Riforme Istituzionali
 
 
Discussione generale Ddl di revisione Costituzionale: Senato - 15 novembre 2005  (seduta del mattino)
   
Fonte: Senato
(2544-D) Modifiche alla Parte II della Costituzione
approvazione in seconda deliberazione,
con la maggioranza dei componenti
 
 
Relatore Pastore    -    Manzella    -    Mancino    -   Bassanini  -  Fassono   -   Tessitore
 
Zavoli    -    Battisti    -    Petrini   -   Lauro   -  Acciarini   -   Tonini    -   Michelini
 
Cambursano   -   Calvi   -   Falcier    -    Turroni   -   Nania    -   Villone  -  Crema
 
 
 
 (2544-D) Modifiche alla Parte II della Costituzione (Approvato in prima deliberazione dal Senato; modificato in prima deliberazione dalla Camera dei deputati; nuovamente approvato, in prima deliberazione, dal Senato e approvato, in seconda deliberazione, dalla Camera dei deputati) (Votazione finale qualificata ai sensi dell'articolo 120, comma 3, del Regolamento)
 
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge costituzionale n. 2544-D, già approvato in prima deliberazione dal Senato, modificato in prima deliberazione dalla Camera dei deputati, nuovamente approvato, in prima deliberazione, dal Senato e approvato, in seconda deliberazione, dalla Camera dei deputati.
Ricordo che, ai sensi dell'articolo 123 del Regolamento, in sede di seconda deliberazione, il disegno di legge costituzionale, dopo la discussione generale, sarà sottoposto solo alla votazione finale per l'approvazione nel suo complesso.
Non sono ammessi emendamenti né ordini del giorno, né lo stralcio di una o più norme. Del pari, non sono ammesse questioni pregiudiziali e sospensive. Sono ammesse le dichiarazioni di voto.
La relazione è stata già stampata e distribuita. Il relatore, senatore Pastore, ha chiesto di integrarla. Ne ha facoltà.
 
PASTORE, relatore. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, innanzitutto mi rimetto, chiaramente, alla relazione scritta al disegno di legge, che è stata voluta da me e dalla Commissione, come accompagnamento a un testo complesso e articolato e quindi come strumento di ausilio alla lettura, alla conoscenza e all'approfondimento del testo della riforma. Per questo devo ringraziare in particolare, oltre che per l'attività che svolgono quotidianamente, i consiglieri della Commissione e i loro collaboratori che hanno lavorato alla redazione della relazione.
Intendo ora svolgere una seconda premessa: devo dare atto al senatore D'Onofrio, che è stato relatore nella prima lettura al Senato di questo provvedimento, della sua volontà di tornare alla trincea dell'Aula e quindi di assumere una connotazione, un ruolo politico, nell'ambito del suo Gruppo e del partito di cui è autorevole esponente, sottolineando l'importanza che viene data al provvedimento, piuttosto che assumere, o meglio confermare, il ruolo più tecnico-politico del relatore d'Aula; per questo mi trovo immeritatamente a svolgere quel lavoro che avrebbe dovuto, naturalmente, svolgere il senatore D'Onofrio.
Vorrei integrare la relazione scritta con alcune notazioni di carattere generale, che possono aiutare i colleghi nella definizione dei temi della discussione e poi nel voto finale. Questo disegno di legge di riforma ha subìto notevoli critiche, che hanno fatto premio sul suo effettivo contenuto, perché la maggioranza si è preoccupata più di portare avanti il lavoro nelle Aule che di contrastare una polemica assolutamente ingiusta.
Riassumendo le principali critiche, si è detto che la riforma è frettolosa, non necessaria, unilaterale, voluta solo dalla Lega. Inoltre, sono state fatte alcune critiche tra loro contraddittorie, ma spesso pronunciate dallo stesso Gruppo politico, se non dalla stessa persona, a seconda dei luoghi nei quali le esternava, per cui si è detto, magari a Reggio Calabria, che la riforma sfascia il Paese e a Torino che la riforma è centralista.
Si è sostenuto, ancora, che questa riforma non risolve le difficoltà serie e profonde che sono state determinate dall'approvazione della modifica del Titolo V della Costituzione e che non garantisce la governabilità a causa del processo legislativo eccessivamente complesso, rilevando però che essa legittima e introduce un Premierato così forte da definirsi assoluto. Anche qui abbiamo due posizioni assolutamente contraddittorie. Cercherò, brevemente, di fare più che altro delle sottolineature a queste critiche.
La prima riguarda la cosiddetta riforma frettolosa, quindi la questione dei tempi. Non voglio ricordare in quest'Aula il percorso dei progetti di modifica costituzionale che hanno attraversato tutte le legislature, dalla prima fino a questa, ma soprattutto le ultime; ricordo che in realtà sono cinquant'anni che, da un lato, il Paese aspetta una riforma che attenui il centralismo dal quale è affetto il nostro sistema politico e amministrativo, che ha origini lontane, che si è rafforzato nel Ventennio e che è rimasto nel nostro sistema istituzionale, nonostante il regionalismo, diciamo, attenuato della nostra Carta costituzionale; dall'altro lato, sono cinquant'anni che il Paese aspetta la riforma della governabilità, perché sappiamo com'è nato il nostro sistema costituzionale, cioè in una situazione di poteri bloccati, con due Camere paritarie ma elette in maniera diversa, che quindi contribuiscono all'ingovernabilità del sistema, con un Governo che probabilmente, nello scenario europeo, è il più debole, il meno autorevole che ci sia.
Il fatto che la riforma giunga in questa legislatura è dovuto alla circostanza che essa è stata preceduta anche, da ultimo, da un lavoro molto ampio della Commissione D'Alema nella passata legislatura, che ha trovato però un esito molto parziale, la riforma del Titolo V, insufficiente e caotico e che oggi richiede una rivisitazione profonda per dare piena attuazione a quel disegno e per introdurre, accanto a un federalismo equilibrato e ragionevole, anche un sistema di Governo serio, autorevole, all'altezza dell'Unione Europea.
Le ragioni sono state già accennate: completare il federalismo della passata legislatura, che recentemente è stato definito (io lo dissi, ma l'aggettivo è stato ripetuto da un costituzionalista autorevolissimo della sinistra, cioè il professor Barbera) letteralmente un federalismo sgangherato e quindi dannoso per il Paese, conflittuale, che determina continuamente momenti di rottura e di flessione tra i vari livelli di governo, perché nella riforma di allora non si prevedeva nemmeno quel luogo di incontro politico, di compensazione che oggi invece questa riforma prevede.
La riforma che stiamo discutendo oggi introduce anche il tema della governabilità del sistema, che è diventata ancor più necessitata nel momento in cui si è modificata la governabilità nelle autonomie locali e nelle Regioni. Inoltre, l'Europa si apprestava, con il nuovo Trattato europeo, a rafforzare la governabilità a livello europeo e sicuramente, passato questo momento di stasi e di trauma dopo il referendum in Francia e in Olanda, riprenderà il cammino per rafforzare la governabilità del livello europeo, però è rimasta fuori la governabilità del sistema Paese. Questa riforma, quindi, mira finalmente a ricondurre il Governo nazionale allo stesso livello delle altre istituzioni che ho citato.
È stato contestato il metodo della riforma. Ritengo che mai come in questo caso si sia tenuto conto non solo dei precedenti in tema di riforma costituzionale, ma anche del dibattito sviluppatosi in quest'Aula come in quella della Camera. Molte osservazioni fatte dall'opposizione sono state recepite dal testo oggi all'esame di questo ramo del Parlamento. Ricordo che la Casa delle libertà preferì il Premierato rispetto al sistema semipresidenziale alla francese perché si pensò che il primo sarebbe stato ben accetto dall'opposizione che si era spesa su tale forma di Governo e, sia in sede di Commissione D'Alema che successivamente, in alcuni disegni di legge presentati anche in Senato, aveva dimostrato il suo favore.
Vi sono alcune espressioni e alcune formule introdotte nella riforma costituzionale che traggono origine dagli interventi, dai suggerimenti e dalle critiche espresse dall'opposizione sia alla Camera che al Senato. Pertanto, ritengo che la Casa delle Libertà non possa essere tacciata di chiusura e che anzi, nel momento in cui verranno approfonditi gli articoli e i commi del disegno di legge, sarà possibile conoscere meglio le ragioni che hanno portato a scegliere una formula piuttosto che un'altra.
Desidero, inoltre, far presente che vi fu un momento preciso, in particolare presso la Camera dei deputati (gli atti lo dimostrano, come pure la stampa di quei giorni), in cui addirittura si propose di estrapolare dalla riforma il federalismo, che dava - e continua a dare - enormi problemi di gestione, al fine di pervenire ad una nuova formulazione. Ebbene, tale apertura proveniente dall'opposizione fu stroncata dall'intervento dell'allora candidato in pectore del centro-sinistra e presidente del Consiglio, onorevole Prodi. Egli sosteneva infatti la tesi del "muro contro muro" perché convinto che non bisognasse trattare. A suo avviso, la riforma non andava varata perché il sistema costituzionale vigente in Italia era efficiente, valido e adatto al nostro Paese.
È stato detto, infine, che la riforma è stata voluta dalla Lega. Non contesto che quest'ultima abbia particolarmente premuto sul pedale dell'acceleratore per introdurre un federalismo serio ed equilibrato. La Lega ha compiuto un grande percorso ed è passata da un secessionismo che potremmo definire eversivo di alcuni anni fa ad un federalismo costituzionale, ragionevole ed equilibrato che condividiamo. Modificare i livelli di governo assicurando un intervento unitario da parte dello Stato è un obiettivo che appartiene alla cultura politica non solo della Lega, ma anche dei cattolici e dei liberali. Ciò perché i livelli di governo devono avvicinarsi sempre più ai cittadini, ed il federalismo è esattamente questo.
Nel presente disegno di legge oltre alle questioni riguardanti il federalismo ve ne sono altre che concernono l'unità del Paese. Si parla tanto della clausola "salva patria": l'avere introdotto l'obiettivo dell'interesse nazionale che la riforma del 2001 aveva ingiustamente cancellato, diminuendo così le possibilità per il Governo centrale di farsi garante dell'unità del sistema; l'avere modificato la norma dell'articolo 120 del testo della riforma del Titolo V in una formulazione più stringente e più adatta alle necessità unitarie; l'avere soppresso quella formula e il meccanismo del federalismo differenziato presente nel testo attualmente vigente della Costituzione quale voluto dall'Ulivo quando approvò la riforma del Titolo V.
Ma accanto a queste modifiche del sistema federale nel senso di un equilibrio complessivo dei poteri, in questo contesto anche la cosiddetta devolution fa parte di un processo di chiarimento, di completamento e di maggiore certezza dei poteri dei vari livelli di governo. Accanto a questo c'è la creazione di strumenti di governo del federalismo quali il Senato federale, una Corte costituzionale rinnovata, per quanto riguarda le nomine dei giudici, la previsione di luoghi nei quali ci si può confrontare sugli interessi nazionali, regionali, locali. Questo non è da sottovalutare soprattutto per il fatto... (Brusìo in Aula).
 
PRESIDENTE. Colleghi, siamo in pochi, ma non riusciamo comunque ad ascoltare quello che dice il senatore Pastore. Vi invito a limitare il chiacchiericcio.
 
PASTORE, relatore. Onorevoli colleghi, dovendo ascoltare ore di interventi, qualche minuto di attenzione sarebbe doveroso e opportuno da parte vostra.
Come dicevo, la riforma federale contiene anche la previsione di luoghi nei quali ci si può confrontare e si può mediare politicamente tra vari livelli di Governo. Questo però lo prevede la nostra riforma, non quella introdotta dall'Ulivo.
Il primo luogo di mediazione è proprio il Senato federale perché con il sistema elettorale individuato, con la contestualità, credo che si possa realizzare quella sincronia politica e istituzionale tra Regioni, autonomie locali e Stato centrale. Ma voglio aggiungere, sulla questione cui accennavo prima, della Lega passata dal secessionismo al federalismo, che questo è un dato politico di estrema rilevanza. Noi oggi abbiamo assistito, con i Governi di centro-destra, a fenomeni che hanno caratterizzato la storia d'Italia e a tentativi di includere nella responsabilità di Governo forze che erano ai margini del sistema di Governo legittimandone quindi pienamente a livello democratico la partecipazione.
Avvenne un secolo e mezzo fa con Cavour e con il Connubio, si cercò di farlo con Giolitti per introdurre i socialisti (un'operazione non riuscita), purtroppo avvenne con risultati contrari con i fascisti, si è tentato - e si è riusciti - nel dopoguerra con i socialisti attraverso il centro-sinistra; oggi con il centro-destra, prima attraverso la rottura di quell'arco costituzionale che stringeva il sistema e l'inclusione (definita con termine riduttivo e piuttosto bruttino sdoganamento) dell'ex MSI, oggi AN, poi con l'inclusione a livello di responsabilità di Governo della Lega, che dalla secessione è passata al federalismo. Di ciò dobbiamo essere tutti grati all'evoluzione politica del nostro Paese che ha consentito di mettere a frutto le pulsioni, le spinte, le esigenze, gli interessi che queste forze hanno rappresentato più recentemente nel nostro Paese.
Non dico nulla sulla devoluzione; anche se questa riforma viene definita devolution, in realtà ne è una piccola parte, pur se importante, perché rientra in una previsione più complessiva del federalismo. Accanto a questo vi sono altri aspetti che credo si potranno scoprire quando, sgombrando il campo dai pregiudizi dell'appartenenza a questo o a quello schieramento, si leggerà il testo costituzionale ed anche attraverso i commenti che di questo testo saranno fatti nei prossimi mesi, quando si andrà verso il referendum.
Un altro aspetto della riforma che viene trascurato è la presenza nel testo costituzionale di alcune norme transitorie, due in particolare, che cercano di porre rimedio - naturalmente ciò avverrà dopo che sarà divenuta legge definitiva - ad un fenomeno gravissimo che si è verificato con l'approvazione della riforma del Titolo V del 2001: il passaggio graduale dallo Stato alle autonomie di funzioni, personale, risorse, e così via.
La riforma del 2001 non conosceva alcuna norma transitoria: dall'oggi al domani siamo piombati da un sistema centralista appena appena regionale ad un sistema federale, senza alcun paracadute. Ci siamo trovati letteralmente schiacciati a terra dalla conflittualità che si è generata subito tra lo Stato e le Regioni, dalle difficoltà pratiche di attuare un federalismo quando ne mancavano gli strumenti elementari: Regioni senza statuti e senza risorse, lo Stato in condizioni di non poter trasferire personale e risorse alle Regioni o di poterlo fare solo in tempi estremamente lunghi.
Il testo al nostro esame prevede proprio due norme del genere: una sul trasferimento del personale, l'altra sulla pressione fiscale, formula che ha inorridito i puristi del costituzionalismo (perché sembra che la pressione fiscale non esista nel nostro ordinamento costituzionale) ma che ha un significato - direi - costituzionale estremamente importante. Quindi ritengo che, anche sotto questo profilo, l'approvazione definitiva della riforma non potrà che portare beneficio al Paese. (Applausi dai Gruppi FI, AN e LP).
 
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione generale.
 
È iscritto a parlare il senatore Manzella. Ne ha facoltà.
 
