece le esigenze di fondo
del Meridione contemplano una ristrutturazione sistematica attraverso un
serio e concreto programma di infrastrutturazione, al fine di corrispondere
alla intima e vera vocazione territoriale. Così come occorre pensare
ad una fiscalità di vantaggio e alla sperimentazione di sistemi
e servizi innovativi, capaci di innescare processi virtuosi in termini
di sviluppo.
La riforma muta significativamente l'architettura
dello Stato, rafforzando i poteri del Premier, riformando i criteri di
nomina del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale,
modificando le prerogative del Capo dello Stato, ma soprattutto introducendo
la tanto discussa devolution.
Ebbene, noi della Casa delle Libertà
voteremo sì alla riforma perché ne cogliamo il tratto radicalmente
innovativo, capace di abbattere le mura che ancora resistono al cambiamento.
Se infatti è caduto il muro di Berlino e conseguentemente la cortina
di ferro dell'intero assetto sovietico e più tardi si è sgretolata
la muraglia cinese con un volume di traffici da e per l'Asia impressionante,
non è pensabile mantenere in piedi una barriera fisica, culturale
e socio-economica.
Bisogna aprire il Sud alla competizione.
Occorre intervenire per liberalizzare i servizi pubblici ed elevare il
grado di consapevolezza e di partecipazione dei cittadini e delle imprese.
A sua volta il Mezzogiorno, con la riformacostituzionale che sancisce la
devolution, deve interrogarsi sul proprio ruolo strategico, di giacimento
culturale e patrimonio ambientale, oltre che di infrastruttura naturaleprotesa
nel Mediterraneo. Il Mare nostrum deve riacquisire il proprio, fondamentale
ruolo attraverso un impegno attivo delle Regioni e dei Comuni chiamati
a gestire bene le risorse proprie e quelle dei trasferimenti statali o
derivanti da finanziamenti comunitari.
L'obiettivo è quello di una progressiva
integrazione dell'aria meridionale a partire dalla sua antica capitale
- penso a Napoli e all'area metropolitana di Roma - al fine di creare una
connessione stabile e, successivamente, una struttura di legame tra Lazio
e Campania, mediante quello che abbiamo definito "progetto Roma-Neapolis".
Si tratta di corrispondere ai processi di integrazione del Centro-Nord
attorno alle città di Milano, Torino e Genova. Questo sarà
possibile solo ed esclusivamente per gli evidenti vantaggi e benefìci
della devolution.
Presidenza del vice presidente DINI (ore
11,30)
(Segue LAURO). Dunque, la devolution è
una grande opportunità per realizzare una svolta epocale, capace
di modificare positivamente i destini del nostro Paese. Calare questa nuova
grande riforma nel quadro delle innovazioni legislative che questo Governo
è stato capace di realizzare assieme al Parlamento significa completare
la trasformazione del Paese. Si tratta di una vistosa e generale trasformazione
che non potrà non arrecare miglioramenti alle condizioni economiche
e sociali degli italiani, perseguendo una razionalizzazione della spesa,
investimenti in grandi opere e un'accorta gestione di servizi pubblici
grazie ad una campagna di intensa infrastrutturazione del Paese.
I caratteri della riforma sono chiari.
Prevedono che anche le Regioni abbiano potere legislativo esclusivo per
l'assistenza, l'organizzazione sanitaria, l'organizzazione scolastica,
la gestione degli istituti scolastici, la definizione della parte dei programmi
scolastici e formativi di interesse specifico della Regione, la polizia
amministrativa regionale e locale. È stata prevista, tuttavia, una
clausola di interesse nazionale. Il Governo può bloccare una legge
regionale se ritiene che questa pregiudichi l'interesse nazionale e potrà
invitare la Regione a cancellarla; ove la risposta sarà negativa,
la questione sarà sottoposta al Parlamento in seduta comune che
avrà 15 giorni di tempo per annullarla.
Quanto ad altri aspetti della riforma,
vanno sottolineate la riduzione dei parlamentari e l'introduzione di clausole
di garanzia nei due rami del Parlamento a favore delle minoranze, in una
ottica semplificatrice. Inoltre viene snellito l'iter legislativo dei provvedimenti,
sfuggendo al rigido bicameralismo e adottando procedure e tempistiche in
linea con la necessità dei nostri tempi. Un'ulteriore novità
è quella della modifica delle modalità di elezione del Capo
dello Stato quale supremo garante della Costituzione.
Vengono poi previste in Costituzione le
figure delle autorità amministrative indipendenti. Lo stesso ruolo
dell'Esecutivo è pienamente rafforzato sia per il funzionamento
del Consiglio dei ministri, sia per quelle misure volte ad impedire i cosiddetti
ribaltoni. Vi è in definitiva uno sviluppo dei rapporti di collaborazione
tra gli enti all'interno di una cornice data dal principio di sussidiarietà
con il sigillo del sistema delle conferenze. Questa innovazione non è,
infatti, nemica dell'unità dello Stato, perché rende sempre
possibile il ricorso ad un referendum sulle leggi costituzionali ed anzi
modifica la disciplina del potere sostitutivo statale a garanzia dell'unita
nazionale, nonché la procedura relativa al rispetto dell'interesse
nazionale da parte delle leggi regionali.
Viene modificata la composizione della
Corte costituzionale in cui i giudici saranno eletti dalla Camera, dal
Senato, dalle supreme magistrature e dal Presidente della Repubblica, prevedendo
altresì forme di impugnative delle leggi da parte degli enti locali.
Mi fermo alla elencazione di una parte
dei contenuti per ribadire la loro efficacia e la loro rispondenza alle
esigenze del nostro Paese di fronte a mutamenti giganteschi, rispetto ai
quali non si può rimanere fermi come i paracarri. Per questo, colleghi
senatori, sono lieto di annunciare convintamente il voto favorevole della
Casa delle Libertà. (Applausi dei senatori Carrara e Pastore. Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritta a parlare la senatrice Acciarini. Ne ha facoltà.
ACCIARINI (DS-U). Signor Presidente,
ci troviamo a discutere un tema di enorme importanza, cioè la modifica
profonda e radicale della nostra Costituzione, in condizioni assai difficili,
con tempi ristretti, chiaramente con una marcata volontà di fare
in fretta, perché un atto del genere certamente non onorerà
il Parlamento italiano.
Penso che molti degli aspetti di questa
proposta di modifica siano gravi e facciano complessivamente pensare un
po' a un minestrone di fra Galdino in cui si è buttato di tutto
per avere tutti i gusti, ma il risultato è che manca, dietro questa
proposta, innanzitutto un'idea di Paese, un'idea di società. Per
quanto mi riguarda, anche per valutare con attenzione un aspetto specifico,
mi soffermerò sugli aspetti più significativi del sistema
dell'istruzione del nostro Paese.
Vorrei ricordare che, per chi si occupa
di scuola, non stupisce più di tanto che oggi un'importantissima
sentenza della Consulta censuri in modo chiaro quanto in questi anni è
stato compiuto da questo Governo in termini di depauperamento dei poteri
delle Regioni e degli enti locali. Infatti, chi si occupa di scuola ha
assistito, in questo periodo, alla presenza di un Governo estremamente
centralizzatore, che, malgrado non abbia formalmente abrogato l'autonomia
scolastica, ha fatto di tutto per spegnere l'elemento essenziale di un'idea
di decentramento reale delle competenze: il riconoscere a ciascuna istituzione
scolastica l'autonomia. È un'autonomia che era stata riconosciuta
già dalla legge n. 59 del 1997, quindi da una legge ordinaria, attraverso
una norma specifico. Un principio, quello dell'autonomia scolastica, cui
era stata riconosciuta rilevanza costituzionale, perché inserito,
come principio costituzionale, nella modifica del Titolo V introdotta nella
precedente legislatura.
Questo Governo ha avuto più volte
difficoltà, per usare un eufemismo, a interpretare correttamente
il rapporto tra Stato, Regioni ed enti locali, tant'è che non sono
poche e sono a conoscenza di tutti le sentenze con cui le Regioni hanno
vinto e parallelamente, purtroppo, lo Stato ha perso (e questo non va bene)
controversie che riguardavano, appunto, le competenze degli organi dello
Stato.
Peraltro, devo ricordare il ripetuto comportamento
del Governo nell'emanare i decreti attuativi della legge delega n. 53 del
2003, anch'essi molto significativi. Infatti, sono tutti decreti importanti,
ma quello che riguarda la sostituzione dell'obbligo scolastico con il fumoso
diritto-dovere e quello relativo al sistema complessivo dei cicli della
scuola secondaria sono particolarmente significativi; ebbene, in entrambi
i casi non c'è stata l'intesa con le Regioni, un'intesa quanto mai
necessaria, perché il sistema dell'istruzione e formazione deve
trovare non nella contrapposizione o nella reciproca diffidenza, ma nella
concertazione le modalità per dare i migliori risultati nell'interesse
di tutti i cittadini. Eppure, il Governo a tutto questo non ha badato e
ha sempre proceduto ignorando i pareri contrari e soprattutto - e se ne
vedranno gli effetti fortemente negativi - il fatto di non aver raggiunto
l'intesa necessaria sui decreti per cui ciò era richiesto.
Voglio portare un solo esempio concreto.
L'assenza di intesa per quel che riguarda l'istruzione e la formazione
secondaria è gravissima, in quanto l'istruzione e la formazione
professionale terminano al quarto anno; si prevede un anno integrativo
per poter accedere all'università e, in assenza di intesa, questa
norma rischia veramente di non avere alcuna possibilità di attuazione.
Come ho detto, quindi, si tratta di un
Governo estremamente accentratore che adesso, ignorando il quadro, secondo
noi limpido, delle competenze segnalato precedentemente, interviene con
una serie di norme. Tali norme, per quel che riguarda l'istruzione, ignorano
volutamente un assetto chiaro delle competenze segnato dalla Costituzione,
e, prima ancora, dalla citata legge n. 59 del 1997 e dal decreto n. 112
del 1998, applicativo di quella legge.
In tutti questi strumenti normativi era
delineata un'idea chiara delle competenze dello Stato, delle Regioni e
degli enti locali: la competenza esclusiva sulle norme generali dello Stato,
la competenza concorrente in materia di istruzione e la competenza esclusiva
delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale. Tutto
ciò, con tutta una serie di atti già in corso, compiuti appunto
sulla base della legislazione ordinaria, e un'autonomia scolastica che
viene ribadita, ma che in realtà è stata disconosciuta in
questi anni e rischia di essere ulteriormente compromessa dall'approvazione
di questa modifica costituzionale nefasta - uso questo termine senza timori
- per la scuola e per il sistema dell'istruzione e formazione professionale.
In realtà, quanto viene scritto
sull'affidare competenza esclusiva, dal punto di vista legislativo, alle
Regioni sul tema dell'istruzione, in parte è già in essere,
e, soprattutto se si riconosce l'autonomia scolastica, non può essere
oggetto di intervento centralizzato. Ad esempio, ricordo che la gestione
degli istituti è demandata alla scuola già dall'articolo
23 della legge n. 59 del 1997; questo è già stato fatto e
alcuni termini, quindi, rischiano soltanto di creare caos e confusione
legislativa.
Se così non è, e dunque,
in realtà, ben di più si vuol far scaturire da questa modifica
costituzionale, emerge allora che il problema non è il decentramento,
che era già ampiamente previsto ed era possibile potenziare e valorizzare
attraverso le norme esistenti, ma un'altra idea: quella della frantumazione
della scuola, che invece è sempre stata un'importante elemento della
nostra unità nazionale e che possiamo dire abbia favorito anch'essa
un processo di unificazione.
Perché mi sento di dire che probabilmente
è lì che si vuole arrivare e che si pensa di passare attraverso
la scuola per frantumare il nostro sistema di istruzione? In realtà,
il punto cruciale riguarda - anche qui è estremamente imprecisa
l'esposizione - l'assunzione di una competenza legislativa esclusiva in
materia di programmi, che le Regioni possono decidere di avocare a sé
senza precisare, tra l'altro, in quale parte e in che misura ciò
può essere fatto. Questo aspetto preoccupa il mondo della scuola
e tutti coloro che temono una frantumazione del sistema di istruzione e
formazione perché, da un lato, già la legge delega n. 53
del 2003 ha previsto comunque una quota demandata alle Regioni (in questo
caso, però, decisa centralmente dal Governo) e, dall'altro, esiste
e deve esistere una quota opzionale lasciata all'autonomia delle singole
scuole.
A tale proposito, non riesco proprio a
comprendere il significato di avocare alle Regioni la scelta di intervenire
così pesantemente sui programmi della scuola, che diventa un modo
di creare venti ipotesi diverse. Del resto, non è un mistero per
nessuno che, dove in qualche modo questa idea si è realizzata, si
sono viste aumentare a dismisura ore di lezione e pagine di libri destinate
a temi di natura strettamente locale e si è visto lanciare in grande
il discorso dell'insegnamento del dialetto.
Chiarisco subito che è importante
che la scuola abbia un rapporto costruttivo e vitale con il territorio
in cui è collocata, e difatti l'autonomia scolastica era destinata
proprio a superare un'idea di centralizzazione esasperata che rendeva impossibile,
o quanto meno difficile, questo rapporto proficuo. Sentivo parlare prima
di modernità: era un discorso pienamente in atto che andava soltanto
aiutato invece di essere - come è avvenuto in questi cinque anni
- umiliato, demotivato, spesso privato delle risorse necessarie, perché
le scuole hanno subìto tagli pesantissimi proprio a quelle risorse
che permettevano di gestire l'autonomia scolastica. Quindi c'è stata
una volontà chiara di schiacciare l'autonomia scolastica, che permetteva
un rapporto efficace tra scuola e territorio, nel quadro però di
una scuola comunque elemento essenziale dell'unità nazionale.
Anche il tema della lingua è da
assumere con grande attenzione, perché certamente aspetti della
cultura e della letteratura dialettale possono intervenire proficuamente
da un punto di vista didattico (non lo disconosco minimamente), ma deve
essere ben evidente che l'insegnamento della lingua italiana è elemento
importantissimo per far sì che veramente la scuola sia anche strumento
di promozione sociale, perché l'italiano è la lingua attraverso
cui si compiono gli atti importanti della nostra vita nazionale, il modo
attraverso cui si interagisce come cittadini con lo Stato.
Di conseguenza, dare lo strumento linguistico
ai ragazzi è un elemento fondamentale della democrazia e non è
così facile e semplice pensare - come, del resto, si è già
fatto - di sottrarre ore all'insegnamento dell'italiano per destinarle
a quello dei dialetti, perché si rischia veramente di creare una
cultura di secondo grado non supportata da una cultura fondamentale che
riguardi la conoscenza della lingua e della letteratura del nostro Paese,
che meritano il massimo dell'attenzione e rivestono un grande significato
non soltanto in Italia, ma nel mondo. Questo processo è estremamente
rischioso e si sta già compiendo.
Non so quanti hanno avuto occasione di
venire a conoscenza, ma qualche giorno fa c'era un genitore che scriveva
ad un giornale stupito del numero delle pagine del libro del figlio che
non avevano un respiro di cultura generale e si soffermavano invece su
aspetti estremamente particolaristici. Ebbene, gli aspetti estremamente
particolaristici dei programmi, l'insegnamento dei dialetti si possono
avere, ma in un quadro didattico che, innanzitutto, dia tutti gli strumenti
per essere cittadini del Paese, non sottraendo quindi ore alla conoscenza
della lingua e della letteratura italiana e di tutti gli aspetti culturali
ad esse connessi.
In sostanza, questo è il vero motivo
per cui il tema della scuola è stato modificato; se interessava
soltanto l'aspetto delle competenze e delle funzioni, era già in
atto un quadro che permetteva di dare veramente valore al decentramento,
che condivido, al fine di rendere il luogo di formazione delle decisioni
il più vicino possibile ai cittadini che devono interagire con il
sistema di istruzione e di formazione.
Con le leggi e la riforma costituzionale
introdotte nella precedente legislatura, esistevano già tutti gli
strumenti per garantire il decentramento. Non c'erano - e non li volevamo
- gli elementi per frantumare il nostro sistema, per abbassare il livello
culturale della nostra scuola e per perdersi in mille rigagnoli regionali.
(Richiami del Presidente). Signor Presidente, mi avvio a concludere.
Questa è una visione di accentramento
nei confronti del potere regionale, non di autonomia e federalismo. Ritengo
perciò che questo sia uno dei tanti aspetti che testimoniano come
il Governo stia dando delle picconate alla scuola italiana, ma non solo.
(Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U e del senatore Michelini).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Tonini. Ne ha facoltà.
TONINI (DS-U). Signor Presidente,
l'ambiziosa riforma costituzionale, che giunge oggi al traguardo finale
dell'esame parlamentare, ma che dovrà poi affrontare l'assai meno
scontato esame popolare, aveva preso le mosse pure tra mille contraddizioni
che in un secondo momento si sarebbero rivelate preponderanti, all'insegna
di una parola d'ordine ragionevole e condivisibile: completare la transizione.
Alla base della riforma veniva posta la
constatazione - condivisa e condivisibile - del carattere incompiuto del
bipolarismo italiano e la necessità di favorirne la maturazione
attraverso un intervento di riforma costituzionale che da un lato avrebbe
dovuto guardarsi dagli opposti pericoli della restaurazione conservatrice
del vecchio ordine proporzionalistico e consociativo da un lato e, dall'altro,
dello stravolgimento avventuristico della nostra Carta fondamentale in
una direzione presidenzialistico-plebiscitaria sulla forma di governo e
separatistico-dissolutiva sulla forma di Stato.
La giusta opzione mediana si concretizzava
nell'assunzione, da parte della maggioranza di centro-destra, di due capisaldi
del riformismo costituzionale del centro-sinistra: il Governo del Primo
ministro come alternativa neoparlamentare sia al vecchio assemblearismo-proporzionalitstico
che alle diverse forme di presidenzialismo, considerate estranee alla tradizione
europea, con la sola rilevante eccezione del semipresidenzialismo francese;
e il federalismo cooperativo, come introdotto, sia pure in modo tutt'altro
che compiuto e perfetto, dalla riforma del Titolo V, approvata nella scorsa
legislatura e confermata in questa dal voto popolare. Una riforma anch'essa
da completare, da correggere in taluni aspetti, ma non da azzerare; verrebbe
da dire innanzi tutto da attuare e rispettare, come la Corte costituzionale
ci ha indicato con le ultime sentenze.
L'approccio originario della Casa delle
Libertà si era rivelato avveduto sul piano della cultura costituzionale,
ma anche politicamente abile.
Accantonando il presidenzialismo caro
ad Alleanza Nazionale, imbrigliando nel federalismo le spinte separatiste
della Lega Nord, contrastando le nostalgie proporzionalistiche di una parte
almeno dell'UDC ed assumendo invece i capisaldi della cultura riformatrice
del centro sinistra, la maggioranza aveva posto le premesse per un dialogo
riformatore, positivo, virtuoso.
La riprova dell'abilità politica
di questa scelta, oltre che della saggezza costituzionalistica di questo
approccio originario, giunse proprio dall'aprirsi di un aperto e franco
dibattito in seno al centro-sinistra tra posizioni pregiudizialmente chiuse
al confronto e posizioni invece apertamente disponibili al dialogo riformatore,
nello spirito di un onesto compromesso costituente.
Come lei sa, signor Presidente, e come
è noto ad alcuni dei nostri colleghi, sono tra quanti assunsero
questa seconda posizione di apertura riformatrice nel dibattito in seno
al centro-sinistra; ma questo dibattito si è rapidamente spento,
non per il prevalere all'interno dell'opposizione di questo o quell'orientamento,
quanto piuttosto per il carattere deludente, perché confuso sul
piano politico-culturale ed approssimativo su quello tecnico, con il quale
da pur giuste premesse si è arrivati alla confezione della proposta
emendativa della seconda parte della nostra Costituzione.
E così, per quanto riguarda la
forma di Governo, anziché affinare la proposta intervenendo sul
delicato tema del potere di scioglimento in capo al Primo ministro, avete
scelto la via impervia delle norme antiribaltone, che irrigidiscono in
modo irragionevole la dialettica maggioranza-opposizione fino a consegnare
nei fatti il potere di scioglimento alle minoranze della maggioranza parlamentare.
Altro che strapotere del Primo ministro! Soprattutto, la riforma della
forma di Governo che voi proponete ignora completamente il nodo cruciale
delle garanzie nel maggioritario, eludendo la inderogabile definizione
dello Statuto dell'opposizione e la terzietà degli istituti di garanzia.
Certamente il testo contempla il principale
dei contrappesi al rafforzamento dell'Esecutivo: il federalismo regionale,
la riforma del Senato in senso federale. Ma la riforma fallisce sul terreno
più delicato e decisivo, quello della ripartizione delle attribuzioni
tra Camera e Senato nel procedimento legislativo. Su questo terreno l'esito
è talmente confuso e caotico da mettere a serio repentaglio la tenuta
stessa del sistema, come ebbe a denunciare lo stesso Presidente del Senato.
L'esito deludente di un iter riformatore, che pure aveva avuto un avvio
non disprezzabile, ha portato la maggioranza a revocare nei fatti, anche
se non con chiare ed oneste parole, la giusta premessa iniziale.
Con la riforma elettorale che avete presentato
in parallelo al voto finale sulla riforma costituzionale - un parallelismo,
consentitemi colleghi, che ha dato al Paese la sgradevole sensazione di
uno scambio e di un commercio tra riforma elettorale e riforma costituzionale
- avete nei fatti sostituito il completamento della transizione con il
suo ribaltamento, la sua revoca nel dubbio più radicale, forse -
viene da dire - perché nel frattempo è mutata la previsione
delle vostre convenienze partigiane.
Forse per questa ragione, forse per altre
il dialogo e l'intesa parlamentare che non siete riusciti a stabilire su
un terreno dove dovrebbe essere raccomandata se non obbligata - quello
costituzionale - con la legge elettorale antimaggioritaria, ovvero una
legge che tende ad impedire il formarsi di una chiara maggioranza politica
in Parlamento, che state per approvare, vorreste rendere questo dialogo,
questa intesa parlamentare, questo accordo parlamentare indispensabile
per l'ordinaria attività legislativa e perfino per la formazione
del Governo.
Insomma, sulle regole volete decidere
a colpi di maggioranza, mentre prefigurate una normalità consociativa
per il confronto politico-parlamentare e per l'attività dello stesso
Governo. No, signor Presidente, se questo è l'esito di un processo
che pure era partito da una premessa giusta, non possiamo che votare contro
questa riforma. Chiederemo al popolo di bocciarla nel referendum e faremo
una onesta e chiara battaglia davanti al Paese. Sarà il prossimo
Parlamento, al quale avanzeremo una proposta nuova nel metodo, che faccia
tesoro dell'esperienza della Convenzione europea e capace nel merito di
fare tesoro di quelle buone premesse che voi non siete riusciti a non sprecare,
a dover riprendere e riannodare il filo che voi non siete riusciti a non
smarrire. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U e del senatore Michelini).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Michelini. Ne ha facoltà.
MICHELINI (Aut). Signor Presidente,
onorevole Sottosegretario, quando più Stati si uniscono tra loro
per esercitare in comune alcune funzioni, rinunciando in parte alla loro
sovranità, possono dar vita ad una istituzione che assume la forma
della federazione.
Dunque, il federalismo è un processo
di aggregazione tra più Stati sovrani, ma in Italia questa accezione
viene usata per indicare un fenomeno esattamente contrario, e cioè
il decentramento di funzioni dallo Stato alle Regioni. Un fenomeno che
fa discutere molto in questi tempi, proprio perché la maggioranza
parlamentare ha ritenuto di imprimere un taglio federale alla riforma della
Costituzione che stiamo esaminando in seconda lettura.
L'opinione pubblica è assai sconcertata
poiché questo federalismo all'italiana viene percepito come un tentativo
di disgregazione dell'unità nazione e, comunque, come un cedimento
ai localismi. Vi è la preoccupazione della proliferazione dei governi
locali con i relativi apparati burocratici e, dunque, dell'aumento eccessivo
della spesa pubblica.
Le preoccupazioni sono fondate ma, per
comprendere se il pericolo è reale o soltanto teorico, è
opportuno guardare dentro a questo nostro federalismo, e non tanto nel
modello - purtroppo molto confuso - che ci viene dalla modifica della Costituzione,
quanto dall'esperienza che viene da più di mezzo secolo di regionalismo.
Esaminando con attenzione questa nostra esperienza è possibile superare
anche molti luoghi comuni e la cattiva conoscenza di una realtà
denunciata spesso come privilegio, anziché come visione illuminata
dei Costituenti del 1948.
In Italia vi sono già casi di autonomie
molto forti come quelle attribuite alle Regioni a statuto speciale da puntuali
e distinte leggi costituzionali. Con quelle leggi si stabiliscono le materie
di competenza esclusiva e concorrente delle Regioni e dello Stato e si
attribuiscono o si devolvono, in tutto o in parte, i gettiti dei tributi
dello Stato riscossi nelle Regioni stesse. Nonostante gli statuti di queste
Regioni siano sostanzialmente uguali, diversa è la loro attuazione
poiché diverso è lo spirito con il quale si vive la dimensione
autonomistica nei rispettivi territori. Nelle Regioni del Nord (Valle d'Aosta,
Trentino-Alto Adige/Südtirol e Friuli-Venezia Giulia), lo spirito
è quello dell'"esclusività", mentre nelle Regioni del Sud
(Sicilia e Sardegna), lo spirito è quello dell'"aggiuntività".
Mi spiego. Nelle Regioni settentrionali
l'autonomia viene vissuta come un insieme di competenze sul quale la popolazione
e le istituzioni locali esercitano il governo in maniera esclusiva e non
tollerano quindi né interferenze né sovrapposizioni dello
Stato, al quale viene comunque riconosciuto il diritto-dovere di governare
nelle materie ad esso riservate dallo Statuto di autonomia. Ne consegue
che le risorse tributarie riscosse localmente vengono distribuite tra le
Regioni e lo Stato in proporzione diretta all'ammontare dei costi di esercizio
delle rispettive competenze.
Nelle Regioni meridionali, invece, l'autonomia
viene considerata sì come un insieme di competenze sulle quali esercitare
localmente il governo, ma ciò non in maniera esclusiva, bensì
concorrente con lo Stato e quindi non solo si tollera, ma anzi si auspica
e si promuove l'intervento dello Stato, al quale viene chiesto di legiferare
sia nelle materie ad esso riservate dallo Statuto di autonomia sia, in
aggiunta, nelle materie che lo stesso statuto riserva alle Regioni.
Ne consegue che le risorse tributarie
riscosse in quelle Regioni vengono devolute in tutto o in parte alle autonomie
locali e ad esse si aggiunge una molteplicità di assegnazioni finanziarie
che lo Stato dispone a favore di quelle Regioni o con finanziamenti mirati,
ovvero con il riparto di fondi settoriali. Per le Regioni ordinarie, i
cui Statuti sono retti da leggi ordinarie e dove quindi il confine tra
competenze attribuite ai poteri locali e competenze riservate allo Stato
è meno netto, prevale lo spirito di aggiuntività con accenti
sempre più marcati mano a mano che si passa dal Nord al Sud del
Paese.
Lo spirito dell'esclusività è
appena tollerato dai poteri centrali, i quali ritengono che le attribuzioni
di funzioni in ben specificate materie alle Regioni, così come disposto
dalla Costituzione - articoli 116 e 117 - costituiscano un limite ai loro
poteri legislativi ed esecutivi.
II legislatore nazionale non si preoccupa
minimamente di invadere il campo delle Regioni e lo dimostrano le numerose
sentenze della Corte costituzionale pronunciate a difesa delle prerogative
delle Regioni stesse. Alla stessa stregua non si preoccupa il Governo di
un simile comportamento e gli esempi di invasione di campo sono molteplici:
basti pensare al Ministero della salute ed al Ministero per le politiche
agricole, che sono risorti rispettivamente sulle ceneri del Ministero della
sanità e dell'agricoltura, aboliti con referendum popolare dopo
che le loro competenze erano state trasferite alle Regioni.
Ciò che resta da considerare è
che nello spirito di esclusività, che è comunque alimentato
dal sentimento di unità nazionale, si opera con chiarezza poiché
ognuno fa ciò che gli spetta. Nell'altro spirito, quello dell'aggiuntività,
ciò che si alimenta è la confusione: sovrapposizione tra
leggi nazionali e leggi regionali nelle stesse materie, duplicazione di
spese nazionali e spese regionali per gli stessi scopi, scoordinamento
tra interventi nazionali ed interventi regionali per iniziative uguali.
Lo spirito dell'aggiuntività non
produce quindi un buon esempio né dì centralismo né,
come si dice oggi, di federalismo, ma nonostante questa sia la strada da
non scegliere, sarà comunque quella praticata. Secondo il disegno
di legge costituzionale in esame, le Regioni non hanno infatti referenti
forti in sede nazionale e poi manca un rapporto organico tra Regioni e
Stato.
Il Senato federale della Repubblica che,
almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto svolgere funzioni di raccordo e
di rappresentatività degli interessi regionali, non ha nessun rapporto
con le Regioni e non è certo la coincidenza dei tempi delle elezioni
dei senatori con quelli dell'elezione dei Consigli regionali che può
fare del Senato il luogo della sintesi politica delle Regioni, sia perché
esso è comunque organo dello Stato e non organo delle Regioni, sia
perché è sede legislativa e non politica come l'altro ramo
del Parlamento.
Le Regioni finiranno dunque per sottostare
alle leggi dello Stato e non soltanto a quelle previste dalla Costituzione
come leggi di principio entro le quali esercitare le competenze secondarie,
ovvero le leggi sul federalismo fiscale, ma anche le leggi settoriali di
spesa che perpetuano lo spirito dell'aggiuntività.
Concludo con un richiamo all'articolo
119, che tratta delle autonomie locali sotto il profilo finanziario e lo
fa nello spirito dell'esclusività. Esso è un articolo molto
difficile da attuare, tenendo conto che finora è rimasto lettera
morta nonostante i numerosi tentativi di attuazione compiuti. A complicare
le cose concorrono anche le norme finali di questo disegno di legge costituzionale,
in particolare quelle contenute nell'articolo 57, secondo le quali si dovrebbe
provvedere all'attuazione dell'articolo 119 entro tre anni, ma - attenzione!
- le risorse tributarie che derivano dall'autonomia impositiva di Regioni,
Province, Comuni e Città metropolitane non devono aumentare la pressione
fiscale complessiva.
Ciò fa riflettere molto perché
quello che stupisce non è il divieto dell'aumento della pressione
fiscale, in quanto la nostra è tra le più alte in Europa,
ma l'enormità del fatto che in Costituzione trovi domicilio un parametro
e non già un principio di politica economica e finanziaria. Un parametro
che non si ispira poi al principio dell'equità perché, a
parte l'indeterminatezza della sua commisurazione, non si può non
notare la contraddizione per cui la pressione fiscale può essere
aumentata per conferire risorse fiscali allo Stato e non anche per le esigenze,
anche singole, delle autonomie locali, Regioni comprese. (Applausi dai
Gruppi DS-U e Mar-DL-U).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Cambursano. Ne ha facoltà.