MANZELLA (DS-U). Signor Presidente, onorevole Sottosegretario, all'ultima lettura di un testo costituzionale di lungo corso sembrerebbe che non ci sia nulla da dire che non sia già stato detto. Fu questa la presunzione che, oltre cinquant'anni fa e poi tralaticiamente in successive riforme del nostro Regolamento, condusse ad una disciplina scorrettamente restrittiva di quest'ultima deliberazione: niente emendamenti, niente ordini del giorno, niente questioni pregiudiziali o sospensive, niente stralci: soprattutto niente votazioni articolo per articolo, divieto questo che pone sicuramente il nostro Regolamento in contrasto con l'articolo 72 della Costituzione.
Ma, di questo scontro frontale tra Regolamento e Costituzione, forse varrà la pena parlare in più appropriato momento. Qui interessa sottolineare che tale procedura restrittiva partiva da un presupposto di consenso: rafforzato dalla mancanza, allora, della disciplina del referendum confermativo e, dunque, dal vincolo insuperabile della maggioranza dei due terzi. Questi presupposti non ci sono più e così oggi l'esame di un progetto che tocca, come questo, tutta l'organizzazione della Repubblica registra un'assenza di garanzie per la definitiva decisione parlamentare proprio nel punto più delicato del nostro impianto costituzionale, quello della sua revisione.
Dunque, non può cambiare niente in questo disegno di legge mentre, paradossalmente, ad opera della stessa maggioranza che lo sostiene, tutto sta mutando nell'universo politico del Paese, a causa della restaurazione, dopo dieci anni, del regime proporzionale.
E allora, signor Presidente, signor Sottosegretario, signor relatore, in un Parlamento ove regnasse la logica del diritto e della politica si sarebbe imposta una pausa di coerenza: per valutare la compatibilità tra gli assetti costituzionali previsti in questo progetto e il nuovo ordinamento elettorale che avanza. E si sarebbe allora potuto magari vedere, in un onesto giudizio, che certe critiche di fondo avanzate dall'opposizione a questo progetto, vigente il regime maggioritario, perderebbero forse vigore in un'ottica proporzionalista. Mi riferisco, ad esempio, al cruciale capitolo sulle garanzie, ai gravi rilievi di omesso adeguamento delle garanzie costituzionali nel passaggio dal proporzionale al maggioritario: ora che si torna di nuovo, in un andirivieni un po' schizofrenico, dal maggioritario al proporzionale.
Ma altre critiche avrebbero acquisito invece una più profonda motivazione, alla luce del vecchio metodo elettorale che ritorna. Mi riferisco al modo di elezione dei senatori: come giustificare ora la formula dell'articolo 57 di questo progetto, che impone di "garantire la rappresentanza territoriale da parte dei senatori"? Nel momento stesso in cui, questa rappresentanza territoriale, è di fatto azzerata da una legge che distrugge i collegi territoriali e crea il listone regionale, in cui ogni scelta dell'elettore sarà una scelta semplicemente di partito, senza possibilità di decidere, né sulla persona del rappresentante, né sugli interessi territoriali da far valere? Mi riferisco, anche e soprattutto, al meccanismo di governabilità di questo progetto, che l'opposizione ha a lungo criticato, con la denuncia della esasperazione del "premierato assoluto", ma che ora, per l'incombenza di una legge elettorale proporzionalista, e caratterizzata al Senato da illegittimi premi regionali di maggioranza distribuiti a casaccio, appare come una pericolosa costruzione, pericolante nel vuoto di un assetto parlamentare parcellizzato che promette ingovernabilità, con il rischio weimariano di scioglimenti a ripetizione (senza però la consolazione della astratta perfezione stilistica della Costituzione di Weimar).
L'assetto delle garanzie, l'assetto parlamentare, l'assetto di governo, già criticabili per come sono stati scritti in questo progetto, appaiono oggi costruzioni di un paesaggio lunare, dato che non c'è nulla nella terra del buon senso e del diritto, non c'è nulla nella storia di questa Repubblica che li possa giustificare.
Quel paesaggio lunare che forse è l'unica flebile scusante della seduta notturna di stanotte, quando, appunto, mi si dice, ci sarà plenilunio. Una decisione della maggioranza, avallata dalla Presidenza di questa Assemblea, che ferisce - direi - il comune senso del pudore dei rapporti politici e istituzionali; una decisione sul "disordine dei lavori", nel momento in cui un dibattito costituzionale si incrocia, in quest'Aula, con un dibattito elettorale per decidere sulle regole fondamentali della nostra democrazia.
Come si vede, resta incontaminato da questa riflessione il progetto nella sua parte di devolution. La parte che giustamente dà nome al tutto, nonostante qualche componente della maggioranza - per ultimo abbiamo sentito il nostro relatore - si affanni a dire che c'è anche dell'altro in questo progetto. In realtà, lo abbiamo constatato, quel poco altro che poteva starci è affondato nel confronto con il meccanismo elettorale che si vuole introdurre.
Resta dunque la devolution, che nel confronto con il progetto elettorale esce forse rafforzata: se il premio di maggioranza variabile regione per regione assumerà anche la funzione di esaltare ulteriormente la logica del ghetto. I venti ghetti regionali che questo progetto, con la norma base della esclusività legislativa e anche con una sorta di assolutismo fiscale, vuole creare, almeno come illusoria bandiera per frange corrive di elettorato. Basta leggere la sentenza di ieri della Corte costituzionale sulla finanziaria del 2004 per capire come la maggioranza della devolution maltratti poi, di fatto, l'autonomia delle Regioni e degli enti locali.
Comunque, illusorio o no, non è questo tempo di ghetti; è tempo di interdipendenze, di chi sa vederle e valorizzarle. Mai come ora la nostra comunità nazionale ha bisogno di inseparabile coesione, di unità nella visione del futuro. Se ci spezzettiamo, addirittura per obbligo costituzionale, non avremo la forza di reggere alle crisi e alle tensioni che già ci minacciano.
Tutti i senatori dell'opposizione che si sono iscritti a parlare, per rispetto al Parlamento, nelle poche ore concesse, esprimeranno questo bisogno di unità. Sono l'avanguardia parlamentare di quella partecipazione popolare al referendum che si esprimerà per un'altra Italia, per un'altra Costituzione. Un'altra Costituzione che non rinnega, però, le radici del '48, né il clima di intesa nazionale, di secondo Risorgimento che la segnò allora, ma che svilupperà fino in fondo e attuerà la formula dell'articolo 3 della nostra Carta originaria, quella che parla di "effettiva partecipazione" di tutti i cittadini "all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Le primarie di massa del 16 ottobre hanno dimostrato quanto profondo e maturo sia ormai questo bisogno di partecipazione. Su questa, noi dobbiamo ora sagomare il nostro sviluppo costituzionale, uscendo dal gioco di specchi dell'arida meccanica istituzionale che è tanta parte di questo progetto, così lontano dall'animo e dalle domande popolari.
Vogliamo cominciare da quell'articolo 49 che parla dei partiti, per immettere nella loro configurazione strutturale, nelle condizioni del loro funzionamento, il carattere dell'apertura alla consultazione di iscritti e non iscritti, insomma di quell'area larga di 4 milioni di cittadini che il 16 ottobre ha sottoscritto concretamente un'adesione ideale e una voglia di cittadinanza attiva: dando nome, indirizzo, telefono e soldi per continuare a farsi coinvolgere.
Vogliamo continuare con il Parlamento, ripristinando innanzi tutto, quale che sia il sistema elettorale alla fine prescelto, il legame tra parlamentari e collegi territoriali a dimensione umana, il tessuto che è stato lacerato, la dimensione essenziale della democrazia. Assegnando una configurazione istituzionale nuova, in connessione stretta e vincolante con le procedure rappresentative parlamentari a istituti di democrazia diretta come il referendum, l'iniziativa popolare, la petizione e dando, viceversa, una struttura aperta all'esercizio del controllo cittadino e delle comunità locali nella procedura dell'inchiesta parlamentare.
Vogliamo dare a questo Senato la dignità e il ruolo nazionale di una Camera di composizione e di confronto tra Governo centrale e governi territoriali, aprendo Commissioni e Assemblea con pari dignità ai rappresentanti di Regioni, delle Province e dei Comuni, così com'era del resto già previsto da quell'articolo 11 della nostra riforma del 2001, norma sabotata dalla maggioranza con evidenti complicità istituzionali.
Il Senato sarà così il punto di sbocco della ricca diversità italiana, di tante aspirazioni articolate del nostro popolo, il punto di coordinamento delle rappresentanze, il nodo essenziale della rete delle assemblee elettive, l'isola della ragione nazionale e dell'unione nella diversità: ed anche il luogo di valutazione di quell'interesse nazionale reintrodotto come formula astratta, ma svuotato di valori sostanziali e giustiziabili.
Così operando, non avremo bisogno di cavalcare il vecchio cavallo dell'antiparlamentarismo endemico del nostro Paese, vendendo la riduzione del numero dei parlamentari come toccasana populista. In un disegno funzionale la riduzione del personale politico dovrà essere una conseguenza, e non una premessa. Vogliamo che vi sia la possibilità di sottoporre a referendum confermativo non solo le revisioni costituzionali, quale che sia la maggioranza parlamentare che le abbia approvate, ma anche le leggi elettorali, le leggi organiche di revisione dei codici, di disciplina delle comunicazioni di massa, sull'organizzazione delle autorità indipendenti, sull'ordinamento dei giudici.
Ecco i grandi orizzonti del costituzionalismo dei tempi nuovi contro la asfittica concezione di sopraffazione di poteri e di separatismo strisciante che caratterizza questo disegno di legge. Tutto dice che tra oggi e domani, per la procedura e per la sostanza, sarà scritta una pagina nera nella storia di questa Assemblea. I Gruppi parlamentari dell'opposizione la riscatteranno subito con l'iniziativa del referendum, un atto parlamentare che riapre il dibattito e chiama alla partecipazione politica. Questa sarà il segno di un discorso in continuazione coerente di quello glorioso del 1948: il discorso della evoluzione costituzionale nel segno del nostro tempo e delle sue passioni contro il conservatorismo culturale, le chiusure, il corrompimento istituzionale e gli autentici arretramenti di questo progetto.
È per questo che il voto scontato di domani non sarà affatto scontato nel futuro costituzionale della nostra Patria. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e Misto-Com. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Mancino. Ne ha facoltà.
 
MANCINO (Mar-DL-U). Signor Presidente, onorevole Brancher, onorevoli colleghi, quanto diverso è lo stato d'animo di ciascuno di noi nella seduta di oggi e di domani rispetto alla fase del dibattito parlamentare all'inizio di questa legislatura; quanta diversità di pensiero e di sentimento: allora, al di là di una cornice politica di contrapposizione, la critica non era tanto ai contenuti quanto alle modalità di approvazione del Titolo V.
Quanta determinazione è cresciuta nel corso degli eventi! La riforma costituzionale avrebbe avuto bisogno di prendersi cura anche nel corso della seconda lettura, di alcune pregiudiziali: il Parlamento, sia pure nella continuità di questa legislatura, a fronte di un dibattito che si è svolto non solo nelle Aule parlamentari ma anche nel Paese, può sollevare pregiudiziali di incostituzionalità sul punto della revisione globale della Seconda parte della Carta.
Abbiamo, infatti, modificato una parte rilevante della Costituzione, non è stata toccata la parte relativa alla giustizia, che si è invece ritenuto di rimettere alle modifiche attraverso leggi ordinarie, sulle quali peraltro la Corte costituzionale è intervenuta, ritenendo illegittime alcune proposte che erano state approvate dal Parlamento.
Un intero impianto costituzionale, che avrebbe meritato risposte da parte della maggioranza, si può modificare attraverso il ricorso all'articolo 138? Non c'era, invece, bisogno di uno strumento diverso, magari un'assemblea di revisione costituzionale che non mettesse in dubbio la legittimità della legislatura e, perciò, il potere costituito delle Camere? Questa assemblea, costituita da saggi veri, avrebbe potuto accompagnare il lavoro di entrambi i rami del Parlamento, libero di approvare o meno un testo e in caso affermativo con l'ultima parola agli elettori. Si è parlato spesso di Assemblee costituenti, ma questo problema non è stato mai affrontato con l'intento di risolvere le riforme. Di certo, però, con il ricorso all'articolo 138, possiamo rivedere singole parti, ma non un intero sistema di organizzazione del potere.
Se si modificano 54 articoli, evidentemente c'era bisogno di arrivare ad una Costituzione pattizia, perché di questo si tratta: di un patto all'interno della maggioranza stipulato sulla testa dell'intero Parlamento; l'opposizione è stata, infatti, tagliata fuori da qualunque colloquio o da qualsivoglia attenzione anche rispetto a proposte riguardanti, ad esempio, i contenuti del Titolo V che erano state avanzate qui in Senato, bocciate e poi riprese alla Camera, e magari in quella sede parzialmente accolte. Si tratta di una Costituzione pattizia perché ciascuno si ritrova in essa: la Lega Nord sul tema della devoluzione, Alleanza Nazionale sull'interesse nazionale, Forza Italia sul Premierato assoluto e l'UDC su una riforma elettorale del tutto incoerente - come poc'anzi faceva rilevare il senatore Manzella - rispetto all'impianto nuovo che si vuole dare alla Costituzione.
Nel 1993 una legge elettorale ha inciso profondamente sulla natura del sistema, posto che alcuni si sono illusi che resistesse la natura parlamentare, anche se in prevalenza era diffusa l'opinione che avessimo invece imboccato la strada che ritroviamo oggi nell'impianto della Costituzione al nostro esame, in base al quale il primo Ministro deve essere eletto direttamente dal corpo elettorale, apponendo il suo nome sulla scheda, e collegando anche la sua maggioranza attraverso candidature riferite alla sua persona.
Proprio questo collegamento organico ha rotto un impianto cinquantennale che aveva fatto registrare in Parlamento lo svolgersi di dialoghi anche aspri, ma produttivi di eventi, eventi politici e legislativi, tesi al miglioramento della condizione complessiva del Paese. Con la riforma siamo in presenza di una maggioranza che secondo il rivisitato impianto costituzionale fa corpo a sé, che resta la maggioranza del primo Ministro a disposizione dello stesso e sotto la minaccia di eventuali ricorsi allo scioglimento anticipato.
Si è criticato sempre il contenuto del Titolo V. Ora io rivolgo la seguente domanda: con una maggioranza così cospicua (di 100 parlamentari alla Camera e di 45 al Senato), se proprio non era digeribile il Titolo V, perché lo avete soltanto ritoccato, e non l'avete interamente abrogato, come facevano prevedere le critiche e le censure che sono partite anche da autorità istituzionali?
Nella presentazione di una indagine conoscitiva - lo sa bene il senatore Pastore - abbiamo ascoltato critiche aspre nei confronti del Titolo V, che però nel nuovo impianto è rimasto così com'era, salvo le modificazioni dovute al fatto che è sembrato giusto che alcune materie dovessero trasferirsi nuovamente in testa alla competenza statale e non rimanere in testa alla competenza regionale. Perché questa ossessiva critica alla attribuzione alle Regioni di alcune competenze esclusive?
Signor Presidente, parlando del disegno di legge anticipatore della devoluzione, già ebbi a dire che sarebbe stato il corpo elettorale a sancire definitivamente se nella Carta costituzionale potesse essere inserita ad esclusione dello Stato o in conflitto con esso una competenza esclusiva delle Regioni in tema di scuola, di sanità ed allora anche di polizia locale, quando venne omesso dolosamente e con furbizia l'aggettivo "amministrativa".
Il modello di devoluzione proposto incrocia una competenza esclusiva dello Stato nei settori dell'istruzione e della sanità, oltre una competenza concorrente Stato-Regioni in materia d'istruzione. Quale esclusività si può realizzare, se la Carta costituzionale, al secondo comma dell'articolo 117, attribuisce una competenza esclusiva allo Stato nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni nel settore civile e in quello sociale? Fra le due competenze esclusive, deve prevalere ogni volta che occorre la decisione della Corte Costituzionale, mentre sarebbe più giusto utilizzare il buon senso di chi governa, di chi ha la maggioranza nel Paese?
La devoluzione apre un'inquietante pagina di rottura ordinamentale, perché incide anche sulla prima parte della Costituzione, sull'articolo 3, inerente all'eguaglianza dei diritti dei cittadini. Si afferma che l'attribuita competenza esclusiva delle Regioni riguardi solo la parte organizzativa. Ritengo invece trattarsi di molto più della parte organizzativa. Per altro, "rompendo" con una competenza ineliminabile dello Stato nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, si tratta di vedere se di fronte anche alla pochezza delle risorse, detti livelli possano essere rispettati laddove inferiore è la produzione della ricchezza sul territorio.
Di certo so che, con questa riforma devolutiva esclusiva, andremo incontro a periodi bui: ammettendo una competenza esclusiva dello Stato nel settore della salute, sia pure attraverso norme generali e una potestà legislativa esclusiva in tema di organizzazione sanitaria dell'assistenza, di certo realizzeremo una disparità di trattamento tra cittadini.
Per non parlare, poi, della scuola, dove la competenza esclusiva statale è sia sulle norme generali sull'istruzione, sia sui princìpi fondamentali che debbono regolamentare la disciplina scolastica; princìpi fondamentali che possono significare anche vincoli, senatore Pastore. Con la legge La Loggia ci siamo limitati ad una legge quadro per ottenere un censimento dei princìpi fondamentali, ma non abbiamo mai affrontato in questa legislatura un solo contenuto relativo a princìpi fondamentali che debbono regolamentare la competenza concorrente tra lo Stato e le Regioni.
Parlo da una posizione diversa, che spesso è criticata dai centralisti di casa nostra. Da convinto regionalista, di fronte all'articolo 2 della Costituzione, che non è messo in discussione, e che recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo...» e all'articolo 3 che recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale...» mi chiedo - riconoscendo la competenza esclusiva delle Regioni - come si possano realizzare questi due obiettivi fondamentali della Carta costituzionale del 1948.
Se «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale...», mi chiedo come, quando e in che misura possa intervenire lo Stato, cioè il Governo e il Parlamento, in settori destinati alla competenza esclusiva delle Regioni. Senza sconfinare in conflitti di attribuzione, mi chiedo quale patto si possa siglare tra Stato e Regioni senza che queste ultime diventino parte costitutiva e fondante - oggi sì, dopo il Titolo V - di una delle due Camere che hanno competenza legislativa.
So che è stato speso molto tempo sul tema dell'interesse nazionale. Mi riferisco all'argomento che di volta in volta il senatore Nania ha indicato a merito della sua parte politica. Una sentenza della Corte costituzionale aveva già sancito che lo Stato, ove prevalesse una ragione legata all'interesse nazionale, potesse legiferare su qualunque materia ancorché appartenente alla competenza esclusiva delle Regioni. Come abbiamo risolto, colleghi, l'interesse nazionale? In maniera paragiurisdizionale. Il Governo pone il problema che la questione assegnata alla competenza del Senato interessa il Governo; se il Senato non se ne fa carico, il Governo chiede di spostare la competenza alla Camera, la quale decide inappellabilmente.
Avremmo così una competenza eventuale del Senato, una competenza, cioè, che dipende soltanto dalla valutazione che sul singolo caso fa il Governo. C'è proprio bisogno di un Senato ridotto ad avere competenze solo eventuali?
Sia nella funzione bicamerale sia in quella legislativa in materia di legislazione concorrente il Senato o ha competenza ridotta o, anche quando gli è attribuita, può perdere l'affare a favore della Camera.
Forza Italia ha avuto in premio il Premierato assoluto, il quale degrada il Parlamento ad una condizione di dipendenza dall'Esecutivo. Non mi sfugge l'importanza che anche il Presidente del Consiglio ritenga utile il ricorso allo scioglimento anticipato.
Lo scioglimento delle Camere è questione seria e va disposto da organo terzo, che non può non essere il Capo dello Stato.
Pongo una seconda questione: è previsto che in qualunque momento il Parlamento può sfiduciare il Governo e si va a casa. Ma può fare solo questo: può sfiduciare. Se dovesse, invece, ritenere che il Presidente del Consiglio non ce la faccia a governare, che non sia in grado, anche fisicamente, di continuare l'attività di Capo dell'esecutivo, che si sia reso responsabile di reato grave, quale parola ha il Parlamento, se per dare la sfiducia al Governo, quella costruttiva, deve fare ricorso alla stessa maggioranza uscita dalle elezioni? Il partito del Primo Ministro ha le mani libere per sfiduciare costruttivamente il Capo del Governo?
Qualcuno ci rimprovera che preferiamo il ribaltone, ma il ribaltone è un concetto giuridico o è un dato culturale? Personalmente sono sempre stato contrario al ribaltone. Del resto nel lontano 1994, presiedendo un gruppo uscito ridotto dalle elezioni, mi opposi alla sollecitazione del segretario politico dell'epoca, onorevole Buttiglione, e non presentai al Senato, come invece avvenne alla Camera, la mozione di sfiducia nei confronti del Governo Berlusconi. Ciò fu dovuto al mio convincimento di non dovere arrivare all'utilizzazione di parte di quella maggioranza uscita vincitrice, solo alla Camera peraltro, per un Governo alternativo.
Avendo questa radicata opinione sui ribaltoni, dal punto di vista culturale ma anche dal punto di vista morale, mi sento di dire che il Parlamento, per non diventare il braccio esecutivo del Governo, ha diritto di cambiare il Governo. Si può, come in Germania, assegnare un termine entro il quale il corpo elettorale, anche per valutare se l'operazione sia stata corretta, moralmente sostenibile, culturalmente valida, possa giudicare se il cambio di maggioranza sia sostenuto anche da una mutata e conforme opinione pubblica del Paese.
Signor Presidente, un Premier assoluto che è padrone della vita e della morte del Parlamento è una pagina inquietante. Qualcuno ricorda che - la soluzione è dettata dall'esperienza - abbiamo avuto tanti Governi instabili! Vorrei ricordare a me stesso, prima di concludere, e approfittando della presenza dell'onorevole Andreotti, che la nostra Repubblica ha avuto nel corso della sua vicenda politica sostanzialmente tre modelli di coalizione. Nei primi 12 anni, dal 1953 al 1960, sia pure a fatica, ci furono Governi centristi; dal 1960 al 1972 ebbero vita coalizioni di centro-sinistra, dal 1976 abbiamo avuto prima un Governo di non sfiducia, poi di solidarietà nazionale. Queste sono state ricordate come le principali coalizioni della cosiddetta prima Repubblica.
Si possono giudicare queste coalizioni positivamente o negativamente, ma è questione di merito. Cambiavano i governi, ma ciò avveniva all'interno delle coalizioni che avevano una stessa linea politica.
 
PRESIDENTE. Senatore Mancino, la invito a concludere.
 