CAMBURSANO (Mar-DL-U). Signor Presidente,
onorevoli colleghi, l'11 marzo 1947, all'Assemblea costituente Benedetto
Croce pronunciò la famosa esortazione: «Ciascuno di noi si
ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo
voto meditato, un pungente e vergognoso rimorso». Chissà quanti
senatori della Casa delle Libertà seguiranno questa esortazione
di Croce. Temo purtroppo pochi e questo perché lorsignori hanno
ridotto ad oggetto di baratto la Carta costituzionale.
Il 15 aprile 1994, Giuseppe Dossetti -
da poco uscito dal monastero - scrisse una lettera all'allora sindaco di
Bologna (ora collega dei Democratici di Sinistra), Walter Vitali, per denunciare
i pericoli di una «modificazione frettolosa e inconsulta del patto
fondamentale del nostro popolo». Da quella lettera sorsero i Comitati
per la difesa della Costituzione. I cittadini italiani si stanno già
riorganizzando per riattivarli, per fermare questo scempio di riforma costituzionale!
La Costituzione non è una legge
qualsiasi, chiamata a dare risposte contingenti a problemi contingenti.
Il suo ruolo è di fissare e garantire ciò che è destinato
a restare stabile e valere per tutti e non per una parte politica soltanto,
anche se contingentemente e numericamente maggioritaria. Ed invece siamo
alla monarchia, anzi alla dittatura del numero o, per dirla con Tocqueville,
ad una «tirannide della maggioranza».
Per la prima volta un progetto di legge
di revisione - e quale revisione! - è stato introdotto da un'iniziativa
del Presidente del Consiglio (Atto Senato n. 2544 del 17 ottobre 2003,
è bene ricordarlo), come parte di un programma di Governo, non come
un'esigenza sentita e vera del Paese, ma per rispondere soltanto al ricatto
che un partito della maggioranza poneva al Governo, cioè la Lega
Nord. Vi ricordate, colleghi, quella frase famosa pronunciata dall'allora
ministro per le riforme, l'onorevole Bossi? Bossi disse: «Noi lanciammo
la secessione, che era una guerra allo Stato, e lo Stato rispose da par
suo. In guerra ognuno usa le armi che ha. Poi facemmo un armistizio e di
lì partì il federalismo come via d'uscita da quella guerra»!
Ma quale federalismo, onorevole Bossi, senatore Calderoli, senatore Pastore?
Dopo la sentenza di ieri della Corte suprema,
con la quale i giudici arrivano ad invalidare le norme varate dal Governo
perché «costituiscono una inammissibile ingerenza nell'autonomia
degli enti locali», si svela la palese contraddizione che ha caratterizzato
l'intera legislatura del Polo e della Casa delle Libertà: da una
parte, la retorica padana delle piccole patrie; dall'altra, la fame di
risorse del solito leviatano.
La maggioranza (vergognosamente assente,
peraltro, stamane!), cui si deve questa riforma costituzionale che sfascia
l'unità repubblicana, evita l'impopolarità di intestare i
tagli al welfare all'Amministrazione centrale e scarica tutte le responsabilità
sugli enti locali e sulle Regioni. Ma ora il trucco è svelato una
volta per tutte! La Lega Nord, l'intera Casa delle libertà non hanno
mai creduto ad un vero federalismo, altrimenti non si spiega che in cinque
anni non abbiamo realizzato il federalismo fiscale quale strumento vero
nelle mani dei territori, delle autonomie locali.
La verità è un'altra: al
federalismo questa riforma fa fare due passi indietro, ma avvia il percorso
verso la secessione, verso la divisione del Paese; rimette in discussione
i princìpi fondanti dell'unità nazionale, del senso dello
Stato e dei suoi valori, l'eguaglianza delle persone in dignità
e diritti; il riconoscimento delle autonomie sociali; i doveri di solidarietà;
la garanzia dei diritti civili, politici e sociali.
Signor Presidente,chiudo dicendole che
sono amareggiato e preoccupato: amareggiato, perché sono nipote
di un signore che a soli 27 anni, nel 1916, ha dato la vita per unire questo
Paese; perché sono figlio di un signore che a 30 anni non ha esitato
un istante a schierarsi con coloro che hanno combattuto per liberare questo
Paese dalla tirannia fascista, per ridare libertà e democrazia,
giustizia ed eguaglianza a tutti i cittadini italiani, quelli vecchi e
quelli nuovi. Tutto questo ora rischia di essere inutile; sono preoccupato
per la tenuta democratica del nostro Paese.
È già stato detto e scritto,
avete avvelenato i pozzi, svuotato le casse dello Stato, svenduto il suo
patrimonio, emanato leggi vergogna: falso in bilancio, scudo fiscale, conflitto
di interessi ed ex Cirielli. Toccherà agli italiani, con il referendum,
ma prima ancora con le elezioni politiche, fermarvi una volta per tutte!
(Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U. Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Calvi. Ne ha facoltà.
CALVI (DS-U). Signor Presidente,
onorevoli colleghi, anch'io non posso non iniziare questo mio intervento
senza sottolineare il sentimento di amarezza e di preoccupazione con i
quali ci accingiamo oggi a concludere la discussione di una riforma di
tale rilevanza.
Ricordo la passione civile e la cultura
istituzionale che consentirono, superando anche divergenze politiche e
ideologiche, la scrittura della nostra Carta costituzionale, forse tra
le più ammirate e progredite d'Europa.
Credo, quindi, che il nostro sia una atto
di testimonianza, ma non soltanto questo. Credo che sia anche un atto politico
e istituzionale premessa al prossimo passaggio referendario.
Desidero soffermarmi su alcune discrasie
e alcune asistematicità presenti nel testo che ci accingiamo ad
approvare. Inizio anch'io dalle parole, già ricordate in quest'Aula,
del giudice americano Marshall che nel 1803 fissò in una sentenza
della Corte suprema degli Stati Uniti il fondamento storico del controllo
di costituzionalità degli atti del potere legislativo.
Scriveva questo grande giudice: «La
Costituzione o è una legge suprema che non può essere cambiata
con i mezzi ordinari o un atto posto allo stesso livello degli atti legislativi
ordinari e che la legislazione potrà modificare quando vorrà.
Se la prima parte dell'alternativa è vera, un atto legislativo contrario
alla Costituzione non è una legge; se la seconda parte è
vera, allora le Costituzioni scritte sono dei tentativi assurdi di un popolo
per limitare un potere per sua natura illimitabile».
Sono frasi che fin dall'inizio del secolo
XIX hanno stabilito i criteri all'interno dei quali dobbiamo verificare
la possibilità di un controllo di legittimità sulla base
della coerenza costituzionale. Se poi la norma costituzionale instaurata
è ancora più forte come sistema di diritti di libertà
per i cittadini, la rigidità della norma costituzionale garantisce
la permanenza di quei diritti di fronte a qualsiasi tentativo del potere
legislativo.
Questo è quanto sta avvenendo oggi.
È chiaro che la rigidità del nostro sistema costituzionale
è mitigato dall'articolo 138 della Costituzione, e tuttavia diciamo
che quella rigidità, sia pur flessibile, è garanzia di quei
diritti di libertà per i cittadini che la nostra Carta costituzionale
ha sancito e dichiarato.
Ora, la funzione della Corte costituzionale
- come è noto - è quella di svolgere, nell'esercizio delle
principali competenze attribuite - il cosiddetto sindacato di costituzionalità,
allo scopo quindi di accertare la conformità con le norme della
costituzione o la non difformità da esse della diversità
degli atti che vengono emanati nella sfera costituzionale.
Ciò significa che la Corte costituzionale
è il passaggio decisivo per dare forza e legittimità all'intero
sistema ordinamentale del nostro Paese. Intanto partirei da un'osservazione
di carattere procedurale. È singolare, lo dico anche al relatore,
che siano stati previsti tre livelli, tre fasi, tre criteri di applicazione
delle varie norme.
La prima è quella della applicazione
immediata. La seconda è quella dell'applicazione riferita alla prima
legislatura successiva all'entrata in vigore della legge costituzionale,
e qui abbiamo la magistratura e la Corte costituzionale. La terza fase,
che riguarda il Parlamento, è prevista come applicazione riferita
alla legislatura che interverrà dopo il quinto anno successivo alla
prima formazione delle due Camere secondo il nuovo ordinamento. Siamo di
fronte qui ad un singolare caso: prima costituiamo l'organo e dopo molto
tempo costruiamo il soggetto che dovrà costruire l'organo stesso.
Mi sembra sia davvero una procedura assai
singolare, ma il punto su cui vorrei brevemente, per il tempo che mi è
concesso, fare alcune osservazioni critiche è proprio sul criterio
elettivo dei giudici e sulla composizione della Corte. Negli Stati Uniti,
i giudici della Corte suprema federale sono nominati dal Presidente con
il consenso del Senato; in Germania i giudici della Corte costituzionale
federale sono nominati per metà dal Bundesrat; in Spagna un terzo
dei giudici costituzionali sono eletti dal Senato. Questo perché
questi tre Paesi, Stati Uniti, Germania e Spagna, hanno una struttura federale,
questa è la sistemazione organica ordinamentale di questi Paesi
e naturalmente a questo punto è chiaro che la espressione della
partecipazione delle regioni alla nomina dei giudici costituzionali rappresenta
un pendant della forma dello Stato e del riparto delle competenze legislative.
Ma per noi così non è, perché
la Corte costituzionale ha come scopo la tutela della legalità costituzionale
dell'ordinamento nel suo complesso e le questioni sollevate davanti ad
essa non sono vertenze sorte tra due soggetti istituzionali, Stato e regioni,
ma sono problemi di compatibilità dell'atto in questione con l'intero
ordinamento giuridico. Di qui la necessità di avere un organo che
sia superiore a tutte le istanze mediate, di qui la conclusione che giustamente
viene sottolineata dal professor Azzariti che scrive: «Il principio
di legalità costituzionale inteso come principio necessariamente
unitario che alla Corte spetta essenzialmente tutelare non ha nulla a che
spartire, rimanendo ad esso estraneo, con il principio delle autonomie
territoriali».
Questo è il fondamento che ha portato
nel 1948 a costruire una Corte costituzionale che vedeva la partecipazione
alla sua formazione del Parlamento, del Presidente della Repubblica e delle
magistrature che convergevano nel dare uniformità di composizione,
al di sopra delle singole parti che si rivolgevano alla Corte stessa.
Invece, voi avete previsto un sistema
diverso. Voi avete previsto che la Corte costituzionale sia formata da
quattro membri nominati dal Presidente della Repubblica, quattro nominati
dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative, tre nominati dalla
Camera dei deputati, quattro nominati dal Senato federale, così
come è previsto in modo abbastanza analogo con i non togati del
Consiglio superiore della magistratura.
Allora, qual è la conclusione a
cui voglio giungere, signor Presidente? Che voi state contrabbandando uno
Stato federale che in realtà non c'è, e in assenza di una
sistematicità dello Stato federale, avete creato le premesse istituzionali
affinché quello Stato federale, che non c'è, funzioni, attraverso
organismi quali Corte costituzionale e Consiglio superiore della magistratura,
eletti da soggetti che invece nulla hanno a che fare con gli organismi
che abbiamo indicato (Consiglio superiore della magistratura e Corte costituzionale).
C'è una discrasia, c'è un'asistematicità
in tutto questo. La verità è che, a questo punto, occorre
tornare a quello che era il nostro ordinamento costituzionale, modificando
ciò che sarà necessario modificare. Per tutelare nel modo
più forte la nostra democrazia e il progresso democratico di questo
Paese, occorrerà senz'altro ripartire dalla nostra Costituzione,
per apportare modifiche che rafforzino la nostra democrazia e non la indeboliscano
così come state tentando di fare con la vostra riforma. (Applausi
dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U e dei senatori Michelini e Zancan. Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Falcier. Ne ha facoltà.
FALCIER (FI). Signor Presidente,
onorevole rappresentate del Governo, colleghi senatori, con l'esame e,
auspico naturalmente, con l'approvazione del disegno di legge costituzionale
n. 2544-D taglia il traguardo parlamentare il provvedimento di modifica
della Parte II della Costituzione. Il traguardo parlamentare è probabile
che non sarà quello definitivo, perché è prevedibile
che l'approvazione non avverrà in quest'Aula con la maggioranza
dei due terzi, e quindi la legge, dopo la sua pubblicazione, sarà
promulgata solo se, sottoposta a referendum, otterrà la maggioranza
dei voti validi.
È noto, perciò, che vi sarà
probabilmente un voto popolare definitivo, pur ritenendo fin d'ora che,
comunque, l'impegno assunto con gli elettori da parte della Casa delle
libertà viene soddisfatto e che alle riforme approvate in questa
legislatura è possibile ora aggiungere la più rilevante,
la più importante, ossia la riforma della Costituzione e degli organi
costituzionali dello Stato.
Era un obiettivo da molti e da lungo tempo
perseguito e raggiunto però dalla Casa delle libertà e che
si aggiunge, "in prima nazionale", ad altre riforme come quelle della scuola,
del sistema giudiziario e del lavoro.
Sarà difficile a chiunque, anche
agli avversari, agli scettici, ai pessimisti, agli ottusi, agli increduli,
non riconoscere che una grande riforma sarà, a grande maggioranza,
approvata dal Parlamento e che la stessa maggioranza ha avuto il coraggio,
l'ardire e la coerenza di portare a termine - grazie certamente alla Lega,
ma anche all'intera Casa delle Libertà - una riforma sulla quale
tanti altri si erano cimentati, ma solo con studi e Commissioni.
Nel merito, e tenendo conto, in qualche
modo, delle osservazioni e delle preoccupazioni emerse anche in questo
dibattito, quando tali osservazioni sono andate al di là delle numerose
polemiche pregiudiziali e preclusive di ogni reale forma di intesa o di
semplice collaborazione, cercherò di svolgere alcune brevi considerazioni.
La prima concerne l'accusa di stravolgere
l'attuale Costituzione. È un'accusa che va respinta. In ogni caso,
però, è da ricordare che, prima di queste ultime proposte
di modifica, la Costituzione italiana è stata modificata più
volte, in diverse occasioni, senza clamori e senza timori, e da parte di
varie maggioranze. Quindi, quando si difende la Costituzione sarebbe da
chiarire se si fa riferimento a quella del 1947 o a quella in vigore e
più volte modificata.
Le modifiche in passato hanno riguardato
i rapporti politici, le circoscrizioni estere, la tutela e le immunità
dei parlamentari, l'amnistia e l'indulto, i poteri del Presidente della
Repubblica negli ultimi sei mesi del suo mandato, le norme sul giusto processo,
ed altro ancora. La sacralità, del testo del 1947 è stata,
quindi, se si vuole, più volte violata.
Si vorrà riconoscere che, comunque
e fortunatamente, la situazione del 1947 era ben diversa dall'attuale e
pesi e contrappesi sono stati necessari allora per difendere una democrazia
debole e gracile, mentre dopo sessant'anni l'esigenza di adeguarsi a quanto
già previsto da altre Costituzioni europee è possibile ed
è un segno che la nostra democrazia si è consolidata, con
una legittimazione reciproca fra le varie forze politiche, anche antagoniste,
ma sicuramente democratiche ed in grado di assicurare l'alternanza.
Le modifiche più rilevanti, però,
sono state apportate nel 2001, a pochi giorni dalla fine della legislatura,
quando l'allora maggioranza, solo con i propri voti, ha tolto ogni supremazia
istituzionale allo Stato, equiparandolo, come rango costituzionale, ai
Comuni, alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni, con
tutte le conseguenze del caso; ha abolito qualsiasi controllo democratico
e burocratico, esaltando l'autonomia degli enti locali e delle Regioni,
fino ad eliminare ogni tutela dell'interesse nazionale e causando centinaia
e centinaia di conflitti fra Stato e Regioni che stanno "intasando" la
Corte costituzionale e l'operatività delle istituzioni della nostra
Repubblica.
La difesa dell'interesse nazionale, infatti,
è stata introdotta solo nella recente proposta di modifica costituzionale
per porre rimedio, tra l'altro, ad una situazione di anarchia e conflittualità,
senza contare gli enormi aumenti della spesa conseguenti alla riforma del
2001. L'interesse nazionale, quindi, non c'è nella riforma approvata
dall'Ulivo. Inoltre, è la Costituzione vigente (quella del 2001)
che ha creato Regioni di serie B e Regioni di serie A, prevedendo che «ulteriori
forme e condizioni particolari di autonomia» sono possibili relativamente
alle materie di legislazione concorrente, alla giustizia di pace, all'istruzione,
alla tutela dell'ambiente e ai beni culturali, materie che possono essere
date alle Regioni che lo chiedono, e quindi, creando i presupposti per
l'esistenza appunto di Regioni di serie A e Regioni di serie B; che ha
sconvolto le competenze dello Stato e delle Regioni, le quali ora hanno
competenza esclusiva (non sempre esercitata) in materia di industria, artigianato,
commercio e turismo e competenza concorrente per accordi con Stati esteri,
istruzione, tutela della salute, porti, aeroporti, sport, protezione civile,
produzione energia, ed altro.
Queste ed altre sono le competenze delle
Regioni (ai Comuni è stata data la possibilità di tributi
propri, ma a quanto sembra tale possibilità non viene esercitata,
intendendo per autonomia solo quella della spesa e non anche dell'entrata)
e non è stata la Lega, ma il centro-sinistra a volere questa situazione.
Sempre la riforma del 2001 prevede che
con legge regionale vengono ratificate, anche con l'individuazione di organi
comuni, le intese tra Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni,
introducendo quindi il virus della dissoluzione dello Stato, della creazione
potenziale, ma possibile, di super Regioni (forse si pensava allora alla
Padania), norma che la Lega e l'attuale maggioranza hanno eliminato, ripristinando
la tutela dell'interesse nazionale, riportando alcune competenze allo Stato
e prevedendo che le intese tra Regioni possano portare solo alla creazione
di organi amministrativi comuni.
Ricordo ancora che il testo in discussione
è in gran parte quello esaminato dalle Commissioni presiedute dall'onorevole
De Mita, dall'onorevole Iotti, e soprattutto, provenienti dalla Bicamerale
dell'onorevole D'Alema (ma allora, viene il dubbio, è proprio vero
che la stessa cosa è buona se la fa o la dice la sinistra ed è
negativa se la fa o la dice la Casa delle Libertà?).
Il maggior potere al Premier (già
previsto dalla Commissione D'Alema) è anche la conseguenza di scelte
già fatte ed indirizzate a dare enormi poteri ai sindaci, ai Presidenti
delle Province e delle Regioni, anche perché, quelli sì,
non il Premier, sono eletti direttamente dal popolo e se si dimettono,
si devono sciogliere le assemblee elettive.
In conclusione, si tratta ora, piuttosto,
di avviare un federalismo possibile e solidale, che preveda uno Stato autorevole,
Regioni autonome con proprie specialità.
Non vi dovrebbero essere difficoltà
a riconoscere che alcune modifiche della Costituzione erano ormai ritenute
utili, largamente condivise e sollecitate. Le scelte sono in coerenza ed
in armonia con la legislazione degli enti locali e delle Regioni, soprattutto
nell'esigenza di rafforzare le competenze dell'esecutivo; altre scelte
sono conseguenza e diventano necessarie per correggere modifiche già
avvenute al Titolo V della Costituzione e per l'avvio di forme di federalismo
non del tutto condivisibili, per quanto fatto in passato.
Probabilmente, ora è stato trovato
un giusto equilibrio, sono state eliminate alcune fughe in avanti che hanno,
tra l'altro, comportato - e comportano - un contenzioso dirompente tra
Stato e Regioni.
Sono ampiamente confermate le scelte di
completare l'opzione federalista, radicandola e rendendola organica e realizzabile;
di superare il bicameralismo perfetto; di modificare la forma di Governo,
in particolare i poteri del Premier; di confermare il ruolo di garanzia
del Presidente della Repubblica e di arbitro della Corte costituzionale.
Infine, la gradualità dell'entrata
in vigore della complessa normativa è una garanzia, diversamente
dal passato, perché la riforma abbia tutti gli effetti desiderati,
positivi e possa essere, se necessario, corretta ed integrata, dopo la
sua applicazione.
Per questi motivi ne auspico, come anticipato
all'inizio, la definitiva approvazione. (Applausi dai Gruppi FI e AN. Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Turroni. Ne ha facoltà.
TURRONI (Verdi-Un). Signor Presidente,
rappresentante del Governo, colleghi, sono comparsi adesso taluni colleghi
del centro-destra…
SPECCHIA (AN). Per ascoltarla!
TURRONI (Verdi-Un). …forse perché
dopo di me deve parlare il senatore Nania, un autorevole "saggio di Lorenzago".
Ne sono lieto, anche se questo mio incipit - chiamiamolo così -
non muta nella sostanza, ma risparmierà talune critiche che avrei
avanzato anche io, come i colleghi che mi hanno preceduto, per l'assenza
dei rappresentanti del Governo: per carità, è presente il
collega Brancher, ma dov'è il Ministro delle riforme… (Commenti
del sottosegretario Brancher), dove stanno gli altri "saggi di Lorenzago"?
Perché non siete tutti in Aula se è vero, come avete l'impudenza,
la sfrontatezza di dire, che questa è una grande, importante, democratica
riforma della Costituzione?
Non penso che l'assenza sia dovuta a pudore,
a vergogna per quanto state facendo. Se lo facessi, sbaglierei clamorosamente.
In realtà, a voi maggioranza della Costituzione, non importa nulla!
La sua modifica è il corrispettivo del costante mercimonio con cui
avete barattato leggi, posti, potere, regole per i vostri reciproci vantaggi
ed interessi, a cominciare da quelli privatissimi del Presidente del Consiglio,
sia che riguardassero le sue vicende giudiziarie, sia gli abusi edilizi
compiuti nella sua casa in Sardegna, la «casa abusiva delle libertà»!
Tre delle quattro formazioni politiche
che costituiscono questa maggioranza non hanno preso parte alla scrittura
della Carta costituzionale, il patto che i cittadini italiani hanno stretto
tra di loro in nome della libertà, dei diritti fondamentali, dell'uguaglianza,
della solidarietà. Di essa, di ciò che significhi a voi non
importa nulla! L'avete sostituita con il contratto con gli italiani, devo
dire una penosa sceneggiata televisiva, soprattutto alla luce di quanto
non siete stati capaci di fare, neppure sulle strade tanto sbandierate
a cui avete tagliato tutti i fondi, e l'avete sostituita con questo ignobile
testo che verrà spazzato via dagli italiani con il referendum.
Bene ha fatto il senatore Mancino questa
mattina a ricordare le parole di Calamandrei sulla Costituzione. Esse segnano
ancor più nella loro solennità la distanza abissale tra questa
vostra avventuristica iniziativa legislativa e quanto fatto dai Padri costituenti.
Dovevate essere tutti qua, tutti presenti in Aula; avreste dovuto intervenire,
sostenere, difendere, spiegare, rivendicare, applaudire e, se era pur vero
che questa fosse una occasione solenne, avreste dovuto sottolinearlo proprio
con una presenza massiccia.
A parte il senatore Nania, appena arrivato,
non ci sono neppure gli autoproclamatisi "saggi di Lorenzago": vi è
il senatore Pastore, ma più per dovere di istituto, di relatore,
di presidente di Commissione; ma Calderoli e D'Onofrio che fine hanno fatto?
Dove sono? Me lo chiedo, Presidente, perché siamo di fronte ad una
questione importantissima; non sono qui tra noi a confortarci con le loro
idee, con la loro stessa presenza, perché questo è un passaggio
importantissimo per la nostra Repubblica.
Non sono qua però, probabilmente,
sono da un'altra parte a fare qualcos'altro, ad occuparsi di quel mercimonio
di cui ho parlato prima perché questo è il fondamento di
questa maggioranza, dell'azione politico-parlamentare di questa maggioranza:
il mercimonio, la contrattazione per cui do una cosa a te perché
tu ne dia una a me!
Vede, Presidente, sempre rivolgendomi al
collega Nania, che è appena arrivato, e agli altri che hanno urlato,
quando abbiamo discusso in Aula il testo, la parola magica "antiribaltone",
ricordo che in quella circostanza citai un'altra parola utilizzata in un
film assai importante che aveva lo stesso magico significato: "supercalifragilistiche
spiralidoso". Lo ricorderanno i colleghi che hanno la mia età; quella
sembrava la parola capace di risolvere in quel musical tutti i problemi
che si manifestavano, così come la parola "antiribaltone" sembra
essere la cifra di questa riforma costituzionale, come se la norma introdotta
di per sé fosse capace di garantire un buon governo per il Paese.
Abbiamo spiegato più volte che
questa è una norma sbagliata in sé e che dovevano essere
anteposte alle esigenze e alle necessità delle coalizioni e delle
alleanze quelle del Paese, dell'Italia.
Abbiamo fatto l'esempio dell'Inghilterra,
che durante il periodo bellico vide la sostituzione dell'allora primo ministro
Chamberlain con Winston Churchill, senza andare necessariamente alle elezioni,
elezioni che sarebbero state drammatiche durante la guerra scatenata dai
nazifascisti in tutto il mondo.
Tuttavia voi pretendete e volete con questa
modifica della Costituzione che, anche nel caso fossero in gioco gli interessi
supremi del Paese, essi debbano essere posposti a quelli della vostra parte.
Questo però rappresenterebbe un disastro, posto che ritengo che
gli interessi dell'Italia, gli interessi collettivi, debbano prevalere
su quelli di parte.
Credo anche che quando pronunciate la
parola "antiribaltone" con tanta foga forse intendiate far dimenticare,
con il clamore e le grida, il fatto che i primi ribaltonisti siate stati
proprio voi. Mi riferisco a quando avete acquistato - perché di
questo si tratta - il voto di un collega in questo ramo del Parlamento,
un senatore che venne eletto nel Partito Popolare Italiano e che venne
prontamente ricompensato con incarichi prestigiosi che ricopre tuttora,
per consentirvi di formare il primo Governo Berlusconi. Voi allora non
avevate la maggioranza in Parlamento e questo perché non ve l'aveva
data il popolo italiano! Ebbene, compraste il voto di un parlamentare sia
per eleggere il Presidente del Senato, sia per ottenere la fiducia al primo
Governo Berlusconi: ricordiamole queste cose.
Un altro ribaltone venne fatto dalla Lega
Nord - noto che non è presente in Aula nemmeno un senatore appartenente
a quel partito - quando fece cadere il primo Governo di centro-destra nel
1994, riempiendo di insulti in quella circostanza e ricevendone di altrettanto
gravi, il Presidente del Consiglio e l'attuale Vice presidente del Consiglio.
Ricordo questo fatto, allora ero alla Camera dei deputati e rammento quel
ribaltone cui seguì il Governo Dini. Ebbene, ecco a chi parlate,
a voi stessi, parlate veramente a voi stessi!
Anche i due esperti in buchi che fanno
parte di questo Governo, mi riferisco a quello che si occupa di tunnel
e trivelle, il ministro dei lavori pubblici Lunardi, e quello che invece
produce buchi nel bilancio, il ministro Tremonti, fanno parte anch'essi
della schiera dei ribaltonisti, essendo stato il primo il consulente principe
del ministro dei lavori pubblici del Governo di centro-sinistra, Nerio
Nesi, che allora faceva parte dei Comunisti italiani, e il secondo eletto
nelle file del centro-sinistra. Come non ricordarlo, anche se questo, più
che ribaltonismo, potrebbe essere tacciato di trasformismo? Ma tant'è.
Ebbene, il secondo, l'esperto di buchi
nel bilancio, lo chaperon di Lorenzago, dopo il nuovo imbroglio della legge
elettorale, quella con cui pretendete e prevedete di limitare i danni della
sconfitta elettorale che incombe su di voi, ha cominciato a parlare di
grande coalizione da farsi dopo le elezioni. E allora dov'è la norma
antiribaltone, senatore Nania? Voi avete cominciato a parlare prima ancora
delle elezioni di ribaltoni da fare dopo le elezioni!
C'è l'onorevole Bondi che dice
che questo non si farà mai, salvo poi cambiare idea non appena qualcuno
gli avrà suggerito che non si deve intervenire in quel modo. Ma
da voi, dalle vostre file, sin dallo chaperon di Lorenzago è partita
la proposta di fare il vero ribaltone, che è quello di superare
il voto espresso dagli italiani, qualora si creino le situazioni per le
quali alcuni settori di questa maggioranza stanno lavorando alacremente,
per poter formare un Governo differente, quello sì un Governo ribaltonista!
In questo periodo, cari colleghi del centro-destra,
guardate un po' troppo alla Germania, e quindi il proponente di questo
ribaltone è lo stesso soggetto che ha tenuto per mano i "saggi di
Lorenzago" che hanno prodotto questa vergogna.
Arriviamo a questa vergogna, perché
è necessario che spenda qualche parola su questo argomento, anche
se lo faranno anche i miei colleghi che interverranno dopo di me. Noi Verdi
ci siamo battuti con vigore, lo abbiamo fatto in quest'Aula durante la
prima lettura, costantemente con le nostre dichiarazioni, con le nostre
ferme posizioni, con i gesti. Voglio dire qui che quando questa vergogna
veniva approvata alla Camera, poche settimane fa, il sottoscritto e un
altro gruppo di persone, anzi con un manipolo (magari questa parola piace
di più ai colleghi di Alleanza Nazionale), è andato a piantare
una bandiera tricolore nel prato di Pontida, da dove è partita l'iniziativa
contro la Costituzione repubblicana voluta dalla secessionista Lega Nord.
Sono andato lì con i miei colleghi
dei Verdi perché intendiamo riaffermare la questione fondamentale
che sta a cuore assolutamente a tutti. Nei cartelli e negli striscioni
che portavamo insieme a quella bandiera era scritto: «La devolution
spacca l'Italia», «La Costituzione difende i più deboli»,
«Giù le mani dalla Costituzione», «Viva l'Italia
unita».
Vi sarebbero potuti stare anche altri,
se non fossero coinvolti in quest'operazione che ho definito di mercimonio;
quando si fanno leggi che tutelano solamente interessi di una o dell'altra
parte siano essi materiali o di potere, i posti e così via, che
cosa è se non mercimonio? Sono sicuro che a Pontida non saremmo
stati soli, ma ci sarebbero stati anche altri a difendere l'unità
dell'Italia, a sostenere che le iniziative nefaste che hanno consentito
alla Lega, con il ricatto, di modificare la Carta costituzionale come state
proponendo. Non saremmo stati certamente soli; altri ci sarebbero stati
perché non è sufficiente dire di aver introdotto l'interesse
nazionale quando esso concretamente non compare da nessuna parte.
Non c'è interesse nazionale in
questa Costituzione, non c'è perché quello che voi avete
introdotto è solamente un vuoto richiamo. Lo abbiamo fatto in quest'Aula,
lo abbiamo fatto con i gesti simbolici come quello dell'occupazione del
prato di Pontida, lo faremo al momento del referendum. Allora ci impegneremo
fino in fondo, nonostante il tentativo che avete messo in atto possa spingere
gran parte degli elettori italiani a non andare a votare in occasione del
referendum sulla Costituzione, così come abbiamo fatto per le primarie,
a portare milioni di italiani a dire no alla vostra vergogna!
Toccherò ora alcuni piccoli aspetti
della riforma, cercando di riassumerli tutti; poi, come dicevo, i miei
colleghi si esprimeranno in maniera più approfondita sulle sue singole
parti.