MANCINO (Mar-DL-U). Può apparire giusta, signor Presidente, una modifica con la quale il Parlamento perda le proprie prerogative, il Senato abbia competenza eventuale, si registri uno squilibrio dei poteri tradizionali dello Stato? Stiamo realizzando, colleghi, non un bilanciamento ma uno sbilanciamento dei poteri.
Termino con questa lettura, signor Presidente: «Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione». Era Piero Calamandrei che scrisse queste parole.
Stiamo per disperdere molti valori, colleghi: stiamo dando vita a un sistema politico del Primo Ministro, nessun sistema vigente ha ispirato i riformatori, il Paese si ispira al modello azienda che non ha niente a che fare con un sistema democratico. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U, DS-U e Misto-Com. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Bassanini. Ne ha facoltà.

BASSANINI (DS-U). Signor Presidente, colleghi, come noto, le Costituzioni moderne assolvono a due funzioni fondamentali. La prima è quella di definire nelle linee generali l'architettura istituzionale, organizzare la democrazia, oggi si dice "garantire la governabilità"; cioè delineare istituzioni capaci di risolvere i problemi del Paese e di tutelare effettivamente i diritti dei cittadini, in coerenza con i princìpi e i valori della Carta costituzionale e con le scelte dell'elettorato (o della maggioranza di esso). Una democrazia debole, inefficace e inefficiente nel far fronte a questi compiti perde legittimazione. Abbiamo bisogno di istituzioni democratiche forti; ma la forza della democrazia sta nella sua effettiva rappresentatività, nel consenso e nella partecipazione dei cittadini senza i quali, alla lunga, le decisioni prese rischiano di non poter essere attuate.
Vi è però una seconda funzione delle Costituzioni democratiche moderne non meno essenziale della prima. È quella di riconoscere e sancire nel loro contenuto essenziale i fondamentali diritti civili, economici e sociali che spettano ad ogni persona umana e gli inderogabili doveri di solidarietà che da ciascuno debbono essere osservati, e di definire le regole generali della competizione democratica; di dare la certezza che la dignità umana, i diritti e le libertà, le regole democratiche fondamentali non sono in balìa delle alterne vicende della competizione politica.
Per queste ragioni, le Costituzioni non sono destinate a cambiare, come può avvenire per le leggi ordinarie, ad ogni cambio di maggioranza. La stabilità delle Costituzioni e la loro supremazia servono a dare a tutti, anche alle minoranze, anche agli sconfitti della competizione elettorale, la certezza che i diritti, le libertà, le regole democratiche fondamentali non sono alla mercé del vincitore dell'ultima competizione elettorale.
Per questo, in quasi tutte le grandi democrazie si è ritenuto e si ritiene che le leggi di revisione costituzionale debbano essere il prodotto di larghe intese, di una ampia condivisione tra maggioranza e opposizione. È una conseguenza coerente di questa esigenza di stabilità, del ruolo di garanzia dei diritti e delle libertà di tutti e della certezza delle regole democratiche che è proprio delle Costituzioni democratiche (o, se preferiamo, liberaldemocratiche).
Nelle ultime legislature, in Italia, si è tuttavia proceduto o tentato di procedere alla adozione di riforme costituzionali sostenute dalla sola maggioranza. Ma un Paese non può vivere e crescere se le regole fondamentali della convivenza comune cambiano ad ogni cambio di maggioranza. L'erosione della stabilità costituzionale registrata in Italia in questi anni rappresenta probabilmente uno degli elementi del clima di insicurezza e smarrimento che prevale nel Paese ed uno dei fattori della sua crisi. Per ciò, recuperare il valore della stabilità costituzionale, della certezza delle regole, delle libertà e dei diritti è uno dei compiti che avevamo e abbiamo davanti.
Due missioni dunque, due funzioni fondamentali delle Costituzioni democratiche. Ma questo testo fallisce entrambi questi obiettivi, fa fare alla nostra democrazia straordinari passi indietro su entrambi questi due terreni fondamentali, quelli su cui si misurano la forza, il valore e l'efficacia di una Costituzione.
Avevamo e abbiamo un problema di ristabilimento della stabilità e della supremazia della Costituzione. Nella cosiddetta Prima Repubblica, esso era assicurato da due fattori. Il primo era il procedimento aggravato di revisione costituzionale (doppia lettura, maggioranza assoluta in seconda lettura, referendum oppositivo o confermativo quando la legge di revisione non avesse raggiunto la maggioranza dei due terzi in seconda lettura), un procedimento che fu ritenuto sufficiente all'Assemblea costituente in presenza di due condizioni: da una parte, la scelta allora effettuata, approvando l'ordine del giorno Giolitti, per un sistema elettorale proporzionale; dall'altra, la forte e radicata convenzione costituzionale, condivisa dalle forze politiche allora esistenti, che le modifiche alla Costituzione che tutte avevano concorso a definire e approvare dovessero necessariamente essere condivise, dovessero essere comunque approvate a larga maggioranza.
Queste due condizioni sono venute meno: è stato adottato, del tutto legittimamente e opportunamente (la stessa Assemblea costituente non aveva costituzionalizzato, proprio per questo, il sistema elettorale), un sistema elettorale maggioritario; e sono entrate sulla scena forze politiche che non hanno concorso a elaborare e approvare la Costituzione repubblicana e che non si sono ritenute compartecipi della convenzione costituzionale per la quale ciò che era stato stabilito come legge suprema della nostra convivenza doveva essere modificato solo sulla base di una larga e condivisa convinzione sulla necessità delle modifiche da apportare.
In questa condizione, è evidente che uno degli scopi fondamentali da perseguire, insieme a quello di dare alla Repubblica istituzioni democratiche più efficaci o di garantire più efficacemente la governabilità del nostro sistema democratico, era quello di ricuperare la supremazia, la stabilità della Costituzione, la certezza e la garanzia dell'intangibilità dei diritti e delle libertà; dunque, di rafforzare il sistema delle garanzie, a partire da una riflessione sull'adeguamento della procedura di revisione costituzionale delineata dall'articolo 138, la quale, venuti meno quei due presupposti, merita di essere riconsiderata alla luce anche dei procedimenti assai più aggravati che molte altre democrazie utilizzano per le riforme costituzionali, al fine di garantire che diritti, libertà, regole democratiche non siano in balia delle maggioranze del momento, non siano uno degli oggetti in discussione in relazione all'esito delle competizioni elettorali.
Nessun passo è stato fatto in questa direzione dal testo al nostro esame. Esso, anzi, da una parte indebolisce in diversi punti il sistema delle garanzie; dall'altra, determina un vulnus al principio della condivisione, delle larghe intese, della necessaria convergenza l'approvazione delle modifiche costituzionali: un vulnus assai più grave di quello che fu inferto con la legge del 2001, con l'approvazione del nuovo Titolo V. Infatti, quel precedente, che è comunque un precedente discutibile, presentava comunque caratteristiche diverse.
Il testo che allora fu approvato nasceva da una elaborazione comune nell'ambito della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, uscì da quella Commissione con un'approvazione a larghissima maggioranza; e fu, fino all'ultimo, sostenuto, anzi patrocinato, da una larga maggioranza bipartisan nel sistema istituzionale nel suo complesso, del quale fanno parte anche le istituzioni territoriali (Regioni, Province e Comuni), che appoggiavano nel 2001 l'approvazione della riforma del Titolo V indipendentemente dalle opinioni politiche dei titolari delle cariche di vertice dei governi regionali e locali.
Questa è la prima ragione della nostra opposizione: se due sono le funzioni fondamentali delle costituzioni democratiche, la riforma al nostro esame fallisce nel compito di adeguare il nostro sistema costituzionale alle modifiche intervenute nella Costituzione materiale sul terreno decisivo della garanzia della supremazia della stabilità della Costituzione e quindi sul terreno della intangibilità dei diritti, delle libertà e delle regole democratiche.
L'obiettivo, però, viene mancato anche sul terreno della governabilità, dell'adeguamento del sistema delle istituzioni, alle esigenze della nostra epoca: il testo che ci viene sottoposto registra, sotto questo profilo, pesanti passi indietro rispetto all'attuale Carta costituzionale. Lo si vede, per cominciare dagli aspetti più semplici, nella riforma del procedimento legislativo: il nuovo articolo 70 non potrà che provocare la paralisi dell'attività legislativa, non solo per la confusa distribuzione di competenze decisionali deliberative tra Camera e Senato, ma anche perché non contiene una disposizione che consenta di risolvere il problema della competenza deliberativa sulle leggi che disciplinano materie diverse inesplicabilmente intrecciate tra loro, a partire dalla legge finanziaria; per queste, la soluzione proposta («spacchettare» il testo legislativo) è qualche volta utilizzabile, ma per lo più del tutto inutile ed impraticabile, proprio perché ci sono discipline che non consentono una rigida suddivisione per materia.
Quanto alla forma di Governo e al ruolo di Primo Ministro, da un lato, registriamo una eccessiva concentrazione di poteri in capo al Premier, rischiando peraltro di mettere in un oscuro cono d'ombra il ruolo del Parlamento e soprattutto della Camera politica, la Camera dei deputati. Dall'altro, il testo colloca il Primo Ministro in una posizione pericolosamente debole, attribuendo potenzialmente ad una piccola frazione di parlamentari della sua maggioranza il potere di decidere le sorti della legislatura e dello stesso Governo, quindi in qualche modo di esercitare una influenza condizionante sulla maggioranza, sul Governo e sull'intero Parlamento; alla sola condizione che questa frazione della maggioranza disponga - per così dire - di un elettorato di nicchia disposto a sostenere anche le rivendicazioni identitarie più estreme, anche a costo di far cadere la legislatura e di mettere in crisi la maggioranza e la governabilità del Paese.
Questa evenienza è accentuata dalla legge elettorale che ci viene ora proposta e che rischia di operare in parallelo con il nuovo assetto costituzionale, perché - come è evidente - diminuisce la forza di condizionamento delle coalizioni sulle componenti delle singole coalizioni. Il ritorno anticipato alle urne, con la nuova legge elettorale, metterà infatti assai meno a rischio la rappresentanza parlamentare di forze che abbiano rotto, la solidarietà di coalizione, rispetto a quanto non avvenga con la legge elettorale vigente.
Questo testo riduce inoltre il ruolo del Parlamento in modo inaccettabile. Abbiamo bisogno di Governi forti controllati da Parlamenti forti; ma, nella riforma che viene proposta, la Camera dei deputati è perennemente soggetta al condizionamento e alla minaccia di scioglimento da parte del Primo ministro, che non incontra alcun limite nell'esercizio del potere di imporre alla Camera, con la questione di fiducia, un'alternativa secca: o la Camera vota, a scatola chiusa, il testo proposto dal Premier oppure va incontro all'inevitabile scioglimento anticipato della Camera.
Quanto alle modifiche del Titolo V e della forma dello Stato, questo testo rivela alcuni punti deboli di eccezionale rilevanza, innanzitutto con l'attribuzione di poteri legislativi esclusivi, peraltro costruiti in modo confuso. I colleghi della maggioranza mi devono spiegare come convivranno la competenza legislativa esclusiva del Parlamento nazionale in materia di tutela della salute e la competenza legislativa esclusiva dei legislatori regionali in materia di assistenza e organizzazione sanitaria. L'unica risposta che abbiamo avuto è la distinzione fra prevenzione e cura delle malattie, distinzione che - com'è noto - è stata superata circa quaranta o cinquanta anni fa e che non può essere seriamente riproposta.
A parte gli effetti che avrà questa confusione nella distribuzione delle competenze esclusive, e la probabile moltiplicazione di conflitti e controversie di fronte alla Corte costituzionale in misura ancora maggior di quanto non avvenga con l'attuale assetto, non c'è dubbio che questo testo si ispira ad un principio non compatibile con l'esperienza e la storia dei sistemi federali. A differenza dei sistemi confederali, i sistemi federali non prevedono in alcuna parte al mondo, neppure negli Stati Uniti, l'esistenza di competenze legislative del tutto esclusive attribuite alle istituzioni politiche territoriali.
Voglio ancora una volta ricordare il caso emblematico della sanità. Nella Costituzione degli Stati Uniti la sanità è competenza legislativa degli Stati; non c'è una parola nella Costituzione federale che l'attribuisca al Congresso degli Stati Uniti. Ma questo non ha impedito al Congresso di approvare importanti programmi federali in materia sanitaria come Medicare e Medicaid e di finanziarli con fondi federali. Chi si opponeva, il partito repubblicano, non ha mai invocato l'illegittimità costituzionale di queste disposizioni, ma ha solo motivato la sua opposizione politica ad un'estensione dell'intervento pubblico in materia sanitaria.
Con questo testo si perde un'occasione che avevamo a portata di mano: quella di riscrivere la parte più controversa del Titolo V, cioè l'articolo 117; la si sarebbe potuta cogliere, ricorrendo ad una larga intesa tra le forze politiche su un testo più semplice e più condivisibile che, sul modello della legge fondamentale di Bonn, prevedesse un adeguato elenco di materie riservate alla competenza del Parlamento nazionale e che, per tutto il resto, attribuisse la potestà legislativa alle Regioni, ferma restando tuttavia la potestà del Parlamento di intervenire con proprie leggi anche in quelle materie, a tutela dell'unità giuridica ed economica dell'ordinamento e dell'universalità dei diritti costituzionali dei cittadini.
Una formula semplice ed insieme duttile, che avrebbe consentito di eliminare molte controversie perché avrebbe chiaramente identificato una possibilità di intervento del legislatore nazionale quando le esigenze di coesione del Paese lo richiedessero.
In ogni caso, signor Presidente, questo testo, come si è visto, fallisce tutti e due gli obiettivi fondamentali di ogni seria operazione di revisione costituzionale. Il Parlamento lo approverà. Ma noi confidiamo nel fatto che i cittadini italiani, nella loro saggezza, con il referendum lo bocceranno e restituiranno così al Parlamento ed alle forze politiche democratiche il compito, fallito ahimè in questa legislatura, di delineare, sulla base di un aperto confronto e col metodo della larga condivisione, le riforme necessarie per adeguare la nostra Carta costituzionale ai mutamenti intervenuti nel mondo e nella nostra Costituzione materiale. Per avere una Costituzione che, in coerenza con i suoi princìpi e valori, garantisca sempre meglio la certezza e l'intangibilità dei diritti, delle libertà e delle regole democratiche, e delinei un sistema di istituzioni più efficace e moderno, garantendo la governabilità del Paese. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Fassone. Ne ha facoltà.
 
FASSONE (DS-U). Signor Presidente, signor Sottosegretario, colleghi, mi guardo intorno e lo spettacolo che offre l'Aula mi induce a sconforto: stiamo celebrando, o meglio voi state celebrando - noi lo stiamo soffrendo - l'ultimo atto di un percorso parlamentare che porterà ad un grandioso stravolgimento della Costituzione ed in Aula sono presenti pochi senatori dell'opposizione, quasi nessuno della maggioranza.
È vero che è martedì, segmento settimanale poco frequentato, è vero che siamo in discussione generale, da voi intesa come inutile liturgia da consumarsi come sfogatoio dell'opposizione prima di giungere al momento che conta, quello in cui i vostri numeri brutalizzeranno i nostri argomenti e la democrazia delle quantità potrà finalmente celebrare i suoi fasti; è vero tutto questo, ma è comunque la riforma della Costituzione, la riforma della lex fundamentalis, del patto tra cittadini e del patto tra generazioni, le tavole scritte dopo i grandi tornanti della storia, dopo le guerre quando gli uomini depongono i fucili ed intorno al fuoco decidono quale sarà il futuro loro e dei loro figli: la Costituzione, testamento di 100.000 morti, come disse Calamandrei.
Ed invece c'è il deserto in Aula. Perché questo accade? Credo di poter dare questa spiegazione che almeno è la mia personale: noi, senatori dell'opposizione, siamo rassegnati al risultato, ammaestrati da cinque anni di inutili argomenti; voi, senatori della maggioranza, siete sicuri del risultato ma nello stesso tempo imbarazzati perché sapete che questa non è una riforma della Costituzione, nonostante quello che sta scritto nell'epigrafe del disegno di legge, perché le riforme della Costituzione si fanno quando vi è l'adesione di tutti o quasi tutti intorno a qualcosa di comune, perché la Costituzione non è una legge qualsiasi: è fatta di una pasta speciale che ben pochi forni possono cuocere.
L'azione costituente è cercare questo qualcosa di comune. Il Parlamento, ricordiamolo, non è un potere costituente, ma un potere costituito, e infatti l'articolo 138 parla di revisione della Costituzione, non di rifacimento, non di stravolgimento, non di spregio della Costituzione! La vostra non è stata la ricerca di questo qualcosa di comune, tant'è che non è comune nemmeno a voi tutti. È stata la ricerca consapevole, accanita, rovinosa del contrario di questo qualcosa di comune. È stata la ricerca di piegare l'avversario con un colpo di maggioranza assestato con forza costituzionale, un atto di Governo rinforzato.
In questo caso, con questo stile, con questo obiettivo non c'è nemmeno materia costituzionale, ma semplicemente lotta costituzionale, una lotta e un risultato prodotti da questi rapporti di forza oggi esistenti. Dunque, una Costituzione - se mai dovesse essere promulgata - destinata a durare quanto durano questi rapporti di forza, e quindi ad essere superata con l'auspicabile disgelo della prossima primavera. Altro che testamento dei 100.000 morti: questo è il regolamento del vostro condominio!
Tutte queste cose vi sono note. Sapete che con grandissima probabilità il referendum cancellerà questo prodotto, eppure lo volete, anche se ciò credo che avrà pesanti ripercussioni politiche ed elettorali. Lo sapete e lo volete.
Volete ancora una volta fare una riforma contro. È incredibile che vogliate fare la riforma della scuola e dell'università contro i docenti, la riforma dell'ordinamento giudiziario contro i magistrati, la riforma della Costituzione contro il parere di quasi tutti i costituzionalisti; eppure la volete! Questo perché usate la Costituzione non come quel patto di cui ho detto, ma come una clava contro l'avversario ed una merce di scambio tra di voi, e questo non è certo garanzia di un futuro costituzionale! Perché voi dovete accontentare la Lega, lo ha detto onestamente anche il presidente Pastore: la Lega Nord ha esercitato una forte pressione perché ha fatto della devolution - la cosiddetta devolution che mi rifiuto di chiamare con questo nome - l'ultima bandiera simbolica per ritardare il suo tramonto, l'ultima autoconsolazione prima dell'autoemarginazione politica.
Pagate questo pedaggio per dare ossigeno ad un Governo in asfissia di consensi e vi infilate in un gioco infantile e rovinoso che potrei chiamare il gioco dei cubetti. Sappiamo che i bambini molto piccoli sono soliti cercare di costruire una torre con dei cubetti e, siccome non sono esperti della statica, arrivati al terzo, quarto cubetto messo su in qualche modo, la torre crolla ed è esattamente quello che capita nel vostro disegno di riforma costituzionale. Quale è il primo cubetto, quello che facilmente sta in piedi perché è il primo? E' quello del regionalismo esasperato: potestà legislativa esclusiva in materie delicatissime, madre del patchwork più bizzarro.
E subito un altro condomino si sente in dovere e in diritto di collocare il suo cubetto per cui Alleanza Nazionale, paladina della centralità dello Stato, sostiene, e non affatto a torto, la necessità di un Senato federale forte - e non ritorno sulle infinite difficoltà che ci sono state nel costruirlo - per raccordare, contenere e armonizzare la polverizzazione regionale. Allora abbiamo costruito una Camera asimmetrica - il che va bene - ma in cui uno dei due rami non è legato con rapporto fiduciario al Governo.
A questo punto, però, il Senato federale forte, sciolto dal rapporto fiduciario con il Governo può intralciare l'azione del medesimo. Ed ecco allora il terzo cubetto: Forza Italia, paladina della centralità del Governo e, soprattutto, del Capo del Governo, del Primo ministro, appoggia il terzo cubetto e così il Senato viene espropriato della sua competenza anche nelle materie in cui ha l'ultima parola, e assistiamo a quella sorprendente antinomia di cui all'articolo 70, comma quarto, secondo il quale quando il Governo ritiene che le proprie modifiche ad un disegno di legge sottoposto all'esame del Senato siano essenziali per l'attuazione del suo programma chiede al Presidente della Repubblica un'inusitata autorizzazione a presentarsi al Senato ed a illustrare le sue motivazioni per chiedergli di assecondarlo.
Se il Senato non lo fa, il disegno di legge viene tranquillamente e brutalmente trasmesso alla Camera la quale, evidentemente più sicura perché legata dal rapporto fiduciario, lo approverà. Quindi non solo avete disegnato una sorta di ircocervo, perché il Senato o è davvero la Camera delle Regioni, o è Camera legislativa, o non lo è; non solo avete creato un sistema di ripartizione di competenze farraginoso e inestricabile, in quanto da una simulazione effettuata sembra che circa il 40 per cento delle leggi approvate sarebbe di incerta, incertissima attribuzione all'una o all'altra competenza, ma alla fine il Senato è non soltanto esposto all'alternativa tipica «o acconsenti o ti sciolgo»: è puramente e semplicemente messo da parte.
Ormai, però, la torre è prossima a crollare perché, se si può espropriare il Senato, non si può espropriare la Camera, e se la Camera dicesse di no allora ecco il quarto cubetto, quello che fa crollare tutto. Non basta spostare il disegno di legge là, perché anche la Camera potrebbe non essere disponibile ad assecondare il Primo ministro; da qui la minaccia di scioglimento, sulla quale si è mille volte tornati, ed ecco l'artificiosa costruzione di una mozione di sfiducia che di fatto non potrà mai produrre il risultato cui è preordinata, perché basta un manipolo di fedelissimi del Primo ministro per non raggiungere la maggioranza all'interno di quella espressa dalle elezioni.
Dunque, il Parlamento viene di fatto espropriato, ma chi di prepotenza ferisce di prepotenza perisce: infatti la sterilizzazione totale dell'opposizione, se da una parte mette il Parlamento a disposizione del Primo ministro, dall'altra pone il Primo ministro nella soggezione delle ali estreme, perché basterà che anche un piccolo segmento della maggioranza non voti la fiducia e, siccome non può essere in alcun modo surrogato da un'opposizione totalmente sterilizzata come infetta, nemmeno il 95 per cento della Camera potrebbe salvare il Primo ministro. Questo è il risultato che raggiungerete: la torre dei cubetti infantilmente edificata crollerà per la vostra stessa dinamica.
Non mi soffermo oltre: oggi non parlo evidentemente a una maggioranza che non c'è, parlo a coloro che possono sentire. I 100.000 morti non possono più protestare, ma i milioni di vivi lo possono fare. Quel popolo che voi esaltate a parole e misconoscete nei fatti si farà sentire tra pochi mesi e cancellerà questo sfregio al testamento e voi che stoltamente lo avete voluto. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e Verdi-Un. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Tessitore. Ne ha facoltà.
 