Negli ultimi anni si è passati
dal mito della Costituzione al mito delle riforme costituzionali, considerate
come una possibile panacea capace di risolvere ogni tipo di problema dell'ordinamento
e della convivenza collettiva. Il riferimento alle disorganiche riforme
relative alla Costituzione materiale non prova nulla, se non che si sono
commessi degli errori che sarebbe stato meglio non ripetere: perseverare,
infatti, è diabolico.
Su questo disegno di legge di riforma
costituzionale si sta verificando una presa di coscienza dell'opinione
pubblica sulle gravi conseguenze che deriveranno all'Italia e a tutti i
cittadini dalla sua approvazione. Avete deciso di cambiare addirittura
la forma dello Stato perché alcuni astuti politici, chiamiamoli
così (qui sto citando Casavola, è lui che ha usato queste
parole, io avrei detto di peggio) hanno messo sul piatto della bilancia
la minaccia della secessione e altri hanno scambiato spinte populistiche
per interessi progressivi.
Orbene, nei rapporti fra gli organi costituzionali
che il testo prefigura vi è qualcosa di più profondo e radicale
di un cambiamento della forma di Governo; nel disegno complessivo, il mutamento
di quei rapporti è così deciso da determinare un'alterazione
degli equilibri di tale portata da incidere sulla stessa forma di Stato.
Il principio maggioritario voi lo avete
inteso come illimitato e insofferente di ogni vincolo, incompatibile con
la concezione di democrazia accolta dal costituzionalismo occidentale,
che prevede robusti argini e contrappesi al potere della maggioranza. L'esito
finale della riforma sembra essere proprio l'uscita dallo Stato di diritto
democratico (l'hanno detto molto meglio di me tanti colleghi autorevoli
stamattina). Non è solo la democrazia, infatti, a risultare annichilita:
di essa una parvenza, svuotata di contenuto, in qualche modo rimane; del
costituzionalismo, viceversa, non rimane assolutamente nulla, dal momento
che l'obiettivo della riforma è esattamente quello di liberare il
potere da ogni limite e controllo.
Come è stato sottolineato, vi è
una differenza sottile, ma in realtà profonda, fra un Capo dell'Esecutivo
che tragga la sua legittimazione da un'investitura personale e che crei
attorno a sé una maggioranza parlamentare che lo sostiene, e un
Capo dell'Esecutivo che sia investito nella carica in quanto espressione
di una maggioranza parlamentare che lo sostiene. È la differenza
che corre tra una democrazia tendenzialmente plebiscitaria, fondata sul
potere personale, e una democrazia maggioritaria, radicata in un sistema
di partiti che riacquistino la funzione costituzionale di strumento attraverso
cui i cittadini concorrono con metodo democratico a determinare la politica
nazionale, secondo il dettato dell'articolo 49 della Costituzione.
Signor Presidente,onorevoli colleghi,
signor rappresentante del Governo, noi Verdi manifestiamo tutta la nostra
contrarietà nei confronti di questo disegno di legge, contrarietà
che non si concluderà con le nostre dichiarazioni di voto, con la
nostra azione all'interno di questo Parlamento, ma che si riverserà
nel Paese, perché dobbiamo cancellare una vergogna e un'onta che
voi, in nome dei vostri interessi, in nome del vostro mercimonio, avete
voluto consumare da soli, senza considerare il fatto che le Carte costituzionali…
(Richiami del Presidente). Ho finito, signor Presidente.
Le Carte costituzionali, che rappresentano
il tessuto connettivo di una Nazione e di uno Stato (e qui non si parla
solamente del Titolo V), devono essere condivise da tutti, perché,
se così non è, non sono Carte costituzionali, ma sono rappresentazioni
degli interessi di una parte! (Applausi dai Gruppi Verdi-Un e DS-U).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Nania, poi interverranno i senatori Villone
e Crema; la seduta antimeridiana si chiuderà solo dopo l'intervento
del senatore Crema.
Il senatore Nania ha facoltà di
parlare.
NANIA (AN). Signor Presidente,
onorevoli senatori, siamo oggi qui a dibattere uno dei provvedimenti più
significativi di questa legislatura e più significativi in generale,
perché si tratta di discutere della riforma di uno strumento fondamentale,
quello che organizza la nostra convivenza politica, civile e sociale.
La prima cosa che voglio fare, parlando
del modo in cui noi abbiamo cercato di procedere in questa vicenda così
importante e al tempo stesso così sofferta, è distinguere
in maniera molto attenta e significativa tra la riforma di una Costituzione
essenziale e la riforma di una Costituzione come la nostra, che, come tutti
sanno, è ritenuta una delle più lunghe Costituzioni moderne;
anzi, la nostra per definizione è una Costituzione lunga, essendo
formata da 139 articoli e 18 disposizioni transitorie e finali.
Come ciascuno di noi, ciascuno di voi
sa e come bene intendono i cultori della materia, in un caso del genere
è fin troppo evidente che si opera una distinzione fondamentale,
che per la verità è contenuta anche nella nostra Costituzione
del 1948, tra princìpi fondamentali della Costituzione e parte organizzativa
della stessa.
Se non ci si rende conto che in una Costituzione
lunga vi è una distinzione di fondo tra valori di base e parte organizzativa,
si chiacchiera a vanvera, senza arrivare al cuore del problema. La Costituzione
del 1948 è appunto ripartita in Parte I, riguardante i principi
fondamentali, e Parte II, dedicata all'ordinamento della Repubblica.
Ebbene, ho fatto questa lunga premessa
per evidenziare che in questa riforma ci siamo occupati della seconda parte,
senza toccare minimamente i princìpi fondamentali e i valori di
base. E ciò lo abbiamo fatto in sintonia con una lunga tradizione
del processo riformatore costituzionale italiano che nelle varie Commissioni
bicamerali non si è mai occupato, neppure quando il processo costituente
è stato avviato con una legge ad hoc, di entrare nel merito della
prima parte della Costituzione. Mi riferisco alle varie Commissioni Bozzi,
Iotti-De Mita, D'Alema, che - ripeto - non hanno mai toccato i principi
fondamentali della Costituzione contenuti nella prima parte. La riforma
varata dall'Ulivo nel 2001 ha riguardato la seconda parte della Costituzione
e quella proposta oggi dalla Casa delle Libertà riguarda sempre
la seconda parte.
Questo passaggio mi sembra significativo
perché dimostra chiaramente come la grande proposta della quale
ci facciamo portatori altro non è che una proposta che si iscrive
nella tradizione del percorso riformatore italiano. Vi è di più.
Si tratta anche di un progetto che abbiamo portato avanti cercando di coinvolgere
il centro-sinistra. Ho ascoltato con molta attenzione l'intervento del
senatore Tonini, che ringrazio per la sua onestà intellettuale e
per la verità delle sue affermazioni.
Ebbene, ciò che è emerso
da quell'intervento sofferto è una singolare condizione nella quale
si trova la politica italiana per la quale se governa il centro-sinistra
può fare le riforme della Costituzione, e anche da solo; se invece
governa il centro-destra, per forza, per legge, perché diversamente
sarebbe reato, le riforme si devono fare insieme.
MORANDO (DS-U). Se citi Tonini parla di
quello che ha detto Tonini, non di quello che inventi tu.
NANIA (AN). Fin qui non ci sarebbe nulla
di strano. Il punto è che se non le vogliono fare insieme, non le
possiamo fare neppure da soli. Quindi, se governano loro se le fanno da
soli, se governiamo noi si devono fare insieme, ma non le vogliono fare
insieme, per cui la conclusione è che il centro-sinistra, secondo
il "politicamente corretto", dovrebbe decidere in questo Paese quando fare
le riforme da solo e quando insieme, mentre l'altra parte dello schieramento
politico deve aspettare le decisioni del centro-sinistra e sperare che
un giorno il centro-sinistra, pur essendo a favore del Premierato e della
Corte costituzionale integrata dai rappresentanti delle Regioni, si decida.
L'ultima menzogna l'ha dichiarata il senatore
Calvi poc'anzi quando ha detto che avremmo sconvolto la formazione della
Corte costituzionale per via dei rappresentanti dei Consigli regionali
e delle Regioni, dimenticando che si trattava di una proposta del centro-sinistra
durante i lavori della Commissione bicamerale; tant'è che l'articolo
135 di quella proposta afferma che la Corte costituzionale è composta
da 15 giudici: cinque eletti dal Presidente della Repubblica, quattro dalle
magistrature, tre - bontà sua! - dal Senato e tre dalle Regioni.
La Camera dei deputati kaputt, se non decide il centro-sinistra! Ma se
invece siamo noi a dire che la Camera dei deputati, essendo un organo politico,
non sarebbe giusto che indicasse i giudici della Corte costituzionale,
si scatena la rivoluzione, perché in questo Paese quando le proposte
vengono dagli scienziati del centro-sinistra sono sempre gradevoli e buone,
quando vengono da quegli zulù del centro-destra non sono mai ragionevoli.
Detto questo, il punto centrale qual è?
Noi abbiamo provato a fare le riforme insieme, ma c'è di più
anche dal punto di vista del metodo. Ci siamo incontrati in sede riservata
- diciamocelo chiaramente, perché alla storia di questo Parlamento
deve passare la verità dei fatti - con i colleghi del centro-sinistra,
anche perché, e lo faceva intuire ancora una volta il senatore Tonini,
noi di Alleanza Nazionale volevamo una forma di Governo semipresidenziale
alla francese, e il centro-sinistra ci ha fatto sapere, per le vie brevi,
di lavorare invece sul Premierato sul quale sarebbe stata possibile un'intesa.
Abbiamo quindi lavorato sul Premierato
e le proposte non sono state avanzate soltanto dal centro-destra. Si partì
con due proposte, una presentata dal senatore Malan, l'altra dal senatore
Tonini. Si cominciò a lavorare così e allo stesso modo si
doveva procedere, fino a quando non è scattata la cosiddetta tesi
dello scambio, del mercimonio.
Le nostre proposte, inoltre, le abbiamo
portate avanti dopo averle poste all'attenzione dell'opinione pubblica,
prima delle elezioni del 2001. Abbiamo cioè detto pubblicamente
- per la verità l'ha detto anche l'Ulivo, sia nel 2001 sia nel 1996
- che se avessimo vinto le elezioni avremmo creato un sistema di elezione
diretta da parte dei cittadini, inserito una norma antiribaltone e realizzato
una devoluzione unitaria. L'abbiamo detto e gli elettori ci hanno votato.
Dopo di che al Senato è cominciata
questa lunga vicenda, ed è iniziata con una proposta di Bossi limitata
alla devoluzione, votata ed approvata dal Senato e dalla Camera. Interlocutori
di autorità del centro-sinistra ci hanno nuovamente fatto sapere
che non si poteva andare avanti così, che bisognava fare una proposta
più globale. Quindi l'UDC ha sollevato il caso, dicendo che non
si poteva approvare solo l'articolo sulla devoluzione, ma bisognava presentare
una proposta di riforme più articolata, più complessa, più
significativa e più organica.
Dunque, contrordine compagni! Abbiamo
ricominciato e presentato un altro disegno di legge costituzionale, abbandonando
la proposta iniziale che già aveva superato i primi due passaggi
parlamentari e abbiamo ripreso l'iter, sperando di poter finalmente lavorare
su questa riforma complessiva anche con il centro-sinistra.
Attenzione, mi sto riferendo all'inizio
della legislatura, quattro anni fa. Perché mentre noi siamo rozzi
e incolti, e proviamo a chiedere ai colleghi del centro-sinistra di dare
una mano, loro non lo fanno. Quando, nella scorsa legislatura, è
arrivato l'ordine di approvare a tutti i costi la riforma, immediatamente
con la tecnica del blitz, con la tecnica del "detto fatto", hanno presentato
il relativo pacchetto di proposte alla Camera. E colgo l'occasione per
dare il benvenuto in quest'Aula al collega, senatore Napolitano, a nome
di tutti i colleghi di Alleanza Nazionale.
Alla Camera si è discusso della
proposta del centro-sinistra però, attenzione, presidente Dini,
se n'è discusso solo alla Camera. Nella storia del Parlamento italiano,
infatti, si registrerà che in occasione del progetto di riforma
di 20 articoli della Costituzione portata avanti dal centro-sinistra, il
dibattito in quest'Aula non ebbe luogo, ma ci fu soltanto alla Camera dei
deputati.
Si è discusso su quella riforma,
dopo di che, siccome bisognava fare presto, si utilizzò la tecnica
del "detto fatto" o del blitz, perché bisognava impedire l'accordo
politico della Lega con la Casa delle Libertà. Al Senato è
pervenuta la riforma approvata dalla Camera alla quale non sono state apportate
modifiche, non è cambiata una virgola perché i colleghi del
centro-sinistra allora non sarebbero riusciti, con la doppia lettura, a
presentarsi in tempo per lo scioglimento delle Camere.
Quindi, una riforma della Costituzione,
della parte fondamentale dei nostri valori cui tutti quanti, piangendo,
si dichiarano attaccati, che si discute solo alla Camera e, sulla quale
il Senato della Repubblica non si pronuncia, votando la riforma così
com'è stata approvata dall'altro ramo del Parlamento. La riforma
torna poi alla Camera e si vota nuovamente con i tempi contingentati.
Questa è la storia della riforma
con il metodo del blitz. È come se, dicessi al collega Bevilacqua
qui accanto (così passerai pure tu alla storia di questo dibattito):
sai che faccio, Franco? Ti do uno schiaffo. E poi glielo do. Questo è
quanto ha fatto il centro-sinistra: detto fatto. Come abbiamo fatto invece
noi? Sai Franco, ti avverto, tra cinque anni ti darò uno schiaffo.
Ovviamente, chi è avvertito si organizza, si prepara, va in palestra,
si irrobustisce e cerca, confrontandosi, di resistere.
Noi, nel 2001, abbiamo cominciato questo
lungo processo: dibattiti sulla stampa, dibattiti in televisione, dibattiti
in Aula, confronto tra costituzionalisti. Ma ci rendiamo conto da quale
lavorio sofferto è stata caratterizzata questa riforma, che proponiamo
e che vogliamo con forza sia sottoposta con grande attenzione al corpo
elettorale? Un lunghissimo dibattito. Prima, davanti al corpo elettorale
abbiamo chiesto: ci date questo mandato, elettori italiani? E ce l'hanno
dato. Hanno detto: intavolate la grande riforma. Poi abbiamo detto ai colleghi
del centro-sinistra: vogliamo cominciare? E abbiamo cominciato. Stop! Siamo
tornati indietro. Abbiamo cominciato in maniera allargata, dibattiamo da
quattro anni, che altro potevamo fare? A quel punto, l'unica cosa giusta
da fare era quella di cui parlavo all'inizio: siccome loro non sono d'accordo,
siccome in questo Paese le riforme si possono fare solo se governano loro
(il cosiddetto complesso di superiorità della sinistra), dovevamo
fermarci e basta.
Ma questo non è possibile per una
grande forza di cambiamento come è la Casa delle libertà,
per una grande forza che vuole cambiare questo Paese e vuole cambiarlo
in meglio, utilizzando argomenti che vengono dal laboratorio culturale
e istituzionale della sinistra. Infatti, le proposte che abbiamo portato
avanti nel nostro pacchetto riformatore - e lo vedremo insieme - non sono
proposte sulle quali abbiamo il copyright, sulle quali possiamo con ragionamenti
affermare l'esclusività della destra o del centro-destra; sono proposte
che nascono da dibattiti di lungo periodo e che rappresentano per noi il
punto di riferimento, la fonte dalla quale siamo partiti in questo nostro
lunghissimo impegno parlamentare.
Come ho detto, prima parte della Costituzione
sui princìpi, seconda parte della Costituzione organizzativa. Ci
siamo intrattenuti sulla seconda parte della Costituzione e, su di essa,
un aspetto che caratterizza in maniera significativa l'impianto è
che la Costituzione del 1948 contiene aspetti molto importanti e pregevoli,
che consideriamo un punto di riferimento utilizzato nella nostra proposta
di riforme, ed una parte, invece, che rappresenta una precisa scelta politica
dettata da contingenze storiche che sicuramente, come ormai è abbondantemente
dimostrato, oggi sono superate.
Per la parte che riguarda l'aspetto superato
della organizzazione dei poteri, mi richiamo a tutta la dottrina e a tutte
le posizioni politiche portate avanti contro la democrazia consociativa,
contro la democrazia compromissoria, per una scelta diretta degli elettori,
o sotto la specie dell'elezione diretta del Capo dello Stato, o sotto la
specie dell'elezione diretta del Premier. Questo è un dibattito
consolidato, lo do per scontato.
La seconda parte - ed è quella
che più ci interessa in questa disputa così significativa,
così apocalittica direi, sulla devoluzione - è invece la
scelta che ha compiuto il costituente del 1948 di un regionalismo paritario
e unitario (attenzione, perché su questo aspetto voglio concentrarmi
molto, in quanto è la parte che c'è, rispetto soprattutto
alla parte che manca), che è la scelta diretta di chi governa e
le norme antiribaltone.
Come era concepita la Costituzione del
1948? Essa era concepita con il principio della sovranità unica
dello Stato, che devolveva alle Regioni. Attenzione, devolveva, perché
la devoluzione, purtroppo per Bossi e per la Lega, non l'hanno inventata
né Bossi, né la Lega. La devoluzione è un concetto
semplicissimo: che cosa vuol dire "devolvere"? Una persona "devolve in
beneficenza": se "devolve", è perché ha. Uno ha e dà.
Che cos'è la devoluzione? La devoluzione non è altro che
il metodo con il quale lo Stato, che ha, dà.
La Costituzione del 1948 vedeva uno Stato
centralista e unitario, che aveva tantissime cose, alcune delle quali le
ha date alle Regioni. Cosa fa la Costituzione del 1948? Prevede la devoluzione
(della quale tanto parliamo perché il centro-sinistra, che non ha
cultura autenticamente unitaria, ma che per l'uso politico che deve fare
dell'argomento, così come ha fatto una riforma per bloccare la Lega
nel 2001, oggi ne vuole fare un'altra, oggi ci attacca su questa riforma
per sostenere il potere ricattatorio della Lega).
Infatti, nella Costituzione si afferma
che il Parlamento esercita la funzione legislativa e poi, nel vecchio articolo
117, che «La Regione emana per le seguenti materie norme legislative
(…)». Quindi, attenzione, si dice che il potere legislativo appartiene
al Senato della Repubblica e alla Camera dei deputati, mentre le Regioni
emanano norme giuridiche in alcune materie.
Come cambia questa norma nella Costituzione
attuale, dopo la riforma del centro-sinistra? Questo è il punto
centrale dal quale partire per capire lo strappo che nella Costituzione
del 1948 è stato effettuato dalla riforma attuale.
Nella vecchia Costituzione vi era una
sola sovranità, quella dello Stato, mentre le Regioni potevano emanare
delle norme giuridiche su alcune materie devolute dallo Stato, come beneficenza
pubblica ed assistenza sanitaria e ospedaliera; fiere e mercati; polizia
locale urbana e rurale; turismo ed industria alberghiera; tramvie e linee
automobilistiche d'interesse regionale; viabilità, acquedotti e
lavori pubblici di interesse regionale; caccia; agricoltura e foreste;
pesca, eccetera, eccetera: come si capisce, cosucce.
Quindi, in sostanza, la Costituzione del
1948 diceva: io Stato ho tutto, alcune materie le devolvo alle Regioni,
si tratta di cosucce, ma, attenzione, in queste cosucce voi Regioni potete
emanare delle norme sempre che non siano in contrasto con l'interesse nazionale.
Pertanto, nell'impianto della Costituzione
del 1948 tutto resta allo Stato, alcune materie elencate tassativamente
alle Regioni, le quali comunque non possono fare ciò che vogliono,
ma possono emanare norme che non devono essere in contrasto con l'interesse
nazionale. Quindi, c'era una devoluzione regionale unitaria e paritaria;
unitaria perché unico sovrano era lo Stato che concedeva le materie;
paritaria, perché tutte le Regioni, ad esclusione di quelle a Statuto
speciale, avevano le medesime competenze.
Arrivano gli scienziati del centro-sinistra,
i democratici del centro-sinistra, gli antileghisti del centro-sinistra,
gli unitari del centro-sinistra, e cosa fanno? Rispetto alla Costituzione
del 1948, dove lo Stato ha e dà alle Regioni, attuano il rovesciamento
dell'articolo 117 per cui le Regioni hanno tutto e si lasciano allo Stato
alcune materie. Arriviamo al capovolgimento totale: lo Stato trattiene
soltanto alcune competenze elencate tassativamente, le Regioni hanno tutto
il resto.
Quindi, mentre con la Costituzione antifascista
del 1948 - della quale i colleghi del centro-sinistra si riempiono la bocca
- alle Regioni andavano solo alcune competenze ("io Stato riconosco a te
Regione solo la competenza su alcune materie, in cui puoi emanare norme
giuridiche se non violi l'interesse nazionale"), il centro-sinistra con
la sua secessione mascherata capovolge il principio ("noi Regioni prendiamo
tutto, a te Stato lasciamo alcune materie di competenza") ed elenca le
materie di competenza statale, sostituendo, con il nuovo articolo 117,
alla sovranità statale la sovranità regionale. Si aggiunge,
poi, colleghi del centro-sinistra (guardate che bellina questa norma sempre
contenuta nel nuovo articolo 117 della Costituzione): «Spetta la
potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente
elencata nel primo comma dell'articolo 117».
Tutte le materie non elencate nel primo
comma (che fissa la competenza statale) competono alle Regioni. Questa
in termine tecnico si chiama potestà residuale, ovvero tutto ciò
che compete allo Stato è esplicitamente elencato ed è espressamente
indicato, tutto ciò che non è elencato, né indicato
appartiene alle Regioni. Questo è il rovesciamento dell'articolo
117, che ha determinato la crisi nella quale ci troviamo.
Senatore Tonini, faccia questa domanda
al collega Angius, quando svolgerà il suo intervento: con la Costituzione
attuale, a chi compete il governo della sanità? A chi compete il
governo della scuola? A chi la polizia locale?
MORANDO (DS-U). Con la vostra proposta
non si capisce più niente, prima era chiaro.
NANIA (AN). Prestiamo attenzione a questa
domanda, che è molto importante e significativa: lo vediamo adesso,
ma soprattutto lo abbiamo visto in passato, che mentre si elaborava questa
riforma con i decreti Bassanini si aboliva il Ministero della sanità,
trasferendo la sanità alle Regioni. Il Ministero della sanità,
in tal modo, non aveva più alcun senso. Per avere un Ministero non
più della sanità ma della salute, il Governo Berlusconi -
dopo aver vinto le elezioni - ha dovuto emanare un decreto, perché
la sanità, in base alla riforma dell'Ulivo, è passata interamente
alle Regioni.
Chi su questo punto avesse dei dubbi può
leggersi un'interessante sentenza della Corte costituzionale, che si è
occupata del problema sanità con riferimento agli asili nido, materia
contenuta nella legge finanziaria del 2002. Il 5 novembre 2004 la Corte
costituzionale ha deciso su questo tema e sui giornali si scriveva: «Consulta,
finanziaria bocciata su asili nido nei luoghi di lavoro. La decisione in
materia di sanità spetta esclusivamente alle Regioni e non allo
Stato».
Questo lo sanno tutti. Chi può
dire che un concorso nella regione Emilia-Romagna lo bandisce Berlusconi?
Che il primario di un ospedale lo nomina Berlusconi? Che il manager lo
nomina Berlusconi? Lo sanno tutti i cittadini che fanno la fila e che impattano
con il sistema sanitario che il Governo centrale non c'entra niente. Eppure
c'è una persona, di nome Fassino, che a "Porta a Porta" afferma:
«Vogliono fare 21 sistemi sanitari nazionali». Siamo arrivati
al punto che si sostiene con la massima naturalezza la menzogna (alla Celentano,
diremmo che è rock, tanto nessuno può verificarla, nessuno
può immediatamente contrastarla, perché è tumultuosa
e non si capisce, mentre la verità è lenta, inesorabile ed
inarrestabile).
Il referendum lo dobbiamo fare, ma il
centro-sinistra dovrà spiegarci (ricordo quanto è accaduto
al ministro Storace con la famosa pillola antiabortiva RU 486) come il
Ministro della salute può intervenire per evitare casi spiacevoli.
Occorre, intanto, precisare che la ricerca
scientifica compete alle Regioni: con la legge secessionista dell'Ulivo
si è attribuita loro non solo la sanità, ma anche la ricerca
scientifica. Sono preoccupatissimo; questo vuol dire, per esempio, che
una Regione può stabilire che alla manipolazione genetica possa
ricorrere soltanto chi è alto 170 centimetri, per cui io sarei tagliato
fuori, considerati i miei 160 centimetri.
Nella Costituzione dell'Ulivo la ricerca
scientifica appartiene alle Regioni, e questo produce evidenti differenze,
tant'è che alcune prevedono la ricerca sulla pillola, mentre altre
no. Se il Piemonte, che è di centro-sinistra, vuole portarla avanti
lo può fare. La Regione governata dal centro-destra invece non è
d'accordo e non lo fa; così abbiamo la Regione sì e la Regione
no. Storace può solo intervenire, come Ministro della salute, per
controllare; può esercitare il controllo sul farmaco, nel caso in
cui la pillola dovesse comportare dei danni alla salute della donna. Quindi
un intervento ex post, repressivo, in base a quel trasferimento di competenze
pericoloso, che ha rappresentato una disgregazione fondamentale dei diritti
unitari del cittadino. A chi appartiene la sanità?
Ma è presto detto; la sanità
non è citata tra i compiti dello Stato; si parla soltanto di livelli
minimi essenziali, la cui tutela è compito dello Stato. La sanità
non è specificata nella famosa norma che leggo: «Spetta alle
Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato».
La sanità non è elencata
espressamente; la sanità è di competenza delle Regioni. Guarda
caso, chi ha fatto ricorso allo Stato contro gli asili nido? Chi attacca
Storace? Le Regioni di centro-sinistra, che dicono: la sanità è
mia e me la tengo io. Tu, Stato, non puoi intervenire!
Vi sono presidenti di Regione come Errani
che, in un dibattito libero, dell'Italia democratica, organizzato da Augias
su RAI 3, ha sostenuto che era lo Stato a volere e ad avere la sanità,
questo in presenza del collega Manzella (era un dibattito molto confrontato!).
Per il centro-destra a difendere le ragioni della riforma federalista era
presente il nostro presidente Domenico Fisichella! Questi sono i dibattiti,
secondo la libertà del centro-sinistra. Ne lascio immaginare il
contenuto.
La seconda domanda è la seguente:
a chi appartiene la scuola, con la riforma dell'Ulivo? Errani, che si è
permesso di entrare nel merito della gestione scolastica, ha fatto ricorso
contro la Moratti. Questo perché la potestà è residuale,
su tutta la materia. Attenzione, con la riforma dell'Ulivo tutta la materia
sanitaria e quella scolastica è di competenza delle Regioni, ma
la riforma fa qualcosa di più grave: fa una distinzione tra scuola
ed istruzione. E guardate cosa scrive l'Ulivo nella propria riforma: intanto
non mette la scuola tra le materie di competenza dello Stato; quindi per
la norma sulla competenza residuale, sulla quale la Corte costituzionale
ha già abbondantemente deciso, quella competenza va alle Regioni.
Guardate invece cosa si lascia allo Stato: le norme generali sull'istruzione,
di cui alla lettera n). Sempre gli scienziati del centro-sinistra fanno
una distinzione tra norme generali sull'istruzione e norme particolari.
Le norme generali sull'istruzione, di
cui alla lettera n), sono lasciate allo Stato, ma all'articolo 116, comma
3, si aggiunge che ulteriori forme di autonomia, su iniziativa della Regione
interessata, possono essere date alle Regioni che ne fanno domanda su tutta
la legislazione concorrente - su cui si parlerà - ma anche con riferimento
alle lettere n) ed s) delle materie di competenza dello Stato. La lettera
n) concerne proprio le norme generali sull'istruzione. Con la loro riforma,
cioè, hanno anche stabilito che la Regione, a domanda se ha i soldi,
ex articolo 119, può chiedere allo Stato persino di prendersi totalmente
le norme sull'istruzione. Questa è la riforma sull'istruzione, per
non dire della polizia locale. Già avevano detto in maniera evidente
che lo Stato si occupava solo di ordine pubblico e sicurezza. Non si capiva
chi si dovesse occupare della polizia locale.
Riflessione finale sul tema: che cos'è
la devoluzione proposta dalla Casa delle libertà? Permette il passaggio
da una competenza residuale su tutto, che ha determinato il contenzioso
davanti alla Corte costituzionale, ad una elencazione tassativa di ciò
che spetta alle Regioni. Per l'Ulivo alle Regioni spetta tutta la polizia
locale, la sanità, la scuola. Con la nostra proposta si elenca in
maniera tassativa, esplicita ed esclusiva di che cosa si occupano le Regioni.
Infatti, non si occupano di tutta la sanità ma, come è bene
indicato, dell'organizzazione sanitaria e di altro, così anche sulla
scuola e sulla polizia locale perché deve essere soltanto polizia
locale amministrativa. Si specifica con quelle norme in maniera esatta,
puntuale che su quegli aspetti e solo su quelli, non su tutto, decidono
le Regioni.
Eppure ci troviamo ogni giorno a combattere
rispetto ad un attacco e all'accusa di voler disgregare l'unità
dello Stato. Non è così. Questa devoluzione giova perché
risolve il contenzioso davanti alla Corte costituzionale. Ma attenzione,
non è così per un altro fatto fondamentale.
All'interno di un trasferimento di materie
così forte e così significativo dallo Stato alle Regioni
andiamo a stabilire princìpi e criteri certi cui si può fare
ricorso per dirimere, in via preventiva e comunque facilmente in via successiva,
le controversie.
Si afferma che abbiamo predisposto una
riforma nella quale sono state previste tante materie? Ebbene, alcune,
quali quelle relative alla sanità e all'istruzione, le riportiamo
alla competenza dello Stato; tante altre (oltre dodici) - ripeto - tornano
alla competenza esclusiva dello Stato e, in quanto tali, dobbiamo elencarle
tassativamente e lo facciamo.
Secondo aspetto importante. Su quelle
materie fondamentali le Regioni hanno soltanto alcune competenze e non
altre; e non si parli del dialetto perché noi abbiamo una grande
cultura della lingua italiana, sappiamo che cosa essa significhi rispetto
alla necessità di tutelare l'identità nazionale. A tale proposito
desidero aggiungere che nella nostra Costituzione del 1948 nessuno aveva
pensato di dirottare e di deviare dalla lingua italiana; in tal senso aggiungo
che non è stato il Governo della Lega Nord, ad aver introdotto,
riformando la Costituzione italiana nel 2001, accanto al nome della Regione
Trentino-Alto Adige - che quindi non si chiama più così -
il termine Südtirol. Ripeto, quando fu presa questa decisione al Governo
non c'era la Lega Nord e quindi il tedesco ha fatto ingresso nella Costituzione
italiana grazie al centro-sinistra!
TONINI (DS-U). Anche il francese, nella
definizione di Valle d'Aosta, e ce ne vantiamo!