TESSITORE (DS-U). Signor Presidente, la storia del costituzionalismo, ossia di quella che può definirsi la "tecnica della libertà", e la storia delle Costituzioni, ossia dei tentativi di tradurre in norme e in comportamenti politici la tecnica della libertà, possono riassumersi nel confronto, che spesso è stato una contrapposizione, tra due princìpi: quello della legalità, vale a dire la determinazione delle forme garanti dell'ossequio a criteri formali dei rapporti sociali e politici, e quello della legittimità, vale a dire l'elemento riguardante il fondamento (morale, etico) della legge.
Ciò significa che le Costituzioni, qualsiasi forma di Costituzione, riguardano e non possono non riguardare, fino al punto da esserne condizionate, i presupposti sociali, economici, ideologici, in una parola culturali (nel senso ampio e pieno della parola), di uno spazio - possiamo dire uno Stato, una Nazione, un popolo - e di un tempo - possiamo dire la temperie sociale, economica, ideologica, culturale vissuta da un popolo, da una Nazione, da uno Stato -. Credo stia in ciò la constatazione storica secondo la quale le Costituzioni, nel senso della formalizzazione dei processi dottrinali del costituzionalismo, sono state quasi sempre il risultato di eventi straordinari e, talvolta dolorosi e drammatici, come rivoluzioni, le guerre, le radicali trasformazioni.
Non ho bisogno di fare richiami storici. Mi limito a ricordare che, nel nostro Paese, periodi determinanti delle Costituzioni sono quelli del triennio 1796-1799, ossia quello legato alle trasformazioni indotte dalla Rivoluzione francese, e poi quello della rivoluzione liberale del Risorgimento e, ancora, quello della rivoluzione democratica della Resistenza ad un regime dittatoriale responsabile di una guerra totalitaria.
Questa dialettica tra legalità e legittimità, in qualche misura, si ritrova anche in un altro contrasto che caratterizza i processi costituenti ed anche il nostro, quello tra Costituzione come formalizzazione e quindi cristallizzazione dei princìpi fondamentali e Costituzione materiale e cioè il rispetto e la canalizzazione della dinamica propria delle forze sociali nell'ordinamento giuridico e politico.
La nostra Carta costituzionale fu ed è un tentativo di conciliazione tra il sistema statico della conservazione di norme originarie e il sistema dinamico degli stessi princìpi originari in quanto tenuti a rispettare, non staticamente e formalisticamente, l'adeguamento di tali princìpi alle esigenze della condizione sociale, economica, ideologica della gente, del popolo, della Nazione che confluiscono in uno Stato.
Ciò significa, venendo all'oggi, che una revisione della nostra Carta costituzionale è un'esigenza, potrei dire una necessità. Ma, ecco il punto: perché ciò si dia, bisogna porsi nella condizione non dirò di risolvere e neppure di rispondere del tutto esaurientemente, ma almeno di individuare, di capire, di interpretare i bisogni, le esigenze degli individui che compongono la nostra gente, la nostra società, la quale è, un po' come tutte ma più di tante altre, una società pluralistica, che ha dato luogo ad una struttura pluricentrica, come elemento caratterizzante la nostra storia, quella storia che è alla base, con tutte le sue fratture, rotture, drammi (ma anche conquiste, successi, vittorie), della nostra Carta costituzionale e del nostro Stato democratico e repubblicano.
E allora la domanda è: questa proposta di revisione (e lo dico, come si vedrà, problematicamente) soddisfa questa condizione? Temo proprio di no e lo temo a partire dalla definizione di ciò che ci sta dinanzi. Che cos'è ciò che viene proposto? L'esercizio di un potere costituente o l'esercizio di un potere di revisione? Vale a dire, è una nuova proposta di Costituzione o una modifica della Costituzione vigente, che però impone il rispetto delle linee essenziali dell'ordinamento, ossia - si badi bene - della Costituzione materiale, non della Costituzione formale e statica? Sono convinto che quanto ci viene proposto non è né l'una cosa, né l'altra ed è perciò un pasticcio.
Una Costituzione, una revisione di tanta consistenza quale quella che viene proposta, 57 articoli, l'intera seconda parte della nostra Carta costituzionale, cioè proprio quella relativa all'effettuazione dei princìpi fondamentali costituenti, per dir così, non può, non avrebbe dovuto prescindere, per la forza delle cose, dalla ricerca del confronto più ampio e articolato, della discussione più franca, spregiudicata e libera delle idee e delle interpretazioni delle idee e delle valutazioni delle idee. E ciò qui, ora, non cinquant'anni fa.
La nostra Costituzione, quella per fortuna ancora vigente, che mi auguro lo sia ancora a lungo, specie dinanzi a sgorbi o pasticci come questo proposto, fu il prodotto di discussioni difficili, talvolta drammatiche, di scontri durissimi, ma fu approvata con il 90 per cento dei voti. Sta in ciò, con tutte le difficoltà, i ritardi, forse persino i tradimenti che ne hanno fatto la storia, la sua capacità di governare un Paese in sviluppo, profondamente trasformato da società prevalentemente agricola, quale era alla fine della guerra, in un Paese industriale e moderno, quale è divenuto e quale è, e per di più, a sua volta, in profonda trasformazione, che può determinare il suo ulteriore sviluppo, o purtroppo, come sembra avvenire oggi per pochezza della classe politica che lo governa, il suo declino.
Domando: può essere capace di esprimere e consolidare tutto quanto ho fin qui accennato la «revisione» della Costituzione che è stata discussa - si fa per dire - e votata dal Senato con tempi contingentati, senza risposte articolate alla più parte delle osservazioni avanzate, bensì con una contrapposizione di accuse e di modeste giustificazioni, del tipo dell'ostinato, generico, impreciso richiamo alle presunte colpe del centro-sinistra, quando - io credo sbagliando, almeno nelle forme - approvò affrettatamente la riforma del Titolo V (peraltro solo una piccola parte della seconda parte) della Costituzione? Credo proprio di no, anche perché non ha senso rispondere con un errore all'errore commesso da altri, ammesso che tale sia stato quello del centro-sinistra.
E vengo a qualche aspetto particolare.
Il rafforzamento, per tanti versi probabilmente necessario, del ruolo (non voglio dire del potere) del Presidente del Consiglio è veramente compatibile con i principi del pluralismo, dell'indefettibilità dell'opposizione parlamentare, addirittura della stessa maggioranza parlamentare, garantita dalla forma del nostro Stato e dalla nostra Costituzione quale resta nella sua prima parte? Non credo.
Ancora: l'indebolimento delle funzioni e del potere del Presidente della Repubblica è coerente con le funzioni che la Costituzione formale e materiale gli affida, ossia non solo quello di mediatore neutro tra Parlamento e Governo, ma quello ben più ampio di garante dell'ordinamento statale che si esprime nella sua possibilità di decretare lo scioglimento anticipato delle Camere, di veto sospensivo nella promulgazione delle leggi, di autorizzazione alla presentazione delle proposte di legge governative, di nomina di un terzo dei giudici costituzionali, addirittura - sia pure in forme assai limitate - di legislatori, quali sono, a tutto titolo, senza essere convalidate dal voto e dal giudizio popolare, i senatori a vita? Credo proprio di no. Ciò significa non revisione, ma scardinamento, sostituzione della Carta costituzionale.
Ancora, ed è un punto gravissimo: è conforme al principio dell'unità e dell'interesse nazionale (che non è un principio retorico o di bandiera) il pasticciato sistema della cosiddetta devoluzione, che non si capisce bene cosa sia, se l'instaurazione di un regime regionalistico (e non lo è quando si affidano alle Regioni poteri come quelli relativi alla sicurezza, alla salute, alla formazione) o un regime federale, che, come si sa, è cosa diversa perché è una forma di limitazione dei poteri in modo non orizzontale ma verticale, che significa mettere in discussione la forma fondamentale del Governo parlamentare e della separazione dei poteri, garantiti della prima parte della Costituzione?
Potrei continuare con l'accenno a norme più particolari come il Senato delle Regioni, un vero pasticcio che intacca anche il principio fondamentale dell'uguaglianza formale e sostanziale dei cittadini, consentendo l'eleggibilità solo ad alcuni.
In conclusione, mi limito ad una sola osservazione: sono convinto che il nostro Paese sia caratterizzato da una forte identità nazionale, fatta di cultura, religione e lingua, e da una debole identità statale. Una Costituzione che voglia rispondere ai bisogni della nostra società in nome delle esigenze della sicurezza, della solidarietà e dell'amicizia, che sono i principi fondamentali della società di oggi e della nostra Costituzione repubblicana e democratica (che non a caso ripudia la guerra, vuole realizzare l'armonia, il pluralismo interno ed esterno), deve rafforzare e non indebolire l'identità statale. Ecco cosa significa l'interesse nazionale, al di là della retorica: non infiacchire l'identità nazionale.
Questa proposta di modifica della Costituzione ha la straordinaria capacità di indebolire, fino a smarrire, l'identità statale e l'identità nazionale del nostro popolo, condannandolo perciò ad un irreversibile declino. Per questo è un pasticcio, un pasticcio pericoloso che non merita di essere approvato e che - ne sono sicuro - sarà cancellato dalla volontà popolare, lasciando però in piedi le tensioni che provocherà se sarà approvato e che del resto ha già pericolosamente provocato.
Le forze politiche di questa maggioranza tracotante saranno severamente giudicate per questo loro gravissimo errore, un vero misfatto. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Zavoli. Ne ha facoltà.
 
ZAVOLI (DS-U). Signor Presidente, onorevoli colleghi, non aggiungerò nulla a quanto detto sconsolatamente e desolatamente dal collega Fassone a proposito di quest'Assemblea che è non sorda né grigia, ma certamente vuota. Ci sconforta molto prendere la parola su una questione di tale gravità in queste condizioni, quando ormai si è consumata la speranza di poter influire dai nostri banchi su una decisione che non conta solo per ciò che vale di per sé, ma anche perché rappresenta l'estrema prova che la maggioranza affronta per rimanere unita o spezzata.
Prendere la parola, dicevo, in questo scampolo di tempo che i Regolamenti ci offrono è come certificare che una grande questione politica, civile, etica è sul punto di entrare nella nostra storia nazionale non attraverso la dialettica, e quindi la ricchezza, di un reciproco confronto, ma grazie a quella che de Tocqueville - cui non si potrà certo imputare di offendere la democrazia - ha chiamato la "dittatura della maggioranza", non intendendo ovviamente mettere in causa i suoi sacrosanti diritti, ma richiamandosi al pericolo che la logica dei grandi numeri sia in grado di prevalere comunque - anche quando siano in gioco valori essenziali - senza che ad essi corrisponda il contributo di chi può fornire motivi di riflessione, indurre interrogativi, modificare certezze.
Sono dell'idea, signor Presidente, onorevoli colleghi, in verità semplice, che "se ti parlo per ciò stesso ti cambio", e altrettanto accade a me "se sei tu a parlarmi": intendo dire, con queste parole, che non si esce mai indenni da una controversia se essa viene affrontata con il dialogo, cioè con la volontà di capire anziché di negare. Ma ciò non è accaduto. Noi siamo qui, a votare una legge decisiva per la tenuta della coalizione di centro-destra, tanto che il Premier stesso, avvezzo ai numeri - alla loro fermezza, ma anche al loro nomadismo - ha rinviato un viaggio in Israele per essere a Roma, dove è in corso una partita di quelle in cui, lo dico con il rispetto dovuto al gioco democratico, è bene stare vicino ai numeri e, per così dire, alle maglie dei giocatori.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, penso al nostro lavoro, all'obbligo civile che ci siamo assunti di testimoniare l'appartenenza in nome di un bene comune, penso alle parole di don Milani il quale - fatta salva, ovviamente, ogni legittima distinzione, - disse che "la politica è uscirne insieme", certo riferendosi alle grandi questioni che essa pone e deve risolvere. E allora rivado al bilancio del lungo viaggio della cosiddetta devolution, in cui non c'è traccia delle tante riflessioni e proposte che i nostri colleghi più versati nella grave materia hanno vanamente profuso in questa Aula, dove la prima Costituzione della Repubblica fu il frutto di uno dei più alti e dialettici confronti di idee e di ideali che la democrazia non solo italiana abbia mai concepito. Essa venne votata, come ha ricordato il senatore Tessitore, con il 90 per cento dei consensi.
Di qui a poco, intorno a una parola che la quasi totalità del Paese non capisce, e incongrua anche per chi ne intende il senso, voteremo una legge dalla quale saranno rimasti esclusi i pensieri e gli ideali di quasi la metà del Senato della Repubblica. Una legge affermatasi in nome dei numeri e, di riflesso, con le modalità di un votifìcio.
Non credo di venir meno al rispetto che dobbiamo al Parlamento né di offendere la dignità personale di chi è stato di parere diverso dal nostro, se dico che un voto cui viene affidata una così complessa, alta e coinvolgente riforma nasce, in quest'Aula, nell'impotenza dei rappresentanti di mezzo Paese.
Mi domando con quale animo un uomo come il Presidente del Consiglio, uso a primeggiare, abbia potuto spingere la sua duttilità - al punto di castigare il suo orgoglio - fino ad accettare che tempi e precedenze fossero stabilite dal leader leghista, un uomo e un politico, si è visto, di grande temperamento il quale, in questa fase, è il vero vincitore. Lo è tanto che la devolution, da lui scoperta come surrogato alla secessione, è diventata la proposta di punta - cioè la chiave e il simbolo dell'intero progetto - da esibire nella prossima campagna elettorale per portare alle urne una folla di leghisti momentaneamente appagata.
Poi, il voto del referendum potrà anche cancellare la riforma, ma intanto la devolution naviga verso un'approvazione trainata dai partiti della maggioranza come un brulotto esplosivo lanciato verso il bersaglio nella cui dirompente miscela c'è l'attribuzione alle Regioni del potere di legislazione esclusiva non solo in materia di sanità, scuola e polizia locale, ma anche in ogni altra materia «non espressamente riservata» - cito il testo della proposta, articolo 117 - «alla legislazione dello Stato».
Sono le aree in cui l'eguaglianza dei cittadini dovrebbe trovare tutela e garanzia nella Costituzione, mentre la proposta mira a rendere possibili, di fatto, secessioni regionali foriere di inevitabili disparità.
Si afferma che lo Stato può ricorrere al nuovo Senato per far valere l'«interesse nazionale». Una formula vana, se non è sostanziata di contenuti, dei quali, però, non si fa cenno, nonostante si tratti della natura e del livello dei diritti civili e sociali da garantire in tutto il territorio della Repubblica.
Senza dire della distinzione introdotta sulla rappresentanza parlamentare tra Nazione e Repubblica (il nuovo articolo 67 della Costituzione), che insinua la possibilità di avere lealtà diverse, e in competizione tra loro, verso lo Stato e le "nazionalità" che si pretende lo compongano.
Alla negazione dell'identità tra Nazione e Repubblica fa riscontro la norma transitoria che favorisce la creazione di nuove Regioni frantumando quelle esistenti e sospende le garanzie costituzionali sul referendum tra tutti i cittadini coinvolti nella divisione territoriale.
C'è da domandarsi se partiti che nel loro nome si richiamano, l'uno, all'Italia e, l'altro, alla Nazione, possano dare il proprio sostegno a un attacco così scoperto e strumentale all'unità della nostra Patria, e se non sentano il peso del venir meno ai loro stessi ideali.
All'indomani del voto della Camera, Andrea Manzella ha scritto che la responsabilità condivisa di un tale stravolgimento dei nostri ordinamenti non poneva solo un problema politico, ma anche una questione, più grave, di coscienza. Siamo in tutto d'accordo con lui, quando afferma che l'attentato alla Costituzione, anche se fosse destinato al fallimento per la volontà popolare espressa dal referendum, resterebbe comunque grave in sé. A prescindere, cioè, dal suo esito.
Infatti, un tale uso del mandato politico sconfina nella sottovalutazione di un principio che inquina a priori l'intero progetto di riforma, con il concentrarsi dei poteri in un Primo ministro che, non soccorrendogli più la fiducia parlamentare, può decidere di sciogliere la Camera, mentre il Presidente della Repubblica viene privato del suo ruolo di garante e di custode della Costituzione. Non credo, a questo proposito, proprio io, di poter aggiungere nulla ai giudizi negativi di parlamentari e costituzionalisti di gran vaglia e di ogni tendenza.
Si è poi aggiunto il ricorso a un altro sistema elettorale, che vede il ritorno al proporzionale, il cui congegno renderà instabili i Governi con un premio di coalizione regionale nell'elezione del Senato, condizione obbligata per ottenere il consenso della Lega. È quello che il senatore Angius ha chiamato "desiderio di distruzione" in previsione della sconfitta.
 