NANIA (AN). Stia zitto! E allora, visto
che i Costituenti dell'epoca, di cui pure ci si riempie la bocca, i vari
Croce e Calamandrei, che evidentemente non si intendevano di queste cose,
non avevano pensato ad aggiungere al nome Trentino-Alto Adige anche il
termine Südtirol, e questo perché allora i confini della Patria
erano sacri e identificavano l'identità italiana, siete dovuti andare
voi del centro-sinistra al Governo per scrivere - ripeto - accanto a Trentino-Alto
Adige il termine Südtirol e, siccome i valdostani si offendevano,
accanto al termine Valle d'Aosta le parole Vallée d'Aoste, e non
c'era la Lega al Governo! Ecco perché...
MORANDO (DS-U). Sbaglia pronuncia, si
dice "d'Aost".
NANIA (AN). Siccome non sono un esterofilo
ho grandi difficoltà nella pronuncia, all'opposto sono una persona
che crede nei dialetti e sono convinto che più si è siciliani
e più si è italiani, più si è lombardi più
si è italiani, più si è romagnoli più si è
italiani, più si è laziali più si è italiani,
perché credo che le Regioni siano parte costitutiva dell'identità
italiana. Ed allora perché non conoscere il dialetto siciliano così
intriso di spagnolo, di arabo e di tante altre lingue, ma così formativo
della lingua italiana?
Lo stesso si può dire per il dialetto
toscano, per quello veneto e piemontese. Ci si deve vergognare di avvicinarsi
a quello che viene da altre culture e non a quello che rappresenta la nostra
radice e i dialetti rappresentano la radice di quel grande dialetto che
è il dialetto italiano che diventa lingua perché mette insieme
tutti i dialetti unendoli con il sangue, con il valore, con la cultura,
con i progetti, con il destino. Eppure si assiste ad un attacco contro
i dialetti.
BUDIN (DS-U). Grazie per la lezione di
filologia.
NANIA (AN). Avviandomi alla conclusione,
vorrei anche sottolineare che il processo di moltiplicazione dei centri
di potere è stato sempre descritto come un grande elemento della
democrazia moderna. Alcuni si chiedono come mai noi di Alleanza Nazionale
abbiamo scelto di "approfondire" questi aspetti e ci siamo aperti a questa
cultura del dislocamento plurale dei soggetti istituzionali, anche perché,
diciamocelo francamente, non si può non osservare quanto succede,
né quella che è la linea di tendenza delle democrazie che
funzionano, ovvero una distribuzione dei centri di potere in più
punti del sistema.
Le democrazie moderne in questo senso
vengono da alcuni definite polifunzionali, policentriche, altri addirittura
poliarchiche. Lo vediamo anche noi nell'ambito dell'elezione diretta del
sindaco, del presidente delle Regioni, delle autorità di garanzia,
rispetto al ruolo sempre più forte dei media, al ruolo dei sindacati,
della finanza, delle lobby, e quant'altro. Il punto è che è
certo che nelle democrazie moderne emerge chiaramente una molteplicità
di poteri.
Ebbene, questa è la nostra risposta
a tale quesito. Nel 1948 avevamo una Costituzione che ci garantiva contro
qualcuno, mi riferisco al pericolo della dittatura, del bonapartismo, pericolo
che il sistema democratico si potesse rompere in favore del primo Ministro;
ciò richiedeva una serie di poteri finalizzati a garantirsi da qualcuno.
Mi riferisco ad esempio ai poteri del Capo della Stato, quello di nomina,
di controllo, di partecipazione, di scioglimento delle Camere, sentiti
i Presidenti di Camera e Senato, mettendo fuori campo il Governo.
Ma questo succedeva proprio perché
dietro avevamo il fascismo e la democrazia del '48: le democrazie precedenti
correvano il rischio della china autoritaria, perché esse si potevano
rompere al centro. Erano democrazie centraliste: lo Stato centralista si
rompe al centro e quindi è normale che esso trovi nel Capo dello
Stato un elemento di garanzia contro il Primo Ministro.
Pongo un quesito: dopo cinquant'anni,
rispetto all'attuale dislocazione dei poteri, rispetto al moltiplicarsi
dei centri di potere e di governo, rispetto a queste democrazie che dimostrano
chiaramente come i cittadini partecipino a più livelli (sul piano
sociale, scolastico, culturale, istituzionale), oggi un sistema politico
moderno, una democrazia autorevole e forte, ma forte davvero, garantisce
contro qualcuno o garantisce contro qualcosa? Ecco il quesito di fondo
e l'anima, il cemento, della nostra grande proposta di riforma costituzionale,
ciò che manca perché non ci poteva essere nella Costituzione
del '48.
Diciamolo francamente: la devoluzione
l'hanno fatta loro, noi abbiamo solo corretto quei guasti e quelle assurdità,
noi abbiamo un po' aggiustato lo strappo che avevano realizzato. (Brusìo
in Aula. Richiami del Presidente).
Cosa manca in questa Costituzione? Di
che cosa hanno paura? L'onorevole Violante ha fatto un intervento alla
Camera, proponendo di stralciare la parte che riguarda l'elezione diretta
e di discutere della devoluzione. Certo, perché lo sanno che non
è quello il versante del cambiamento: l'hanno stravolta loro la
Costituzione, noi stiamo cercando soltanto di ricomporre il quadro su quel
versante.
La forte novità è invece
costituita dal fatto che il voto dell'elettore non può essere tradito,
perché i ribaltoni non si possono più fare. La forte novità
è che il cittadino italiano, di Bolzano come di Siracusa, è
messo in condizione, se passa questa riforma, di scegliere con il proprio
voto chi lo governerà: è questa la novità. Allora
il sistema deve garantirci contro qualcosa: qual è il pericolo per
una democrazia moderna, che ha cento, mille, milioni di centri di potere?
Il pericolo è la disgregazione, è che ogni parte se ne vada
per conto proprio.
Rispetto a questo pericolo proprio delle
democrazie moderne, noi realizziamo due fatti fondamentali, che sono l'anima
della nuova Costituzione: un processo verso il basso, con il federalismo
unitario e paritario, che abbiamo realizzato grazie alla Lega (e questo
dobbiamo avere il coraggio di dichiararlo), e al tempo stesso un ritorno
verso l'unità del Paese, che avviene attraverso l'elezione di chi
governa. Un avvicinarsi ai cittadini attraverso il federalismo e un tornare
al centro: un effetto che va verso il basso e uno che verso l'alto.
Questo è il senso della grande
proposta, del grande progetto che noi portiamo avanti, per una Costituzione
che non garantisca contro qualcuno, perché non c'è più
il pericolo del bonapartismo, ma che garantisca contro qualcosa: la disgregazione,
la possibilità che ogni potere se ne vada per conto proprio. (Applausi
dai Gruppi AN e FI e dai banchi del Governo. Congratulazioni. Applausi
ironici dal Gruppo DS-U).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Villone. Ne ha facoltà.
VILLONE (DS-U). Signor Presidente,
dopo gli entusiasmi del collega Nania, dirò invece che si svolge
oggi, in quest'Aula, l'ultimo atto di una farsa istituzionale, che occasionalmente
assume la veste di un'ampia riforma della Costituzione. Qualche collega
del centro-sinistra diceva prima di vivere questo giorno con amarezza.
Condivido questa espressione. È un giorno amaro, soprattutto per
chi come me è nato con la Costituzione del '48, ha iniziato il suo
percorso professionale e scientifico studiando i lavori di quella Costituente
e quindi ne ha toccato con mano la grandezza, ne ha respirato l'aria. (Forte
brusìo in Aula).
PAGANO (DS-U). Presidente, c'è
troppo brusìo, dopo lo storico intervento del senatore Nania, in
perfetto italiano. (Richiami del Presidente).
VILLONE (DS-U). Un giorno, questo, che
misura la differenza tra il confronto che diede vita al patto costituzionale
del '48 e i vertici di maggioranza che invece, nottetempo, hanno scandito
il percorso di questa riforma.
Mi riferisco ai vertici che producevano
le proposte poi portate in Aula e votate da una maggioranza inscalfibile
e blindata, senza possibilità di confronto (com'era ovvio, visto
che il risultato di un vertice non si può poi evidentemente toccare).
Si è trattato di vertici in cui sono stati consumati tutti i possibili
reciproci veti e ricatti di una maggioranza in cui per prima la Lega, e
poi gli altri componenti, hanno imposto ciascuno il proprio pezzo e aggiunto
il proprio vagone. Un vestito di Arlecchino, una somma di reciproche debolezze,
alla quale le opposizioni non hanno voluto - né avrebbero potuto,
del resto - aggiungere un pezzo, giustapponendolo agli altri.
In Commissione il collega D'Onofrio ha
teorizzato la Costituzione di maggioranza, domandandosi: ma non ha forse
la maggioranza il potere di rivedere la Costituzione? Certo che ce l'ha,
come costituzionalista il collega D'Onofrio lo sa bene; ma sa anche che,
se si vuole ottenere una Costituzione durevole, stabile, se si vuole davvero
costruire una casa comune, allora non si procede a colpi di maggioranza.
Per questo io oggi, per esempio, sostengo
nel centro-sinistra che si deve evitare di andare alle elezioni con una
proposta elettorale di Costituzione del centro-sinistra. Per non trovarci
domani noi nella stessa condizione in cui si è trovata questa maggioranza,
la quale, avendo portato una proposta nella campagna elettorale - in specie,
la devolution - ci si è trovata poi inchiodata, sotto il ricatto
di una crisi di Governo, e ha quindi impedito il confronto parlamentare
che sarebbe stato utile e necessario.
Il nostro è un contrasto che abbiamo
posto in essere, signor Presidente, per il metodo; ma anche per il merito,
perché, anche se vogliamo dimenticare il modo scellerato in cui
la proposta di riforma è nata, rimane la considerazione che, nei
contenuti, si tratta di una proposta priva di qualsiasi pregio. Non solo
perché astrattamente è incostituzionale, essendo lesiva dei
limiti del potere di revisione della Costituzione, che è un potere
costituito, ma anche perché è una Costituzione sbagliata,
inadeguata rispetto alle domande di oggi, una Costituzione che nasce da
una lettura insufficiente delle condizioni storico-politiche del momento
attuale e degli scenari di un futuro possibile.
Esporrò ora solo per cenni le mie
considerazioni, perché più volte abbiamo discusso il tema,
in quest'Aula e fuori.
Sulla forma di governo, il complesso delle
scelte fatte si incardina intorno alla figura del Primo Ministro, che giustamente
Leopoldo Elia ha definito Primo Ministro assoluto. Il Parlamento risponde
al Governo e non viceversa. Secoli di storia e di evoluzione politico-istituzionale
d'Europa vengono gettati nel cestino. Il potere di scioglimento è
nelle mani del Primo Ministro e lo rende padrone della Camera politica.
Né è temperato della sfiducia costruttiva, che è un
vero e proprio meccanismo truffaldino, un imbroglio costruito per non funzionare,
perché è fatto in modo tale che basta il Primo Ministro con
pochi sodali a produrre una condizione nella quale sia impossibile schiodarlo
dalla poltrona.
In realtà, si tratta di un modello
basato sul principio dell'uomo solo al comando. Questo già di per
sé è una rottura dello schema di equilibrio istituzionale
proprio dell'attuale Costituzione. Ma soprattutto vorrei qui sottolineare
che è un modello che non funziona. Ce lo dimostra l'esperienza di
questi ultimi anni. E se i colleghi del centro-destra fossero capaci di
studiare e, forse anche senza studiare, di capire quel che accade, se ne
dovrebbero accorgere. Proprio il centro-destra in realtà ci ha mostrato
in atto, in questi ultimi anni, il modello dell'uomo solo al comando. Abbiamo
avuto un Primo Ministro che era, perlomeno nella sua fase iniziale, una
sorta di padrone delle ferriere, un padre-padrone; se non era l'uomo solo
al comando lui, chi sarebbe mai l'uomo solo al comando? Il Padre Eterno
in prima persona, a quel punto? Eppure vedete che alla fine non ha funzionato:
avete una maggioranza rissosa; vi siete spaccati in tantissimi pezzi; e,
soprattutto, non riuscite a portare avanti le vostre politiche.
Avete assistito a casi evidenti in cui
le scelte del Governo sono state contrastate da manifestazioni popolari.
Questo è accaduto a livello nazionale e locale: a Scanzano, succede
adesso con la TAV, è successo con gli agricoltori, è diventato
ad un certo punto uno sport nazionale bloccare le autostrade, i treni;
è successo anche per i rifiuti.
Allora, non vi viene il dubbio che sia
il modello che non funziona? Anche a livello regionale e locale, abbiamo
già lo schema dell'uomo solo al comando. A livello nazionale lo
abbiamo avuto di fatto con Berlusconi, a livello regionale e locale con
le riforme introdotte. Né qui, ne lì ha funzionato. Chi ha
occhi per guardare, vede le risse continue, vede i Consigli che si dissolvono
nei contrasti quotidiani, che rimangono in piedi solo per attaccamento,
non certo al Paese, ma alle poltrone.
Non funziona il punto dell'investitura
popolare. Non produce buon governo, anzi non produce governo, senza aggettivi.
Voi stessi esprimete un paradosso: ai minimi del vostro consenso nel Paese,
ma in virtù dell'antica investitura di anni addietro, imponete al
Paese scelte lontanissime dal consenso popolare, come voi ben sapete.
Questo sarebbe il modello che funziona?
Mi permetto di dubitarne. Questa è una concezione rozza e limitata,
che non percepisce l'impossibilità e l'inutilità di introdurre
in società sempre più complesse meccanismi semplificati e
inidonei a governare tale complessità. Un'insufficienza aggravata
e non certo corretta dall'indebolimento complessivo del sistema di check
and balances che si riscontra nella vostra proposta.
Sulla forma di Stato, il collega Nania
ha ripetuto che la prima forzatura l'abbiamo fatta noi del centro-sinistra
con il Titolo V. Ha ragione, l'ho già detto più volte e lo
voglio ripetere in questa ultima tornata. Fu un errore dovuto essenzialmente
alla pressione del popolo degli amministratori che, come sa bene il collega
Nania, ha visto compattamente uniti in un'azione lobbistica gli amministratori
della sinistra, del centro e anche della destra. Fu un errore non resistere
a quella pressione, e non solo per il metodo - perché ne venne alla
fine una forzatura - ma anche per il merito.
Non fu - quella - una riforma volta a
costruire le istituzioni di un Paese moderno e competitivo. In questi ultimi
anni, in economia ci siamo fatti trascinare dal concetto che "piccolo è
bello". Poi, all'improvviso, ci siamo trovati privi di grande industria
come punta avanzata del sistema economico produttivo. Le nostre aziende
sono troppo piccole, e sono a rischio di essere mangiate dai cinesi. Allo
stesso modo si è fatto nelle istituzioni.
Non sempre piccolo è bello. Il
mondo di oggi non è, da questo punto di vista, né quello
del 1948, né quello di venti anni fa. Oggi la competizione in un
mondo globalizzato non consente di puntare sul "piccolo è bello",
né in economia né nelle istituzioni. Negli Stati federali,
il punto vero in questione oggi è la capacità dello Stato
di fare politiche nazionali/federali forti, per garantire la competitività
sul piano globale del sistema Paese. Questo è il problema che oggi
si affronta nella Repubblica federale tedesca; questo è il problema
che si è posto e risolto da lungo tempo negli Stati Uniti; come
è accaduto in Canada, in Australia e in tutti i federalismi efficienti
di questo mondo.
La questione vera di fronte a noi in questa
legislatura era come correggere il Titolo V, introducendo un chiaro principio
di supremazia statale per le politiche oggi necessarie alla competitività
e all'eguaglianza dei diritti, e semplificando radicalmente un impianto
troppo complesso e barocco.