PRESIDENTE. Senatore Zavoli, la prego di concludere.
 
ZAVOLI (DS-U). Sto concludendo, signor Presidente. E Veltroni ha definito l'"avvelenamento dei pozzi" prima della ritirata.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, senza nulla togliere al valore delle critiche tecnico-giuridiche, ecco perché riteniamo che il rifiuto del progetto debba essere totale. Una Costituzione di parte va respinta senza riserve e concessioni. Un progetto che delinea una forma di Governo basata su una contraddizione paradossale, cioè la dittatura elettiva di un uomo solo, proprio per la sua ispirazione di parte, non è accettabile in quanto estranea allo spirito costituzionale. Semplicemente perché è incostituzionale. È la nostra ferma e irriducibile convinzione. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Battisti. Ne ha facoltà.
Prego i colleghi di rispettare, per quanto possibile, i tempi loro assegnati.
 
BATTISTI (Mar-DL-U). Signor Presidente, si conclude qui l'iter di questo testo, composto da ben 57 articoli e che sostituisce e modifica 50 articoli della Parte II della Costituzione, inserisce tre nuovi articoli e novella quattro articoli che fanno parte di altre leggi costituzionali.
Non mi soffermerò sui temi di carattere specifico, poiché molto e meglio di me è stato già detto.
Probabilmente avremmo dovuto completare una lunga fase di transizione per rendere la Costituzione più moderna, ma anche per riaffermare i valori e i princìpi alla base dell'attuale testo costituzionale. Avremmo dovuto anche migliorare la nostra legge elettorale per renderla più consona al volere dei cittadini, che si sono espressi con chiara volontà nei referendum costituzionali. Insomma, avremmo dovuto completare una fase decennale di transizione. Oggi, invece, compiamo un grandissimo passo indietro, sia con l'approvazione di questo testo costituzionale, sia con l'intento di tornare ad una legge elettorale che ci fa fare - ripeto - un balzo indietro nel tempo di dieci anni.
Scrive nel 1906 il Santi Romano in un testo dal titolo "Le prime Carte costituzionali": «Quando le prime Carte furono emanate era opinione comune che la sovranità delle forme di cui si vestivano e la consacrazione in un documento scritto dei princìpi che contenevano dovessero servire ad accrescere la loro stabilità, che appunto per tali motivi esse erano differenziate dalle leggi comuni, rispetto alle quali si ritenevano sacre ed intangibili, che tutta una serie di freni e di garanzie si esercitavano per rendere ponderate le loro modificazioni, quando non si proclamava addirittura la loro assoluta immodificabilità».
Voi, quanto al metodo, avete proceduto in questi due anni e mezzo di discussione al contrario: con una serie di strappi e con voti di maggioranza, senza rispettare questo principio. Molti costituzionalisti hanno dichiarato che nel sistema rappresentativo vi è il dominio del principio di maggioranza, della dura legge dei numeri, che però le Costituzioni devono funzionare come una sorta di "frigorifero", perché servono a conservare quanto ognuna delle parti che le sottoscrivono vuole mantenere integro a lungo, almeno per tutto il tempo in cui il voto degli elettori la terrà lontana dal Governo. Tale principio fissa delle precise garanzie, che la Costituzione prevede per assicurare la propria prevalenza rispetto ad ogni successiva ed eventuale decisione della politica.
La Costituzione non pretende di essere immutabile, ma richiede che ogni mutamento sia deciso da una maggioranza parlamentare superiore a quella sufficiente per governare, in modo che si ripristini il largo consenso che aveva generato il compromesso da cui è nata.
È un po' la discussione che si è avuta in Europa tra Costituzioni rigide e Costituzioni flessibili, ma ricordiamoci comunque che quei princìpi valevano sia per l'una che per l'altra, che sono proprio quei princìpi che hanno portato l'Europa del Novecento all'istituzione delle Corti costituzionali e che comportano anche due altri princìpi. In primo luogo, la divisione dei poteri, che non risponde solo all'esigenza di assicurare che il potere sia ripartito tra centri diversi per composizione sociale.
Anche negli Stati Uniti d'America la Costituzione ripudia qualsiasi differenza sociale per casta, privilegio, o quant'altro, tutti i poteri si legittimano attraverso il voto degli elettori, tuttavia il principio della divisione dei poteri viene adottato con particolare rigore come metodo per frenare il potere ed obbligare ogni organo ad agire ricercando l'assenso dell'altro. Il Presidente può bloccare le leggi votate dal Congresso, ma dipende dal Congresso per i tributi, per il bilancio e per ogni altra legge. Ogni decisione del Congresso, però, può essere bloccata dal veto del Presidente. Il Presidente, a sua volta, dipende dal consenso del Senato per la conclusione dei trattati e per le nomine di maggiore importanza. In sostanza, quello che ci insegna la Costituzione americana è proprio questo: che la separazione e il controllo reciproco tra i poteri devono essere assicurati, anche se tutti gli organi dello Stato sono eletti dal popolo. Ebbene, oggi anche qui voi fate il contrario, avete una visione - come diceva il senatore Mancino - aziendalistica, una visione da consiglio di amministrazione dello Stato, dell'ordinamento della Repubblica e del suo funzionamento.
Un altro passo, che mi ero segnato e che vorrei leggere, dice: «O la Costituzione è una legge superiore e prevalente, non modificabile con gli strumenti ordinari, oppure è posta sullo stesso livello della legislazione ordinaria e, come le altre leggi, è alterabile quando il legislatore ha il piacere di alterarla. Se la prima parte è vera, allora una legge contraria alla Costituzione non è legge; se la seconda parte è vera, allora le Costituzioni scritte sono un tentativo assurdo da parte del popolo di limitare un potere per sua stessa natura illimitabile». Questo passo è tratto da una celebre sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti d'America, Marbury vs Madison del 1803, ma quei principi, nel tempo, hanno prodotto Costituzioni moderne, efficaci, efficienti, che ci avrebbero dovuto guidare nel dare una visione più moderna alla nostra Costituzione.
Un altro principio, quello di legalità - di cui evidentemente vi siete dimenticati e che avete trascurato - vige e permea la maggior parte delle Costituzioni moderne e entra in conflitto con quel principio di maggioranza, perché sottrae alla maggioranza politica, che esce dalle elezioni e domina i lavori dell'Assemblea legislativa, ambiti importanti di competenza, soprattutto per ciò che attiene all'equilibrio tra organi costituzionali e diritti fondamentali dei cittadini.
Dopo l'enunciazione di questi principi, vediamo che il testo al nostro esame tradisce, nel metodo, tutti questi principi. Vengono, infatti, modificati 57 articoli, usando l'articolo 138 della Costituzione, che ne mutano l'aspetto complessivo, prevedendo l'indebolimento del ruolo della Camera dei deputati, fino addirittura a farci ritenere che ci avviamo verso una forma affievolita di democrazia parlamentare; il potere di scioglimento delle Camere non più attribuito ad un organo terzo e super partes, ma al Primo ministro; un eccessivo rafforzamento della posizione del Presidente del Consiglio, senza che vi sia nessuno dei bilanciamenti tipici delle Costituzioni proprie dei sistemi presidenziali.
Un dichiarato federalismo, puntualmente smentito dalle norme al nostro esame, soprattutto con un sistema tributario e fiscale che non consente alle Regioni una loro effettiva autonomia; un ruolo del Senato, cosiddetto federale, di fatto pasticciato, confuso ed indebolito; la nuova elezione dei componenti della Corte costituzionale che accentua la politicizzazione di quell'organo, la confusione dell'iter legislativo - è già stato detto - nelle competenze (quella sanitaria, dell'organizzazione scolastica, i percorsi formativi e regionali). Insomma, di tutto e di più, meno quello di cui avevamo bisogno: una riaffermazione dei nostri princìpi e dei nostri valori, ma in una accentuazione di modernità della nostra Costituzione. Ma questo è quello che voi da lungo tempo state facendo. In realtà, le nostre Costituzioni moderne, lo Stato di diritto nascono da un sogno, scrive Roberto Bin; un sogno antico quanto il pensiero politico; il sogno che a governare siano le leggi e non gli uomini.
Diceva Aristotele che è preferibile, senza dubbio, che governi la legge più che un qualunque cittadino. E, secondo questo stesso ragionamento, anche se è meglio che governino alcuni, costoro bisogna costituirli guardiani delle leggi e subordinati alle leggi. In questi quattro anni abbiamo vissuto altro: l'umiliazione delle leggi perché governa un uomo; cambiamo la Costituzione perché è più utile alla campagna elettorale di una parte politica; cambiamo la legge elettorale perché è più utile ad una parte politica e dimentichiamo quei princìpi che hanno fatto di questo Paese un Paese moderno e democratico.
Spero però e mi auguro che i cittadini più fedeli a quei princìpi ed a quei valori della nostra democrazia sappiano con l'appuntamento referendario sconfessarvi. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Petrini. Ne ha facoltà.

PETRINI (Mar-DL-U). Signor Presidente, il clima in cui stiamo discutendo della riscrittura della nostra Costituzione è esemplificativo della situazione patologica che stiamo vivendo. Nel più assoluto disinteresse, nella completa assenza del centro-destra, stiamo denunciando con un clima obiettivamente funereo la morte della democrazia italiana, la morte della democrazia almeno nella forma nella quale l'abbiamo sempre conosciuta, praticata, teorizzata, la morte della democrazia parlamentare, quella che la storia occidentale ha costruito e ci ha consegnato. Con la vostra Costituzione non esisterà più.
Vi è un elemento di grave disinformazione che in questi giorni troviamo sui nostri quotidiani e nelle nostre televisioni: il fatto che ciò che il Senato sta votando in questo momento è la riforma della devolution. È un falso perché la devolution è soltanto parte o parte minimale rispetto alla riforma costituzionale che noi stiamo varando e, per quanto criticabile possa essere, sarebbe a parer mio il male minore rispetto al testo al nostro esame. La devolution sono poche righe, inserite nell'articolo 117 nell'ambito del Titolo V da noi modificato nella scorsa legislatura, da noi del centro-sinistra.
È curioso che quella modifica non abbia avuto l'appoggio dell'odierna maggioranza; non solo, ha riscosso anche critiche e non già perché si paventasse difficoltà nella sua attuazione, ma perché la si considerava assolutamente insufficiente a rappresentare quella spinta innovativa che il Paese ci chiedeva. Questo era il vostro giudizio, quella riforma la giudicaste una "riformetta" e per questo motivo votaste contro.
Oggi quella stessa riforma ce la rinfacciate come estremamente ambiziosa, troppo ambiziosa e tale da avere innescato un grave e insolubile contenzioso tra le Regioni e lo Stato, tra potere regionale e potere centrale. Vi siete però rifiutati a qualsiasi rilettura di quella riforma; noi alla luce delle prime e significative esperienze eravamo disponibili in tal senso, ma - ripeto - vi siete rifiutati di rileggerla, riscriverla e correggerla. Inoltre, fate credere che, attraverso quelle poche righe che aggiungono elementi di contraddizione e di confusione, voi darete efficacia a quella stessa riforma.
Ebbene, siamo al parossismo della mistificazione! Quelle righe non possono in alcun modo sanare i problemi reali posti da quella riforma, caso mai li amplificano, perché sono elementi contraddittori, come hanno evidenziato molti interventi, tra cui quello del senatore Mancino. È assurdo, infatti, pensare che possano esistere poteri legislativi esclusivi dello Stato e della Regione nella stessa materia e, ancora, poteri concorrenti fra Stato e Regioni.
Si aggiunge confusione a confusione, ma la devolution sarebbe il male minore, posto che in realtà questa riforma costituzionale contiene ben altro e di ben peggiore. C'è infatti, come annunciamo, la fine della democrazia parlamentare quale l'abbiamo sempre conosciuta, teorizzata e praticata. C'è, altresì, una illegittimità sia nel metodo che nel merito della vostra riforma costituzionale.
Per quanto riguarda il metodo, va sottolineato innanzitutto che vi appropriate della Costituzione e la riscrivete, non avendo però titolo a farlo, posto che siete un potere costituito e non costituente. Questo è un elemento fondamentale. Qualunque Costituzione ha in se stessa un elemento di limite alla propria riscrittura, perché qualunque Costituzione deve avere quale obiettivo la stabilità del sistema e quindi qualunque Costituzione prevede che possano essere apportate modifiche soltanto limitatamente e nel segno della continuità dell'impianto costituzionale. Questa continuità oggi non esiste e ce lo dice chiaramente la dottrina: «La domanda fondamentale che ci si deve porre è: i mutamenti introdotti realizzano o no una discontinuità con la forma di Stato precedente e cioè con i princìpi fondamentali della Costituzione modificata? In altri termini, il potere di revisione è stato effettivamente utilizzato come potere costituito e dunque come potere limitato dalla Costituzione che lo fa essere e lo disciplina, oppure è stato utilizzato al di fuori di questi limiti e, dunque, come potere extra ordinem?».
Siamo sicuramente in questa seconda fattispecie, in quanto è chiaro che l'articolo 138 della Costituzione è stato violato sia nella sostanza che nello spirito: nella sostanza, perché l'articolo 138 permette di modificare la Costituzione e non di riscriverla; nello spirito, perché tale articolo, definendo quel quorum, intende fare argine a possibili abusi della maggioranza, ma quell'argine è chiaramente inefficace alla luce del nuovo sistema elettorale maggioritario. Quell'articolo fu scritto per una Costituzione proporzionale, quel quorum (la maggioranza assoluta) pareva essere argine sufficiente a qualsiasi arbitrio nell'ambito di maggioranze che si costituivano all'interno del Parlamento per un accordo parlamentare e politico. Oggi così non è più, quelle maggioranze preesistono, escono da un sistema elettorale maggioritario che trasforma in maggioranza assoluta la maggioranza relativa nel Paese ed allora lo spirito di quell'articolo è stato doppiamente tradito.
Le giustificazioni che adducete a questa illegittimità formale sono sostanzialmente due. La prima è francamente puerile, non varrebbe neanche la pena di citarla, ma purtroppo esiste, ed è la giustificazione per cui noi abbiamo stabilito un precedente in questa direzione che oggi legittima la vostra azione. Il precedente sarebbe stato la modifica a maggioranza del Titolo V della Costituzione, che avevate avversato soltanto perché la ritenevate insufficiente. Ebbene, è chiaro che si tratta di un errore - perché come tale voi lo giudicaste - e non può costituire precedente che legittimi successivi, ulteriori errori. Questa è veramente una logica distorsiva.
La seconda giustificazione è che la riforma, riguardando solo la seconda parte della Carta costituzionale, non può essere interpretata come una riforma costituzionale in senso stretto; infatti, sono salvaguardati tutti i princìpi fondamentali enunciati nella prima parte della Costituzione. Non regge nemmeno questa argomentazione; ho anticipato già una risposta leggendo un passo che riguardava la continuità del processo costituzionale.
Vale la pena, peraltro, di specificare che le due parti della Costituzione coesistono e sono funzionali l'una all'altra: non possiamo considerare la seconda parte della Costituzione un'appendice tecnica alla prima. In realtà, i principi enunciati nella Parte I della Costituzione vigono e vivono soltanto all'interno degli istituti democratici definiti nella sua Seconda parte. Se quegli istituti tradiscono lo spirito costituzionalista, ebbene quei princìpi cessano di vivere e rimangono una mera, sterile enunciazione e nulla di più.
È per questo che voi, ripeto, avete esercitato un potere costituente che non vi apparteneva, lo avete esercitato in modo illegittimo, ma ancor peggio avete fatto nel merito di questa riforma, perché avete riscritto completamente i rapporti fra Governo e Parlamento e in quella riscrittura avete, come ho annunciato all'inizio, ucciso la democrazia parlamentare, poiché quel Parlamento è soggetto all'arbitrio e alla volontà del Governo; quel Parlamento non ha più una funzione di giudizio e di limite all'esercizio del potere governativo; cessa di essere rappresentazione di una volontà popolare per diventare, viceversa, una proiezione del potere esecutivo sul popolo. Questa è la sua funzione e null'altro.
Non possiamo considerare che sia Costituzione qualsiasi testo che definisca un'organizzazione e una struttura, un sistema politico: la Costituzione deve necessariamente contenere elementi di garanzia nei confronti dell'esercizio del potere. Per questo nascono le Costituzioni e questo impone la teoria costituzionalista: che ci sia un elemento di argine, di giudizio e di limitazione al potere politico. Ebbene, questo elemento voi l'avete espunto dalla Costituzione che ci proponete e quindi avete in pratica disconosciuto i princìpi stessi del costituzionalismo.
La dottrina distingue fra Costituzioni reali o garantiste, Costituzioni nominali e fittizie. Le Costituzioni nominali sono quelle che organizzano un sistema di potere che non ha in sé quegli elementi di garanzia che sono propri del costituzionalismo. Le Costituzioni fittizie sono quelle che avrebbero questi elementi, ma poi non li mettono in pratica. Ebbene, voi avete scritto una Costituzione nominale, una Costituzione che nega elementi di garanzia circa l'esercizio del potere.
Avete «zavorrato» la rappresentanza parlamentare con un mandato imperativo che disconosce qualsiasi dottrina costituzionalista e sostanzialmente azzera il potere rappresentativo che ciascun deputato dovrebbe avere. Siete arrivati al punto di differenziare il valore del voto tra il deputato eletto all'interno della maggioranza e quello che è eletto nell'opposizione; in questa differenziazione, non ve ne siete accorti, ma avete introdotto un elemento di macroscopica illegalità, disconoscendo il principio fondamentale della rappresentatività parlamentare: un deputato che non ha il potere di investire il Governo della sua fiducia è un deputato di serie B, un deputato che non rappresenta alcunché.
Le Costituzioni sono organismi viventi; vivono nella storia, nella cultura, nella tradizione, nel sentimento di un popolo. Le Costituzioni rappresentano tutto ciò, non possono essere riscritte ex abrupto soltanto perché considerate antiche od obsolete. E la nostra Costituzione è assolutamente moderna, ma voi non ve ne siete accorti perché non avete i valori che sono incarnati in quella Costituzione. È per questo che oggi li calpestate, perché non li conoscete, perché questa riscrittura è nel senso di quella cultura che intende riscrivere una storia, e intende farlo secondo valori che non sono quelli che in questi cinquant'anni di Repubblica abbiamo vissuto e convissuto.
State esercitando uno strappo grave e fatale nell'ordinamento costituzionale, nella cultura, nella storia, nella sensibilità democratica del nostro popolo. Non stupisce che voi - vado a concludere - pensiate davvero di poter esportare la democrazia. Vi siete felicitati del fatto che il popolo iracheno abbia fatto la coda per andare a votare e del fatto che il Parlamento iracheno così eletto abbia varato una Costituzione; non vi siete ancora accorti che la Costituzione è un processo culturale e che purtroppo, in questo caso, non appartiene a quel popolo. È per questo che le democrazie non possono essere esportate e sono un bene collettivo che va tutelato. Tutelato da strappi come quello che voi state facendo. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U e del senatore Colombo. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Lauro. Ne ha facoltà.
 
LAURO (Misto-CdL). Signor Presidente, colleghi, la riforma della Parte II della Costituzione, voluta dal Governo Berlusconi e dall'alleanza di centro-destra, rappresenta un'intelligente rimodulazione della Carta per rispondere ai bisogni della comunità nazionale e del suo tessuto economico e per ottimizzare le performance del sistema nazionale rispetto al mercato globale. Un salto culturale necessario al Paese e soprattutto al Mezzogiorno d'Italia, che giace, sia pure con avanzamenti sociali notevolissimi rispetto a cento, cinquanta o venticinque anni fa, in una condizione difficile, tanto da rappresentare un'area, quella dell'Obiettivo 1, che l'Unione Europea supporta finanziariamente per promuovere lo sviluppo economico.
Il Sud ha bisogno di affrancarsi da una cultura superata di familiarismo amorale, di assistenzialismo, di clientelismo, che ne frena la crescita e trasforma la politica in una struttura rigida che non governa il territorio, ma vi galleggia. Invece le esigenze di fondo del Meridione contemplano una ristrutturazione sistematica attraverso un serio e concreto programma di infrastrutturazione, al fine di corrispondere alla intima e vera vocazione territoriale. Così come occorre pensare ad una fiscalità di vantaggio e alla sperimentazione di sistemi e servizi innovativi, capaci di innescare processi virtuosi in termini di sviluppo.
La riforma muta significativamente l'architettura dello Stato, rafforzando i poteri del Premier, riformando i criteri di nomina del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale, modificando le prerogative del Capo dello Stato, ma soprattutto introducendo la tanto discussa devolution.
Ebbene, noi della Casa delle Libertà voteremo sì alla riforma perché ne cogliamo il tratto radicalmente innovativo, capace di abbattere le mura che ancora resistono al cambiamento. Se infatti è caduto il muro di Berlino e conseguentemente la cortina di ferro dell'intero assetto sovietico e più tardi si è sgretolata la muraglia cinese con un volume di traffici da e per l'Asia impressionante, non è pensabile mantenere in piedi una barriera fisica, culturale e socio-economica.
Bisogna aprire il Sud alla competizione. Occorre intervenire per liberalizzare i servizi pubblici ed elevare il grado di consapevolezza e di partecipazione dei cittadini e delle imprese. A sua volta il Mezzogiorno, con la riformacostituzionale che sancisce la devolution, deve interrogarsi sul proprio ruolo strategico, di giacimento culturale e patrimonio ambientale, oltre che di infrastruttura naturaleprotesa nel Mediterraneo. Il Mare nostrum deve riacquisire il proprio, fondamentale ruolo attraverso un impegno attivo delle Regioni e dei Comuni chiamati a gestire bene le risorse proprie e quelle dei trasferimenti statali o derivanti da finanziamenti comunitari.
L'obiettivo è quello di una progressiva integrazione dell'aria meridionale a partire dalla sua antica capitale - penso a Napoli e all'area metropolitana di Roma - al fine di creare una connessione stabile e, successivamente, una struttura di legame tra Lazio e Campania, mediante quello che abbiamo definito "progetto Roma-Neapolis". Si tratta di corrispondere ai processi di integrazione del Centro-Nord attorno alle città di Milano, Torino e Genova. Questo sarà possibile solo ed esclusivamente per gli evidenti vantaggi e benefìci della devolution.
 
Presidenza del vice presidente DINI (ore 11,30)
 
(Segue LAURO). Dunque, la devolution è una grande opportunità per realizzare una svolta epocale, capace di modificare positivamente i destini del nostro Paese. Calare questa nuova grande riforma nel quadro delle innovazioni legislative che questo Governo è stato capace di realizzare assieme al Parlamento significa completare la trasformazione del Paese. Si tratta di una vistosa e generale trasformazione che non potrà non arrecare miglioramenti alle condizioni economiche e sociali degli italiani, perseguendo una razionalizzazione della spesa, investimenti in grandi opere e un'accorta gestione di servizi pubblici grazie ad una campagna di intensa infrastrutturazione del Paese.
I caratteri della riforma sono chiari. Prevedono che anche le Regioni abbiano potere legislativo esclusivo per l'assistenza, l'organizzazione sanitaria, l'organizzazione scolastica, la gestione degli istituti scolastici, la definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione, la polizia amministrativa regionale e locale. È stata prevista, tuttavia, una clausola di interesse nazionale. Il Governo può bloccare una legge regionale se ritiene che questa pregiudichi l'interesse nazionale e potrà invitare la Regione a cancellarla; ove la risposta sarà negativa, la questione sarà sottoposta al Parlamento in seduta comune che avrà 15 giorni di tempo per annullarla.
Quanto ad altri aspetti della riforma, vanno sottolineate la riduzione dei parlamentari e l'introduzione di clausole di garanzia nei due rami del Parlamento a favore delle minoranze, in una ottica semplificatrice. Inoltre viene snellito l'iter legislativo dei provvedimenti, sfuggendo al rigido bicameralismo e adottando procedure e tempistiche in linea con la necessità dei nostri tempi. Un'ulteriore novità è quella della modifica delle modalità di elezione del Capo dello Stato quale supremo garante della Costituzione.
Vengono poi previste in Costituzione le figure delle autorità amministrative indipendenti. Lo stesso ruolo dell'Esecutivo è pienamente rafforzato sia per il funzionamento del Consiglio dei ministri, sia per quelle misure volte ad impedire i cosiddetti ribaltoni. Vi è in definitiva uno sviluppo dei rapporti di collaborazione tra gli enti all'interno di una cornice data dal principio di sussidiarietà con il sigillo del sistema delle conferenze. Questa innovazione non è, infatti, nemica dell'unità dello Stato, perché rende sempre possibile il ricorso ad un referendum sulle leggi costituzionali ed anzi modifica la disciplina del potere sostitutivo statale a garanzia dell'unita nazionale, nonché la procedura relativa al rispetto dell'interesse nazionale da parte delle leggi regionali.
Viene modificata la composizione della Corte costituzionale in cui i giudici saranno eletti dalla Camera, dal Senato, dalle supreme magistrature e dal Presidente della Repubblica, prevedendo altresì forme di impugnative delle leggi da parte degli enti locali.
Mi fermo alla elencazione di una parte dei contenuti per ribadire la loro efficacia e la loro rispondenza alle esigenze del nostro Paese di fronte a mutamenti giganteschi, rispetto ai quali non si può rimanere fermi come i paracarri. Per questo, colleghi senatori, sono lieto di annunciare convintamente il voto favorevole della Casa delle Libertà. (Applausi dei senatori Carrara e Pastore. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la senatrice Acciarini. Ne ha facoltà.
 
ACCIARINI (DS-U). Signor Presidente, ci troviamo a discutere un tema di enorme importanza, cioè la modifica profonda e radicale della nostra Costituzione, in condizioni assai difficili, con tempi ristretti, chiaramente con una marcata volontà di fare in fretta, perché un atto del genere certamente non onorerà il Parlamento italiano.
Penso che molti degli aspetti di questa proposta di modifica siano gravi e facciano complessivamente pensare un po' a un minestrone di fra Galdino in cui si è buttato di tutto per avere tutti i gusti, ma il risultato è che manca, dietro questa proposta, innanzitutto un'idea di Paese, un'idea di società. Per quanto mi riguarda, anche per valutare con attenzione un aspetto specifico, mi soffermerò sugli aspetti più significativi del sistema dell'istruzione del nostro Paese.
Vorrei ricordare che, per chi si occupa di scuola, non stupisce più di tanto che oggi un'importantissima sentenza della Consulta censuri in modo chiaro quanto in questi anni è stato compiuto da questo Governo in termini di depauperamento dei poteri delle Regioni e degli enti locali. Infatti, chi si occupa di scuola ha assistito, in questo periodo, alla presenza di un Governo estremamente centralizzatore, che, malgrado non abbia formalmente abrogato l'autonomia scolastica, ha fatto di tutto per spegnere l'elemento essenziale di un'idea di decentramento reale delle competenze: il riconoscere a ciascuna istituzione scolastica l'autonomia. È un'autonomia che era stata riconosciuta già dalla legge n. 59 del 1997, quindi da una legge ordinaria, attraverso una norma specifico. Un principio, quello dell'autonomia scolastica, cui era stata riconosciuta rilevanza costituzionale, perché inserito, come principio costituzionale, nella modifica del Titolo V introdotta nella precedente legislatura.
Questo Governo ha avuto più volte difficoltà, per usare un eufemismo, a interpretare correttamente il rapporto tra Stato, Regioni ed enti locali, tant'è che non sono poche e sono a conoscenza di tutti le sentenze con cui le Regioni hanno vinto e parallelamente, purtroppo, lo Stato ha perso (e questo non va bene) controversie che riguardavano, appunto, le competenze degli organi dello Stato.
Peraltro, devo ricordare il ripetuto comportamento del Governo nell'emanare i decreti attuativi della legge delega n. 53 del 2003, anch'essi molto significativi. Infatti, sono tutti decreti importanti, ma quello che riguarda la sostituzione dell'obbligo scolastico con il fumoso diritto-dovere e quello relativo al sistema complessivo dei cicli della scuola secondaria sono particolarmente significativi; ebbene, in entrambi i casi non c'è stata l'intesa con le Regioni, un'intesa quanto mai necessaria, perché il sistema dell'istruzione e formazione deve trovare non nella contrapposizione o nella reciproca diffidenza, ma nella concertazione le modalità per dare i migliori risultati nell'interesse di tutti i cittadini. Eppure, il Governo a tutto questo non ha badato e ha sempre proceduto ignorando i pareri contrari e soprattutto - e se ne vedranno gli effetti fortemente negativi - il fatto di non aver raggiunto l'intesa necessaria sui decreti per cui ciò era richiesto.
Voglio portare un solo esempio concreto. L'assenza di intesa per quel che riguarda l'istruzione e la formazione secondaria è gravissima, in quanto l'istruzione e la formazione professionale terminano al quarto anno; si prevede un anno integrativo per poter accedere all'università e, in assenza di intesa, questa norma rischia veramente di non avere alcuna possibilità di attuazione.
Come ho detto, quindi, si tratta di un Governo estremamente accentratore che adesso, ignorando il quadro, secondo noi limpido, delle competenze segnalato precedentemente, interviene con una serie di norme. Tali norme, per quel che riguarda l'istruzione, ignorano volutamente un assetto chiaro delle competenze segnato dalla Costituzione, e, prima ancora, dalla citata legge n. 59 del 1997 e dal decreto n. 112 del 1998, applicativo di quella legge.
In tutti questi strumenti normativi era delineata un'idea chiara delle competenze dello Stato, delle Regioni e degli enti locali: la competenza esclusiva sulle norme generali dello Stato, la competenza concorrente in materia di istruzione e la competenza esclusiva delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale. Tutto ciò, con tutta una serie di atti già in corso, compiuti appunto sulla base della legislazione ordinaria, e un'autonomia scolastica che viene ribadita, ma che in realtà è stata disconosciuta in questi anni e rischia di essere ulteriormente compromessa dall'approvazione di questa modifica costituzionale nefasta - uso questo termine senza timori - per la scuola e per il sistema dell'istruzione e formazione professionale.
In realtà, quanto viene scritto sull'affidare competenza esclusiva, dal punto di vista legislativo, alle Regioni sul tema dell'istruzione, in parte è già in essere, e, soprattutto se si riconosce l'autonomia scolastica, non può essere oggetto di intervento centralizzato. Ad esempio, ricordo che la gestione degli istituti è demandata alla scuola già dall'articolo 23 della legge n. 59 del 1997; questo è già stato fatto e alcuni termini, quindi, rischiano soltanto di creare caos e confusione legislativa.
Se così non è, e dunque, in realtà, ben di più si vuol far scaturire da questa modifica costituzionale, emerge allora che il problema non è il decentramento, che era già ampiamente previsto ed era possibile potenziare e valorizzare attraverso le norme esistenti, ma un'altra idea: quella della frantumazione della scuola, che invece è sempre stata un'importante elemento della nostra unità nazionale e che possiamo dire abbia favorito anch'essa un processo di unificazione.
Perché mi sento di dire che probabilmente è lì che si vuole arrivare e che si pensa di passare attraverso la scuola per frantumare il nostro sistema di istruzione? In realtà, il punto cruciale riguarda - anche qui è estremamente imprecisa l'esposizione - l'assunzione di una competenza legislativa esclusiva in materia di programmi, che le Regioni possono decidere di avocare a sé senza precisare, tra l'altro, in quale parte e in che misura ciò può essere fatto. Questo aspetto preoccupa il mondo della scuola e tutti coloro che temono una frantumazione del sistema di istruzione e formazione perché, da un lato, già la legge delega n. 53 del 2003 ha previsto comunque una quota demandata alle Regioni (in questo caso, però, decisa centralmente dal Governo) e, dall'altro, esiste e deve esistere una quota opzionale lasciata all'autonomia delle singole scuole.
A tale proposito, non riesco proprio a comprendere il significato di avocare alle Regioni la scelta di intervenire così pesantemente sui programmi della scuola, che diventa un modo di creare venti ipotesi diverse. Del resto, non è un mistero per nessuno che, dove in qualche modo questa idea si è realizzata, si sono viste aumentare a dismisura ore di lezione e pagine di libri destinate a temi di natura strettamente locale e si è visto lanciare in grande il discorso dell'insegnamento del dialetto.
Chiarisco subito che è importante che la scuola abbia un rapporto costruttivo e vitale con il territorio in cui è collocata, e difatti l'autonomia scolastica era destinata proprio a superare un'idea di centralizzazione esasperata che rendeva impossibile, o quanto meno difficile, questo rapporto proficuo. Sentivo parlare prima di modernità: era un discorso pienamente in atto che andava soltanto aiutato invece di essere - come è avvenuto in questi cinque anni - umiliato, demotivato, spesso privato delle risorse necessarie, perché le scuole hanno subìto tagli pesantissimi proprio a quelle risorse che permettevano di gestire l'autonomia scolastica. Quindi c'è stata una volontà chiara di schiacciare l'autonomia scolastica, che permetteva un rapporto efficace tra scuola e territorio, nel quadro però di una scuola comunque elemento essenziale dell'unità nazionale.
Anche il tema della lingua è da assumere con grande attenzione, perché certamente aspetti della cultura e della letteratura dialettale possono intervenire proficuamente da un punto di vista didattico (non lo disconosco minimamente), ma deve essere ben evidente che l'insegnamento della lingua italiana è elemento importantissimo per far sì che veramente la scuola sia anche strumento di promozione sociale, perché l'italiano è la lingua attraverso cui si compiono gli atti importanti della nostra vita nazionale, il modo attraverso cui si interagisce come cittadini con lo Stato.
Di conseguenza, dare lo strumento linguistico ai ragazzi è un elemento fondamentale della democrazia e non è così facile e semplice pensare - come, del resto, si è già fatto - di sottrarre ore all'insegnamento dell'italiano per destinarle a quello dei dialetti, perché si rischia veramente di creare una cultura di secondo grado non supportata da una cultura fondamentale che riguardi la conoscenza della lingua e della letteratura del nostro Paese, che meritano il massimo dell'attenzione e rivestono un grande significato non soltanto in Italia, ma nel mondo. Questo processo è estremamente rischioso e si sta già compiendo.
Non so quanti hanno avuto occasione di venire a conoscenza, ma qualche giorno fa c'era un genitore che scriveva ad un giornale stupito del numero delle pagine del libro del figlio che non avevano un respiro di cultura generale e si soffermavano invece su aspetti estremamente particolaristici. Ebbene, gli aspetti estremamente particolaristici dei programmi, l'insegnamento dei dialetti si possono avere, ma in un quadro didattico che, innanzitutto, dia tutti gli strumenti per essere cittadini del Paese, non sottraendo quindi ore alla conoscenza della lingua e della letteratura italiana e di tutti gli aspetti culturali ad esse connessi.
In sostanza, questo è il vero motivo per cui il tema della scuola è stato modificato; se interessava soltanto l'aspetto delle competenze e delle funzioni, era già in atto un quadro che permetteva di dare veramente valore al decentramento, che condivido, al fine di rendere il luogo di formazione delle decisioni il più vicino possibile ai cittadini che devono interagire con il sistema di istruzione e di formazione.
Con le leggi e la riforma costituzionale introdotte nella precedente legislatura, esistevano già tutti gli strumenti per garantire il decentramento. Non c'erano - e non li volevamo - gli elementi per frantumare il nostro sistema, per abbassare il livello culturale della nostra scuola e per perdersi in mille rigagnoli regionali. (Richiami del Presidente). Signor Presidente, mi avvio a concludere.
Questa è una visione di accentramento nei confronti del potere regionale, non di autonomia e federalismo. Ritengo perciò che questo sia uno dei tanti aspetti che testimoniano come il Governo stia dando delle picconate alla scuola italiana, ma non solo. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U e del senatore Michelini).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Tonini. Ne ha facoltà.