Colleghi del centro-destra, potevate prendere
questa bandiera. Non solo non lo avete fatto, ma avete aggravato la condizione
attuale con la devolution. Non valgono le considerazioni del collega Nania.
Ricordo che in Commissione la prima volta che abbiamo discusso la proposta
leghista di devolution, ho chiesto al relatore D'Onofrio se sarebbe stato
poi possibile prevedere un Piano sanitario nazionale, una volta approvato
questo testo. La risposta è stata: ovviamente, no. E in questa impossibilità,
volta agli egoismi territoriali e al sacrificio dell'eguaglianza nei diritti,
si riassumono tutti i motivi della nostra contrarietà.
Né avete avanzato, con l'interesse
nazionale, alcuna soluzione efficace. Proponete un meccanismo complicato,
inefficiente e sostanzialmente inutile. In realtà il punto non è
difendere l'interesse nazionale contro l'attacco di qualcuno - le Regioni
- ma assumerlo come fondamento di politiche attive e forti da parte dello
Stato centrale. (Richiami del Presidente). Ancora un minuto, signor Presidente,
e concludo.
Penso che la vicenda di questa riforma
ci insegni prudenza ed umiltà. D'ora in poi, attenzione a non farsi
inchiodare addosso l'etichetta di saggio: si rischia di rimanere consegnati
al sempiterno ludibrio dei posteri. Attenzione a non cadere in un semplicistico
schema di decisionismo istituzionale, che non coglie le complessità
di una società articolata e mutevole, fondata su uno scambio di
informazioni più veloce e intenso di qualunque altro momento della
storia. Attenzione a non capire che questa società ha bisogno di
più politica e di più flessibilità istituzionale,
che faccia spazio a quella politica, e non di rigide ingessature fatte
di regole non sostenibili. Attenzione a non cogliere che oggi una Costituzione
deve essere strumento della competitività del sistema Paese in un
mondo che è, ad un tempo, molto più piccolo e molto più
grande che in passato. Attenzione, infine, a non capire che costruendo
una Costituzione si deve guardare al futuro, imparando dall'esperienza
anche di questi anni.
Colleghi del centro-destra, la vostra
proposta di riforma è vecchia ancor prima di nascere. La Costituzione
del 1948 è, paradossalmente, più moderna e lungimirante della
vostra. Per questo la vostra Costituzione si frantumerà contro un
compatto volere del popolo italiano. (Applausi dal Gruppo DS-U).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Crema. Ne ha facoltà.
CREMA (Misto-SDI-US). Signor Presidente,
signor Sottosegretario, onorevole relatore, colleghi, stiamo per consumare
l'ultimo atto parlamentare di una modifica di oltre cinquanta articoli
della Costituzione e, mi sia permesso, questa volta sì, a colpi
di maggioranza.
La maggioranza si sente legittimata perché
il centro-sinistra nella XIII legislatura lo fece senza ricercare il consenso
dell'opposizione. Questo è falso e siete dei bugiardi, perché
non ricordate, non volete ricordare che i parlamentari del centro-sinistra
lo fecero perché fu chiesto da tutto il sistema delle autonomie
locali: tutti i Comuni, tutte le comunità montane, tutte le Province
e tutte le Regioni, indipendentemente dalle loro maggioranze politiche.
Oggi, non ve lo chiede nessuno, proprio
nessuno di loro. Ripeto: non ve lo chiede l'UNCEM; non ve lo chiede l'UPI;
non ve lo chiede l'ANCI; non ve lo chiedono le Regioni d'Italia. E ripeto
qui ciò che dissi giusto cinque anni fa, in dichiarazione di voto
alla Camera dei deputati per il Gruppo dei socialisti, quando ricordai
che lo facevamo per dovere nei confronti del sistema delle autonomie locali
e che per noi era solo uno stralcio, un anticipo della riforma che avremo
dovuto completare nell'attuale XIV legislatura.
Proprio per questo, anzi, vi dirò
di più: voi siete colpevoli; colpevoli di non aver voluto approvare
in Parlamento la proposta del ministro La Loggia, che all'inizio della
presente legislatura intendeva dare corso, con legge ordinaria, all'attuazione
del nuovo Titolo V della Costituzione.
Non avete fatto, con la legge ordinaria,
la nuova riforma tributaria rendendo così non applicabile l'attuale
articolo 119 della Costituzione, e cioè il federalismo fiscale,
con tutte le conseguenze di difficoltà, di litigiosità e
di inefficienza dell'intero sistema democratico rappresentativo.
Per quanto riguarda le riforme costituzionali,
i colleghi della Lega non se ne sono accorti: il presidente Berlusconi
ha dichiarato ufficialmente, nelle settimane scorse, che il centro-sinistra,
con la riforma del Titolo V, ha dato troppi poteri alle Regioni. Ecco,
colleghi della Lega, prendetene atto: quello che abbiamo fatto noi andava
nel senso del sistema federale, quello che state facendo voi, lo ha detto
in maniera lucidissima il collega Nania, toglierà potere alle Regioni
e all'intero sistema delle autonomie locali.
Nella scorsa legislatura, comunque, non
abbiamo avuto il timore di promuovere noi stessi un referendum, ai sensi
dell'articolo 138 della Costituzione, che abbiamo vinto anche per abbandono
del campo da parte vostra. In questa legislatura anche sulla riforma costituzionale
la Casa delle Libertà si dimostra terrorizzata dal giudizio della
sovranità popolare al punto che l'ultima lettura da parte della
Camera e del Senato potevate effettuarla nell'aprile scorso, in quanto
erano ampiamente trascorsi tre mesi, invece l'avete tirata a lungo fino
ad ottobre alla Camera e ad oggi al Senato perché avete il terrore
che si celebri il referendum prima delle elezioni politiche. Comunque,
prima o dopo le elezioni politiche il referendum si celebrerà e
alla fine sarà il popolo sovrano ad esprimere il suo giudizio definitivo.
È di oggi la decisione della Corte
costituzionale che boccia il decreto taglia-spese del luglio 2004 del Governo,
che suona come un giudizio di condanna definitivo e inappellabile nei confronti
della politica dell'Esecutivo verso le autonomie locali.
Veniamo al merito. La fragilità
del testo è dovuta al compromesso tutto interno alla maggioranza,
dove ogni sua parte ha incassato un pezzo: la Lega la cosiddetta devolution,
AN il ripristino degli interessi nazionali, Forza Italia il Premierato
assoluto; l'UDC la legge elettorale proporzionale.
È bene evidenziare che la legge
elettorale che verrà in Aula nelle prossime settimane e che stiamo
discutendo è in aperta e trasparente contraddizione con lo spirito
della riforma costituzionale, con la quale si modifica sia la forma di
Governo che la forma di Stato, vengono riscritti e pasticciati i rapporti
tra Stato e Regioni, vengono radicalmente riformati e privati di essenziali
poteri tutti gli organi di garanzia; anche se formalmente non viene intaccata
la prima parte della Carta, le modifiche della seconda parte, volte essenzialmente
a personalizzare e concentrare molti poteri nella figura del Primo ministro,
incidono pesantemente e sostanzialmente su non pochi princìpi sanciti
anche nella prima parte. In questo senso, si può parlare di modifica
della forma di Governo che realizza anche la modifica dello Stato.
La concentrazione eccessiva di poteri
in capo ad un solo organo, contestualmente all'indebolimento dei poteri
di controllo e di garanzia, va ben al di là del pur positivo rafforzamento
dei poteri del Capo del Governo, rompendo lo schema classico, non di una
semplice democrazia, ma di una democrazia costituzionale, come siamo soliti
definire i modelli democratici occidentali.
Il contrappeso a questi enormi poteri
del Primo ministro, tra l'altro - ripeto e lo farò anche in occasione
dell'esame di quella legge - in contraddizione con lo spirito e la lettera
della vostra stessa riforma elettorale proporzionale e di fatto priva di
veri vincoli coalizionali, non potendo essere realizzato dal Parlamento
e ancora meno dalla tradizionale figura di garanzia del Presidente della
Repubblica, dovrebbe nelle vostre intenzioni essere garantito dalla struttura
federale dello Stato. Anche in questo caso, però, vi sono solo proclami,
intenzioni divisive dell'unità del Paese, un insieme di grave confusione
di prerogative e di poteri parcellizzati che sono sovrapposti, ripetitivi
e conflittuali. Dunque, confusione e prevedibili sprechi di risorse, credibilità
e funzionalità della Repubblica.
Molte sono le autorevoli voci che si sono
levate in questo periodo e in questi giorni a manifestare fondate preoccupazioni
per le modifiche costituzionali. Oggi sono sorpreso dal silenzio del presidente
della Conferenza episcopale italiana, che pure in questi mesi è
intervenuto su tante vicende della vita del nostro Stato: dai PACS, all'aborto,
al principio della laicità dello Stato, all'esenzione ICI sugli
immobili di proprietà della Chiesa.
Avremmo gradito che in questa triste circostanza
per i destini della Costituzione egli avesse ripetuto le stesse cose che
affermò il 20 gennaio 2004 all'apertura del Consiglio permanente
della CEI, parole che scatenarono la reazione dell'allora capogruppo della
Lega Nord, Alessandro Cè, che consigliò il cardinale Ruini
di parlare il meno possibile e di occuparsi di più dell'ambito spirituale
e di meno di quello materiale: «Il percorso riformatore avviato da
oltre un decennio deve essere portato a compimento con una visione il più
possibile organica e lungimirante, senza mettere nemmeno apparentemente
in discussione l'unità della Nazione», un modo questo per
esprimere da parte del cardinale Ruini una posizione storica della Chiesa.
Noi socialisti, che da sempre abbiamo
difeso la nostra rispettosa autonomia e le nostre battaglie per i diritti
civili senza mai cadere in atteggiamenti anticlericali, sottoscriviamo
alla lettera questo autorevole pensiero. Gradiremmo, però, che si
levasse anche oggi un forte dissenso verso questa riforma, che è
la stessa di allora e che rappresenta una ferita lacerante per la nostra
Carta costituzionale.
Colleghi della destra - mi rivolgo a chi
è rimasto - non è vero che avete reso più snello il
procedimento legislativo: al contrario, si determinerà una sovrapposizione
di competenze che aumenterà conflitto e competizione tra le Camere,
ed il procedimento legislativo diventerà ancora più complesso
e difficile.
Ci proponete una devolution che è
molto lontana dal federalismo. Quest'ultimo è la capacità
di riconoscere autogoverno alle comunità regionali e locali nel
quadro di diritti e di opportunità offerte paritariamente a tutti
i cittadini. Questo non avverrà con la devolution. Noi passeremo
da un sistema sanitario unico, che oggi è gestito direttamente dalle
Regioni, a venti sistemi sanitari regionali. Passeremo da un sistema scolastico
nazionale unico, che in buona misura vede titolarità di funzione
e di responsabilità nel sistema regionale - tanto più dopo
la riforma del Titolo V - a venti sistemi regionali. Anzi, venti oggi,
perché, sulla base di questa vostra legge, le Regioni potranno diventare
più di cinquanta, questa è la demenzialità.
Ciò avviene perché voi riconoscete
un diritto di separazione con l'unico criterio che si abbia una dimensione
demografica minima di 1 milione di cittadini e, stante che questo Paese
ha cinquantasei milioni di abitanti (e forse anche più), voi avrete
innestato un meccanismo separatista che determinerà l'ulteriore
frammentazione istituzionale dello stato.
Mentre appare sempre più evidente
che una politica di sviluppo e di ripresa produttiva impone a livello europeo
e nazionale una più forte politica di coesione e una strategia efficace
di unificazione economica del Paese, con la normativa indicata in materia
di sanità e di istruzione, poniamo grossi macigni lungo la strada
dell'eliminazione dei divari storici tra le due Italie. Quella competenza
esclusiva delle Regioni, in tema di assistenza e organizzazione sanitaria
e di organizzazione scolastica, sembra finalizzata a rendere permanente
negli anni il divario tra Regioni ricche e Regioni povere in settori delicatissimi
per i cittadini e per il sistema Paese nel suo complesso (cosa che non
avveniva e non avviene con la riforma del centro-sinistra del Titolo V
della Costituzione).
Né credo che l'asimmetrica competenza
esclusiva dello Stato, in tema di norme generali sulla salute e sull'istruzione,
di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti
i diritti civili e sociali possa costituire una garanzia efficace di uguaglianza;
sarà solo garanzia di una permanente conflittualità Stato-Regioni.
Vi è da chiedersi, a questo punto,
se esista una linea di politica istituzionale della maggioranza che abbia
una coerenza e quale sia.
Se ricordiamo le principali iniziative
avanzate nell'arco della presente legislatura dal Governo e dalla maggioranza,
e cioè dai provvedimenti sulla giustizia a tutela degli interessi
del Presidente del Consiglio e dei suoi amici, alla legge Gasparri sui
sistemi televisivi - leggi sopra - alla riforma dell'ordinamento giudiziario,
alla vicenda del mandato d'arresto europeo, alla presente maxi riforma
della seconda parte della Costituzione, non si può negare che esiste
una sola precisa ispirazione: quella che si può sinteticamente definire
tentativo di demolire alcuni capisaldi della Costituzione del 1947 e cioè
di quanto le consuetudini, la prassi, la dottrina, il lavoro interpretativo
hanno accumulato e sostenuto nella vita istituzionale in cinquanta anni
di storia repubblicana.
È questa la vera carta d'identità
politico-costituzionale della coalizione che rende la Casa della Libertà,
o delle libertà, in questi temi non alternativa al centro-sinistra,
ma ai valori fondanti della Costituzione italiana, ai quali non si contrappone
un modello alternativo di sistema politico, ma un coacervo di norme contraddittorie
e confuse che rendono impossibile definire una nuova identità nel
nostro sistema politico.
Quale giudizio finale, allora, si può
o si deve dare? Questa riforma è un irrimediabile pasticcio, che
non è in grado di funzionare e che, se approvata, bloccherà
il Paese ma che, soprattutto, «scassa» la Costituzione vigente.
Ci stiamo, o meglio, vi state avviando
verso una precaria approvazione parlamentare che avrà come inevitabile
conseguenza la richiesta da parte nostra di un referendum popolare. Quando
ci sarà questo referendum popolare? È difficile immaginario.
Adesso è facile pensare che possa essere dopo le elezioni, perché
avete dei dubbi voi stessi, direi quasi che avete paura di quello che state
approvando e quindi volete lasciare questo tema delicatissimo ad un'occasione
successiva a quella del rinnovo del Parlamento.
Noi, però, faremo di tutto perché
il referendum possa essere svolto e possa rappresentare il momento in cui
il popolo prende coscienza della gravità della riforma che state
attuando. Se oggi in Parlamento noi del centro-sinistra siamo sconfitti
dai numeri, siamo convinti della forza delle nostre ragioni e proprio per
questo chiediamo il voto popolare.
Ciò non deve essere scambiato per
una confusa ansia di conservazione: noi vogliamo riformare, noi siamo dei
riformatori ma non usando le astute alchimie del Governo, le piccole vanità
della maggioranza, distinguendo invece con estrema cura quanto va ripensato
a causa delle sue stesse origini da quanto si dimostra tuttora vivo e vitale.
Noi vogliamo una modifica autentica, non di comodo, della nostra Carta
fondamentale, perché vogliamo una Costituzione specchio del nostro
patrimonio culturale e fondamento della nostra speranza. Questa è
una ragione vera che ha bisogno di un impegno vero; è quello che
noi abbiamo offerto in quest'Aula e quello che chiediamo e chiederemo con
il referendum a tutti coloro che credono ancora nello Stato democratico.
(Applausi dai Gruppi Misto-SDI-US e DS-U).
PRESIDENTE. Rinvio il seguito della discussione
del disegno di legge in titolo ad altra seduta.