TONINI (DS-U). Signor Presidente, l'ambiziosa riforma costituzionale, che giunge oggi al traguardo finale dell'esame parlamentare, ma che dovrà poi affrontare l'assai meno scontato esame popolare, aveva preso le mosse pure tra mille contraddizioni che in un secondo momento si sarebbero rivelate preponderanti, all'insegna di una parola d'ordine ragionevole e condivisibile: completare la transizione.
Alla base della riforma veniva posta la constatazione - condivisa e condivisibile - del carattere incompiuto del bipolarismo italiano e la necessità di favorirne la maturazione attraverso un intervento di riforma costituzionale che da un lato avrebbe dovuto guardarsi dagli opposti pericoli della restaurazione conservatrice del vecchio ordine proporzionalistico e consociativo da un lato e, dall'altro, dello stravolgimento avventuristico della nostra Carta fondamentale in una direzione presidenzialistico-plebiscitaria sulla forma di governo e separatistico-dissolutiva sulla forma di Stato.
La giusta opzione mediana si concretizzava nell'assunzione, da parte della maggioranza di centro-destra, di due capisaldi del riformismo costituzionale del centro-sinistra: il Governo del Primo ministro come alternativa neoparlamentare sia al vecchio assemblearismo-proporzionalitstico che alle diverse forme di presidenzialismo, considerate estranee alla tradizione europea, con la sola rilevante eccezione del semipresidenzialismo francese; e il federalismo cooperativo, come introdotto, sia pure in modo tutt'altro che compiuto e perfetto, dalla riforma del Titolo V, approvata nella scorsa legislatura e confermata in questa dal voto popolare. Una riforma anch'essa da completare, da correggere in taluni aspetti, ma non da azzerare; verrebbe da dire innanzi tutto da attuare e rispettare, come la Corte costituzionale ci ha indicato con le ultime sentenze.
L'approccio originario della Casa delle Libertà si era rivelato avveduto sul piano della cultura costituzionale, ma anche politicamente abile.
Accantonando il presidenzialismo caro ad Alleanza Nazionale, imbrigliando nel federalismo le spinte separatiste della Lega Nord, contrastando le nostalgie proporzionalistiche di una parte almeno dell'UDC ed assumendo invece i capisaldi della cultura riformatrice del centro sinistra, la maggioranza aveva posto le premesse per un dialogo riformatore, positivo, virtuoso.
La riprova dell'abilità politica di questa scelta, oltre che della saggezza costituzionalistica di questo approccio originario, giunse proprio dall'aprirsi di un aperto e franco dibattito in seno al centro-sinistra tra posizioni pregiudizialmente chiuse al confronto e posizioni invece apertamente disponibili al dialogo riformatore, nello spirito di un onesto compromesso costituente.
Come lei sa, signor Presidente, e come è noto ad alcuni dei nostri colleghi, sono tra quanti assunsero questa seconda posizione di apertura riformatrice nel dibattito in seno al centro-sinistra; ma questo dibattito si è rapidamente spento, non per il prevalere all'interno dell'opposizione di questo o quell'orientamento, quanto piuttosto per il carattere deludente, perché confuso sul piano politico-culturale ed approssimativo su quello tecnico, con il quale da pur giuste premesse si è arrivati alla confezione della proposta emendativa della seconda parte della nostra Costituzione.
E così, per quanto riguarda la forma di Governo, anziché affinare la proposta intervenendo sul delicato tema del potere di scioglimento in capo al Primo ministro, avete scelto la via impervia delle norme antiribaltone, che irrigidiscono in modo irragionevole la dialettica maggioranza-opposizione fino a consegnare nei fatti il potere di scioglimento alle minoranze della maggioranza parlamentare. Altro che strapotere del Primo ministro! Soprattutto, la riforma della forma di Governo che voi proponete ignora completamente il nodo cruciale delle garanzie nel maggioritario, eludendo la inderogabile definizione dello Statuto dell'opposizione e la terzietà degli istituti di garanzia.
Certamente il testo contempla il principale dei contrappesi al rafforzamento dell'Esecutivo: il federalismo regionale, la riforma del Senato in senso federale. Ma la riforma fallisce sul terreno più delicato e decisivo, quello della ripartizione delle attribuzioni tra Camera e Senato nel procedimento legislativo. Su questo terreno l'esito è talmente confuso e caotico da mettere a serio repentaglio la tenuta stessa del sistema, come ebbe a denunciare lo stesso Presidente del Senato. L'esito deludente di un iter riformatore, che pure aveva avuto un avvio non disprezzabile, ha portato la maggioranza a revocare nei fatti, anche se non con chiare ed oneste parole, la giusta premessa iniziale.
Con la riforma elettorale che avete presentato in parallelo al voto finale sulla riforma costituzionale - un parallelismo, consentitemi colleghi, che ha dato al Paese la sgradevole sensazione di uno scambio e di un commercio tra riforma elettorale e riforma costituzionale - avete nei fatti sostituito il completamento della transizione con il suo ribaltamento, la sua revoca nel dubbio più radicale, forse - viene da dire - perché nel frattempo è mutata la previsione delle vostre convenienze partigiane.
Forse per questa ragione, forse per altre il dialogo e l'intesa parlamentare che non siete riusciti a stabilire su un terreno dove dovrebbe essere raccomandata se non obbligata - quello costituzionale - con la legge elettorale antimaggioritaria, ovvero una legge che tende ad impedire il formarsi di una chiara maggioranza politica in Parlamento, che state per approvare, vorreste rendere questo dialogo, questa intesa parlamentare, questo accordo parlamentare indispensabile per l'ordinaria attività legislativa e perfino per la formazione del Governo.
Insomma, sulle regole volete decidere a colpi di maggioranza, mentre prefigurate una normalità consociativa per il confronto politico-parlamentare e per l'attività dello stesso Governo. No, signor Presidente, se questo è l'esito di un processo che pure era partito da una premessa giusta, non possiamo che votare contro questa riforma. Chiederemo al popolo di bocciarla nel referendum e faremo una onesta e chiara battaglia davanti al Paese. Sarà il prossimo Parlamento, al quale avanzeremo una proposta nuova nel metodo, che faccia tesoro dell'esperienza della Convenzione europea e capace nel merito di fare tesoro di quelle buone premesse che voi non siete riusciti a non sprecare, a dover riprendere e riannodare il filo che voi non siete riusciti a non smarrire. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U e del senatore Michelini).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Michelini. Ne ha facoltà.
 
MICHELINI (Aut). Signor Presidente, onorevole Sottosegretario, quando più Stati si uniscono tra loro per esercitare in comune alcune funzioni, rinunciando in parte alla loro sovranità, possono dar vita ad una istituzione che assume la forma della federazione.
Dunque, il federalismo è un processo di aggregazione tra più Stati sovrani, ma in Italia questa accezione viene usata per indicare un fenomeno esattamente contrario, e cioè il decentramento di funzioni dallo Stato alle Regioni. Un fenomeno che fa discutere molto in questi tempi, proprio perché la maggioranza parlamentare ha ritenuto di imprimere un taglio federale alla riforma della Costituzione che stiamo esaminando in seconda lettura.
L'opinione pubblica è assai sconcertata poiché questo federalismo all'italiana viene percepito come un tentativo di disgregazione dell'unità nazione e, comunque, come un cedimento ai localismi. Vi è la preoccupazione della proliferazione dei governi locali con i relativi apparati burocratici e, dunque, dell'aumento eccessivo della spesa pubblica.
Le preoccupazioni sono fondate ma, per comprendere se il pericolo è reale o soltanto teorico, è opportuno guardare dentro a questo nostro federalismo, e non tanto nel modello - purtroppo molto confuso - che ci viene dalla modifica della Costituzione, quanto dall'esperienza che viene da più di mezzo secolo di regionalismo. Esaminando con attenzione questa nostra esperienza è possibile superare anche molti luoghi comuni e la cattiva conoscenza di una realtà denunciata spesso come privilegio, anziché come visione illuminata dei Costituenti del 1948.
In Italia vi sono già casi di autonomie molto forti come quelle attribuite alle Regioni a statuto speciale da puntuali e distinte leggi costituzionali. Con quelle leggi si stabiliscono le materie di competenza esclusiva e concorrente delle Regioni e dello Stato e si attribuiscono o si devolvono, in tutto o in parte, i gettiti dei tributi dello Stato riscossi nelle Regioni stesse. Nonostante gli statuti di queste Regioni siano sostanzialmente uguali, diversa è la loro attuazione poiché diverso è lo spirito con il quale si vive la dimensione autonomistica nei rispettivi territori. Nelle Regioni del Nord (Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige/Südtirol e Friuli-Venezia Giulia), lo spirito è quello dell'"esclusività", mentre nelle Regioni del Sud (Sicilia e Sardegna), lo spirito è quello dell'"aggiuntività".
Mi spiego. Nelle Regioni settentrionali l'autonomia viene vissuta come un insieme di competenze sul quale la popolazione e le istituzioni locali esercitano il governo in maniera esclusiva e non tollerano quindi né interferenze né sovrapposizioni dello Stato, al quale viene comunque riconosciuto il diritto-dovere di governare nelle materie ad esso riservate dallo Statuto di autonomia. Ne consegue che le risorse tributarie riscosse localmente vengono distribuite tra le Regioni e lo Stato in proporzione diretta all'ammontare dei costi di esercizio delle rispettive competenze.
Nelle Regioni meridionali, invece, l'autonomia viene considerata sì come un insieme di competenze sulle quali esercitare localmente il governo, ma ciò non in maniera esclusiva, bensì concorrente con lo Stato e quindi non solo si tollera, ma anzi si auspica e si promuove l'intervento dello Stato, al quale viene chiesto di legiferare sia nelle materie ad esso riservate dallo Statuto di autonomia sia, in aggiunta, nelle materie che lo stesso statuto riserva alle Regioni.
Ne consegue che le risorse tributarie riscosse in quelle Regioni vengono devolute in tutto o in parte alle autonomie locali e ad esse si aggiunge una molteplicità di assegnazioni finanziarie che lo Stato dispone a favore di quelle Regioni o con finanziamenti mirati, ovvero con il riparto di fondi settoriali. Per le Regioni ordinarie, i cui Statuti sono retti da leggi ordinarie e dove quindi il confine tra competenze attribuite ai poteri locali e competenze riservate allo Stato è meno netto, prevale lo spirito di aggiuntività con accenti sempre più marcati mano a mano che si passa dal Nord al Sud del Paese.
Lo spirito dell'esclusività è appena tollerato dai poteri centrali, i quali ritengono che le attribuzioni di funzioni in ben specificate materie alle Regioni, così come disposto dalla Costituzione - articoli 116 e 117 - costituiscano un limite ai loro poteri legislativi ed esecutivi.
II legislatore nazionale non si preoccupa minimamente di invadere il campo delle Regioni e lo dimostrano le numerose sentenze della Corte costituzionale pronunciate a difesa delle prerogative delle Regioni stesse. Alla stessa stregua non si preoccupa il Governo di un simile comportamento e gli esempi di invasione di campo sono molteplici: basti pensare al Ministero della salute ed al Ministero per le politiche agricole, che sono risorti rispettivamente sulle ceneri del Ministero della sanità e dell'agricoltura, aboliti con referendum popolare dopo che le loro competenze erano state trasferite alle Regioni.
Ciò che resta da considerare è che nello spirito di esclusività, che è comunque alimentato dal sentimento di unità nazionale, si opera con chiarezza poiché ognuno fa ciò che gli spetta. Nell'altro spirito, quello dell'aggiuntività, ciò che si alimenta è la confusione: sovrapposizione tra leggi nazionali e leggi regionali nelle stesse materie, duplicazione di spese nazionali e spese regionali per gli stessi scopi, scoordinamento tra interventi nazionali ed interventi regionali per iniziative uguali.
Lo spirito dell'aggiuntività non produce quindi un buon esempio né dì centralismo né, come si dice oggi, di federalismo, ma nonostante questa sia la strada da non scegliere, sarà comunque quella praticata. Secondo il disegno di legge costituzionale in esame, le Regioni non hanno infatti referenti forti in sede nazionale e poi manca un rapporto organico tra Regioni e Stato.
Il Senato federale della Repubblica che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto svolgere funzioni di raccordo e di rappresentatività degli interessi regionali, non ha nessun rapporto con le Regioni e non è certo la coincidenza dei tempi delle elezioni dei senatori con quelli dell'elezione dei Consigli regionali che può fare del Senato il luogo della sintesi politica delle Regioni, sia perché esso è comunque organo dello Stato e non organo delle Regioni, sia perché è sede legislativa e non politica come l'altro ramo del Parlamento.
Le Regioni finiranno dunque per sottostare alle leggi dello Stato e non soltanto a quelle previste dalla Costituzione come leggi di principio entro le quali esercitare le competenze secondarie, ovvero le leggi sul federalismo fiscale, ma anche le leggi settoriali di spesa che perpetuano lo spirito dell'aggiuntività.
Concludo con un richiamo all'articolo 119, che tratta delle autonomie locali sotto il profilo finanziario e lo fa nello spirito dell'esclusività. Esso è un articolo molto difficile da attuare, tenendo conto che finora è rimasto lettera morta nonostante i numerosi tentativi di attuazione compiuti. A complicare le cose concorrono anche le norme finali di questo disegno di legge costituzionale, in particolare quelle contenute nell'articolo 57, secondo le quali si dovrebbe provvedere all'attuazione dell'articolo 119 entro tre anni, ma - attenzione! - le risorse tributarie che derivano dall'autonomia impositiva di Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane non devono aumentare la pressione fiscale complessiva.
Ciò fa riflettere molto perché quello che stupisce non è il divieto dell'aumento della pressione fiscale, in quanto la nostra è tra le più alte in Europa, ma l'enormità del fatto che in Costituzione trovi domicilio un parametro e non già un principio di politica economica e finanziaria. Un parametro che non si ispira poi al principio dell'equità perché, a parte l'indeterminatezza della sua commisurazione, non si può non notare la contraddizione per cui la pressione fiscale può essere aumentata per conferire risorse fiscali allo Stato e non anche per le esigenze, anche singole, delle autonomie locali, Regioni comprese. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Cambursano. Ne ha facoltà.
 
CAMBURSANO (Mar-DL-U). Signor Presidente, onorevoli colleghi, l'11 marzo 1947, all'Assemblea costituente Benedetto Croce pronunciò la famosa esortazione: «Ciascuno di noi si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto meditato, un pungente e vergognoso rimorso». Chissà quanti senatori della Casa delle Libertà seguiranno questa esortazione di Croce. Temo purtroppo pochi e questo perché lorsignori hanno ridotto ad oggetto di baratto la Carta costituzionale.
Il 15 aprile 1994, Giuseppe Dossetti - da poco uscito dal monastero - scrisse una lettera all'allora sindaco di Bologna (ora collega dei Democratici di Sinistra), Walter Vitali, per denunciare i pericoli di una «modificazione frettolosa e inconsulta del patto fondamentale del nostro popolo». Da quella lettera sorsero i Comitati per la difesa della Costituzione. I cittadini italiani si stanno già riorganizzando per riattivarli, per fermare questo scempio di riforma costituzionale!
La Costituzione non è una legge qualsiasi, chiamata a dare risposte contingenti a problemi contingenti. Il suo ruolo è di fissare e garantire ciò che è destinato a restare stabile e valere per tutti e non per una parte politica soltanto, anche se contingentemente e numericamente maggioritaria. Ed invece siamo alla monarchia, anzi alla dittatura del numero o, per dirla con Tocqueville, ad una «tirannide della maggioranza».
Per la prima volta un progetto di legge di revisione - e quale revisione! - è stato introdotto da un'iniziativa del Presidente del Consiglio (Atto Senato n. 2544 del 17 ottobre 2003, è bene ricordarlo), come parte di un programma di Governo, non come un'esigenza sentita e vera del Paese, ma per rispondere soltanto al ricatto che un partito della maggioranza poneva al Governo, cioè la Lega Nord. Vi ricordate, colleghi, quella frase famosa pronunciata dall'allora ministro per le riforme, l'onorevole Bossi? Bossi disse: «Noi lanciammo la secessione, che era una guerra allo Stato, e lo Stato rispose da par suo. In guerra ognuno usa le armi che ha. Poi facemmo un armistizio e di lì partì il federalismo come via d'uscita da quella guerra»! Ma quale federalismo, onorevole Bossi, senatore Calderoli, senatore Pastore?
Dopo la sentenza di ieri della Corte suprema, con la quale i giudici arrivano ad invalidare le norme varate dal Governo perché «costituiscono una inammissibile ingerenza nell'autonomia degli enti locali», si svela la palese contraddizione che ha caratterizzato l'intera legislatura del Polo e della Casa delle Libertà: da una parte, la retorica padana delle piccole patrie; dall'altra, la fame di risorse del solito leviatano.
La maggioranza (vergognosamente assente, peraltro, stamane!), cui si deve questa riforma costituzionale che sfascia l'unità repubblicana, evita l'impopolarità di intestare i tagli al welfare all'Amministrazione centrale e scarica tutte le responsabilità sugli enti locali e sulle Regioni. Ma ora il trucco è svelato una volta per tutte! La Lega Nord, l'intera Casa delle libertà non hanno mai creduto ad un vero federalismo, altrimenti non si spiega che in cinque anni non abbiamo realizzato il federalismo fiscale quale strumento vero nelle mani dei territori, delle autonomie locali.
La verità è un'altra: al federalismo questa riforma fa fare due passi indietro, ma avvia il percorso verso la secessione, verso la divisione del Paese; rimette in discussione i princìpi fondanti dell'unità nazionale, del senso dello Stato e dei suoi valori, l'eguaglianza delle persone in dignità e diritti; il riconoscimento delle autonomie sociali; i doveri di solidarietà; la garanzia dei diritti civili, politici e sociali.
Signor Presidente,chiudo dicendole che sono amareggiato e preoccupato: amareggiato, perché sono nipote di un signore che a soli 27 anni, nel 1916, ha dato la vita per unire questo Paese; perché sono figlio di un signore che a 30 anni non ha esitato un istante a schierarsi con coloro che hanno combattuto per liberare questo Paese dalla tirannia fascista, per ridare libertà e democrazia, giustizia ed eguaglianza a tutti i cittadini italiani, quelli vecchi e quelli nuovi. Tutto questo ora rischia di essere inutile; sono preoccupato per la tenuta democratica del nostro Paese.
È già stato detto e scritto, avete avvelenato i pozzi, svuotato le casse dello Stato, svenduto il suo patrimonio, emanato leggi vergogna: falso in bilancio, scudo fiscale, conflitto di interessi ed ex Cirielli. Toccherà agli italiani, con il referendum, ma prima ancora con le elezioni politiche, fermarvi una volta per tutte! (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Calvi. Ne ha facoltà.
 
CALVI (DS-U). Signor Presidente, onorevoli colleghi, anch'io non posso non iniziare questo mio intervento senza sottolineare il sentimento di amarezza e di preoccupazione con i quali ci accingiamo oggi a concludere la discussione di una riforma di tale rilevanza.
Ricordo la passione civile e la cultura istituzionale che consentirono, superando anche divergenze politiche e ideologiche, la scrittura della nostra Carta costituzionale, forse tra le più ammirate e progredite d'Europa.
Credo, quindi, che il nostro sia una atto di testimonianza, ma non soltanto questo. Credo che sia anche un atto politico e istituzionale premessa al prossimo passaggio referendario.
Desidero soffermarmi su alcune discrasie e alcune asistematicità presenti nel testo che ci accingiamo ad approvare. Inizio anch'io dalle parole, già ricordate in quest'Aula, del giudice americano Marshall che nel 1803 fissò in una sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti il fondamento storico del controllo di costituzionalità degli atti del potere legislativo.
Scriveva questo grande giudice: «La Costituzione o è una legge suprema che non può essere cambiata con i mezzi ordinari o un atto posto allo stesso livello degli atti legislativi ordinari e che la legislazione potrà modificare quando vorrà. Se la prima parte dell'alternativa è vera, un atto legislativo contrario alla Costituzione non è una legge; se la seconda parte è vera, allora le Costituzioni scritte sono dei tentativi assurdi di un popolo per limitare un potere per sua natura illimitabile».
Sono frasi che fin dall'inizio del secolo XIX hanno stabilito i criteri all'interno dei quali dobbiamo verificare la possibilità di un controllo di legittimità sulla base della coerenza costituzionale. Se poi la norma costituzionale instaurata è ancora più forte come sistema di diritti di libertà per i cittadini, la rigidità della norma costituzionale garantisce la permanenza di quei diritti di fronte a qualsiasi tentativo del potere legislativo.
Questo è quanto sta avvenendo oggi. È chiaro che la rigidità del nostro sistema costituzionale è mitigato dall'articolo 138 della Costituzione, e tuttavia diciamo che quella rigidità, sia pur flessibile, è garanzia di quei diritti di libertà per i cittadini che la nostra Carta costituzionale ha sancito e dichiarato.
Ora, la funzione della Corte costituzionale - come è noto - è quella di svolgere, nell'esercizio delle principali competenze attribuite - il cosiddetto sindacato di costituzionalità, allo scopo quindi di accertare la conformità con le norme della costituzione o la non difformità da esse della diversità degli atti che vengono emanati nella sfera costituzionale.
Ciò significa che la Corte costituzionale è il passaggio decisivo per dare forza e legittimità all'intero sistema ordinamentale del nostro Paese. Intanto partirei da un'osservazione di carattere procedurale. È singolare, lo dico anche al relatore, che siano stati previsti tre livelli, tre fasi, tre criteri di applicazione delle varie norme.
La prima è quella della applicazione immediata. La seconda è quella dell'applicazione riferita alla prima legislatura successiva all'entrata in vigore della legge costituzionale, e qui abbiamo la magistratura e la Corte costituzionale. La terza fase, che riguarda il Parlamento, è prevista come applicazione riferita alla legislatura che interverrà dopo il quinto anno successivo alla prima formazione delle due Camere secondo il nuovo ordinamento. Siamo di fronte qui ad un singolare caso: prima costituiamo l'organo e dopo molto tempo costruiamo il soggetto che dovrà costruire l'organo stesso.
Mi sembra sia davvero una procedura assai singolare, ma il punto su cui vorrei brevemente, per il tempo che mi è concesso, fare alcune osservazioni critiche è proprio sul criterio elettivo dei giudici e sulla composizione della Corte. Negli Stati Uniti, i giudici della Corte suprema federale sono nominati dal Presidente con il consenso del Senato; in Germania i giudici della Corte costituzionale federale sono nominati per metà dal Bundesrat; in Spagna un terzo dei giudici costituzionali sono eletti dal Senato. Questo perché questi tre Paesi, Stati Uniti, Germania e Spagna, hanno una struttura federale, questa è la sistemazione organica ordinamentale di questi Paesi e naturalmente a questo punto è chiaro che la espressione della partecipazione delle regioni alla nomina dei giudici costituzionali rappresenta un pendant della forma dello Stato e del riparto delle competenze legislative.
Ma per noi così non è, perché la Corte costituzionale ha come scopo la tutela della legalità costituzionale dell'ordinamento nel suo complesso e le questioni sollevate davanti ad essa non sono vertenze sorte tra due soggetti istituzionali, Stato e regioni, ma sono problemi di compatibilità dell'atto in questione con l'intero ordinamento giuridico. Di qui la necessità di avere un organo che sia superiore a tutte le istanze mediate, di qui la conclusione che giustamente viene sottolineata dal professor Azzariti che scrive: «Il principio di legalità costituzionale inteso come principio necessariamente unitario che alla Corte spetta essenzialmente tutelare non ha nulla a che spartire, rimanendo ad esso estraneo, con il principio delle autonomie territoriali».
Questo è il fondamento che ha portato nel 1948 a costruire una Corte costituzionale che vedeva la partecipazione alla sua formazione del Parlamento, del Presidente della Repubblica e delle magistrature che convergevano nel dare uniformità di composizione, al di sopra delle singole parti che si rivolgevano alla Corte stessa.
Invece, voi avete previsto un sistema diverso. Voi avete previsto che la Corte costituzionale sia formata da quattro membri nominati dal Presidente della Repubblica, quattro nominati dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative, tre nominati dalla Camera dei deputati, quattro nominati dal Senato federale, così come è previsto in modo abbastanza analogo con i non togati del Consiglio superiore della magistratura.
Allora, qual è la conclusione a cui voglio giungere, signor Presidente? Che voi state contrabbandando uno Stato federale che in realtà non c'è, e in assenza di una sistematicità dello Stato federale, avete creato le premesse istituzionali affinché quello Stato federale, che non c'è, funzioni, attraverso organismi quali Corte costituzionale e Consiglio superiore della magistratura, eletti da soggetti che invece nulla hanno a che fare con gli organismi che abbiamo indicato (Consiglio superiore della magistratura e Corte costituzionale).
C'è una discrasia, c'è un'asistematicità in tutto questo. La verità è che, a questo punto, occorre tornare a quello che era il nostro ordinamento costituzionale, modificando ciò che sarà necessario modificare. Per tutelare nel modo più forte la nostra democrazia e il progresso democratico di questo Paese, occorrerà senz'altro ripartire dalla nostra Costituzione, per apportare modifiche che rafforzino la nostra democrazia e non la indeboliscano così come state tentando di fare con la vostra riforma. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U e dei senatori Michelini e Zancan. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Falcier. Ne ha facoltà.
 
FALCIER (FI). Signor Presidente, onorevole rappresentate del Governo, colleghi senatori, con l'esame e, auspico naturalmente, con l'approvazione del disegno di legge costituzionale n. 2544-D taglia il traguardo parlamentare il provvedimento di modifica della Parte II della Costituzione. Il traguardo parlamentare è probabile che non sarà quello definitivo, perché è prevedibile che l'approvazione non avverrà in quest'Aula con la maggioranza dei due terzi, e quindi la legge, dopo la sua pubblicazione, sarà promulgata solo se, sottoposta a referendum, otterrà la maggioranza dei voti validi.
È noto, perciò, che vi sarà probabilmente un voto popolare definitivo, pur ritenendo fin d'ora che, comunque, l'impegno assunto con gli elettori da parte della Casa delle libertà viene soddisfatto e che alle riforme approvate in questa legislatura è possibile ora aggiungere la più rilevante, la più importante, ossia la riforma della Costituzione e degli organi costituzionali dello Stato.
Era un obiettivo da molti e da lungo tempo perseguito e raggiunto però dalla Casa delle libertà e che si aggiunge, "in prima nazionale", ad altre riforme come quelle della scuola, del sistema giudiziario e del lavoro.
Sarà difficile a chiunque, anche agli avversari, agli scettici, ai pessimisti, agli ottusi, agli increduli, non riconoscere che una grande riforma sarà, a grande maggioranza, approvata dal Parlamento e che la stessa maggioranza ha avuto il coraggio, l'ardire e la coerenza di portare a termine - grazie certamente alla Lega, ma anche all'intera Casa delle Libertà - una riforma sulla quale tanti altri si erano cimentati, ma solo con studi e Commissioni.
Nel merito, e tenendo conto, in qualche modo, delle osservazioni e delle preoccupazioni emerse anche in questo dibattito, quando tali osservazioni sono andate al di là delle numerose polemiche pregiudiziali e preclusive di ogni reale forma di intesa o di semplice collaborazione, cercherò di svolgere alcune brevi considerazioni.
La prima concerne l'accusa di stravolgere l'attuale Costituzione. È un'accusa che va respinta. In ogni caso, però, è da ricordare che, prima di queste ultime proposte di modifica, la Costituzione italiana è stata modificata più volte, in diverse occasioni, senza clamori e senza timori, e da parte di varie maggioranze. Quindi, quando si difende la Costituzione sarebbe da chiarire se si fa riferimento a quella del 1947 o a quella in vigore e più volte modificata.
Le modifiche in passato hanno riguardato i rapporti politici, le circoscrizioni estere, la tutela e le immunità dei parlamentari, l'amnistia e l'indulto, i poteri del Presidente della Repubblica negli ultimi sei mesi del suo mandato, le norme sul giusto processo, ed altro ancora. La sacralità, del testo del 1947 è stata, quindi, se si vuole, più volte violata.
Si vorrà riconoscere che, comunque e fortunatamente, la situazione del 1947 era ben diversa dall'attuale e pesi e contrappesi sono stati necessari allora per difendere una democrazia debole e gracile, mentre dopo sessant'anni l'esigenza di adeguarsi a quanto già previsto da altre Costituzioni europee è possibile ed è un segno che la nostra democrazia si è consolidata, con una legittimazione reciproca fra le varie forze politiche, anche antagoniste, ma sicuramente democratiche ed in grado di assicurare l'alternanza.
Le modifiche più rilevanti, però, sono state apportate nel 2001, a pochi giorni dalla fine della legislatura, quando l'allora maggioranza, solo con i propri voti, ha tolto ogni supremazia istituzionale allo Stato, equiparandolo, come rango costituzionale, ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane, alle Regioni, con tutte le conseguenze del caso; ha abolito qualsiasi controllo democratico e burocratico, esaltando l'autonomia degli enti locali e delle Regioni, fino ad eliminare ogni tutela dell'interesse nazionale e causando centinaia e centinaia di conflitti fra Stato e Regioni che stanno "intasando" la Corte costituzionale e l'operatività delle istituzioni della nostra Repubblica.
La difesa dell'interesse nazionale, infatti, è stata introdotta solo nella recente proposta di modifica costituzionale per porre rimedio, tra l'altro, ad una situazione di anarchia e conflittualità, senza contare gli enormi aumenti della spesa conseguenti alla riforma del 2001. L'interesse nazionale, quindi, non c'è nella riforma approvata dall'Ulivo. Inoltre, è la Costituzione vigente (quella del 2001) che ha creato Regioni di serie B e Regioni di serie A, prevedendo che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» sono possibili relativamente alle materie di legislazione concorrente, alla giustizia di pace, all'istruzione, alla tutela dell'ambiente e ai beni culturali, materie che possono essere date alle Regioni che lo chiedono, e quindi, creando i presupposti per l'esistenza appunto di Regioni di serie A e Regioni di serie B; che ha sconvolto le competenze dello Stato e delle Regioni, le quali ora hanno competenza esclusiva (non sempre esercitata) in materia di industria, artigianato, commercio e turismo e competenza concorrente per accordi con Stati esteri, istruzione, tutela della salute, porti, aeroporti, sport, protezione civile, produzione energia, ed altro.
Queste ed altre sono le competenze delle Regioni (ai Comuni è stata data la possibilità di tributi propri, ma a quanto sembra tale possibilità non viene esercitata, intendendo per autonomia solo quella della spesa e non anche dell'entrata) e non è stata la Lega, ma il centro-sinistra a volere questa situazione.
Sempre la riforma del 2001 prevede che con legge regionale vengono ratificate, anche con l'individuazione di organi comuni, le intese tra Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, introducendo quindi il virus della dissoluzione dello Stato, della creazione potenziale, ma possibile, di super Regioni (forse si pensava allora alla Padania), norma che la Lega e l'attuale maggioranza hanno eliminato, ripristinando la tutela dell'interesse nazionale, riportando alcune competenze allo Stato e prevedendo che le intese tra Regioni possano portare solo alla creazione di organi amministrativi comuni.
Ricordo ancora che il testo in discussione è in gran parte quello esaminato dalle Commissioni presiedute dall'onorevole De Mita, dall'onorevole Iotti, e soprattutto, provenienti dalla Bicamerale dell'onorevole D'Alema (ma allora, viene il dubbio, è proprio vero che la stessa cosa è buona se la fa o la dice la sinistra ed è negativa se la fa o la dice la Casa delle Libertà?).
Il maggior potere al Premier (già previsto dalla Commissione D'Alema) è anche la conseguenza di scelte già fatte ed indirizzate a dare enormi poteri ai sindaci, ai Presidenti delle Province e delle Regioni, anche perché, quelli sì, non il Premier, sono eletti direttamente dal popolo e se si dimettono, si devono sciogliere le assemblee elettive.
In conclusione, si tratta ora, piuttosto, di avviare un federalismo possibile e solidale, che preveda uno Stato autorevole, Regioni autonome con proprie specialità.
Non vi dovrebbero essere difficoltà a riconoscere che alcune modifiche della Costituzione erano ormai ritenute utili, largamente condivise e sollecitate. Le scelte sono in coerenza ed in armonia con la legislazione degli enti locali e delle Regioni, soprattutto nell'esigenza di rafforzare le competenze dell'esecutivo; altre scelte sono conseguenza e diventano necessarie per correggere modifiche già avvenute al Titolo V della Costituzione e per l'avvio di forme di federalismo non del tutto condivisibili, per quanto fatto in passato.
Probabilmente, ora è stato trovato un giusto equilibrio, sono state eliminate alcune fughe in avanti che hanno, tra l'altro, comportato - e comportano - un contenzioso dirompente tra Stato e Regioni.
Sono ampiamente confermate le scelte di completare l'opzione federalista, radicandola e rendendola organica e realizzabile; di superare il bicameralismo perfetto; di modificare la forma di Governo, in particolare i poteri del Premier; di confermare il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica e di arbitro della Corte costituzionale.
Infine, la gradualità dell'entrata in vigore della complessa normativa è una garanzia, diversamente dal passato, perché la riforma abbia tutti gli effetti desiderati, positivi e possa essere, se necessario, corretta ed integrata, dopo la sua applicazione.
Per questi motivi ne auspico, come anticipato all'inizio, la definitiva approvazione. (Applausi dai Gruppi FI e AN. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Turroni. Ne ha facoltà.
 
TURRONI (Verdi-Un). Signor Presidente, rappresentante del Governo, colleghi, sono comparsi adesso taluni colleghi del centro-destra…
 
SPECCHIA (AN). Per ascoltarla!
 
TURRONI (Verdi-Un). …forse perché dopo di me deve parlare il senatore Nania, un autorevole "saggio di Lorenzago". Ne sono lieto, anche se questo mio incipit - chiamiamolo così - non muta nella sostanza, ma risparmierà talune critiche che avrei avanzato anche io, come i colleghi che mi hanno preceduto, per l'assenza dei rappresentanti del Governo: per carità, è presente il collega Brancher, ma dov'è il Ministro delle riforme… (Commenti del sottosegretario Brancher), dove stanno gli altri "saggi di Lorenzago"? Perché non siete tutti in Aula se è vero, come avete l'impudenza, la sfrontatezza di dire, che questa è una grande, importante, democratica riforma della Costituzione?
Non penso che l'assenza sia dovuta a pudore, a vergogna per quanto state facendo. Se lo facessi, sbaglierei clamorosamente. In realtà, a voi maggioranza della Costituzione, non importa nulla! La sua modifica è il corrispettivo del costante mercimonio con cui avete barattato leggi, posti, potere, regole per i vostri reciproci vantaggi ed interessi, a cominciare da quelli privatissimi del Presidente del Consiglio, sia che riguardassero le sue vicende giudiziarie, sia gli abusi edilizi compiuti nella sua casa in Sardegna, la «casa abusiva delle libertà»!
Tre delle quattro formazioni politiche che costituiscono questa maggioranza non hanno preso parte alla scrittura della Carta costituzionale, il patto che i cittadini italiani hanno stretto tra di loro in nome della libertà, dei diritti fondamentali, dell'uguaglianza, della solidarietà. Di essa, di ciò che significhi a voi non importa nulla! L'avete sostituita con il contratto con gli italiani, devo dire una penosa sceneggiata televisiva, soprattutto alla luce di quanto non siete stati capaci di fare, neppure sulle strade tanto sbandierate a cui avete tagliato tutti i fondi, e l'avete sostituita con questo ignobile testo che verrà spazzato via dagli italiani con il referendum.
Bene ha fatto il senatore Mancino questa mattina a ricordare le parole di Calamandrei sulla Costituzione. Esse segnano ancor più nella loro solennità la distanza abissale tra questa vostra avventuristica iniziativa legislativa e quanto fatto dai Padri costituenti. Dovevate essere tutti qua, tutti presenti in Aula; avreste dovuto intervenire, sostenere, difendere, spiegare, rivendicare, applaudire e, se era pur vero che questa fosse una occasione solenne, avreste dovuto sottolinearlo proprio con una presenza massiccia.
A parte il senatore Nania, appena arrivato, non ci sono neppure gli autoproclamatisi "saggi di Lorenzago": vi è il senatore Pastore, ma più per dovere di istituto, di relatore, di presidente di Commissione; ma Calderoli e D'Onofrio che fine hanno fatto? Dove sono? Me lo chiedo, Presidente, perché siamo di fronte ad una questione importantissima; non sono qui tra noi a confortarci con le loro idee, con la loro stessa presenza, perché questo è un passaggio importantissimo per la nostra Repubblica.
Non sono qua però, probabilmente, sono da un'altra parte a fare qualcos'altro, ad occuparsi di quel mercimonio di cui ho parlato prima perché questo è il fondamento di questa maggioranza, dell'azione politico-parlamentare di questa maggioranza: il mercimonio, la contrattazione per cui do una cosa a te perché tu ne dia una a me!

Vede, Presidente, sempre rivolgendomi al collega Nania, che è appena arrivato, e agli altri che hanno urlato, quando abbiamo discusso in Aula il testo, la parola magica "antiribaltone", ricordo che in quella circostanza citai un'altra parola utilizzata in un film assai importante che aveva lo stesso magico significato: "supercalifragilistiche spiralidoso". Lo ricorderanno i colleghi che hanno la mia età; quella sembrava la parola capace di risolvere in quel musical tutti i problemi che si manifestavano, così come la parola "antiribaltone" sembra essere la cifra di questa riforma costituzionale, come se la norma introdotta di per sé fosse capace di garantire un buon governo per il Paese.
Abbiamo spiegato più volte che questa è una norma sbagliata in sé e che dovevano essere anteposte alle esigenze e alle necessità delle coalizioni e delle alleanze quelle del Paese, dell'Italia.
Abbiamo fatto l'esempio dell'Inghilterra, che durante il periodo bellico vide la sostituzione dell'allora primo ministro Chamberlain con Winston Churchill, senza andare necessariamente alle elezioni, elezioni che sarebbero state drammatiche durante la guerra scatenata dai nazifascisti in tutto il mondo.
Tuttavia voi pretendete e volete con questa modifica della Costituzione che, anche nel caso fossero in gioco gli interessi supremi del Paese, essi debbano essere posposti a quelli della vostra parte. Questo però rappresenterebbe un disastro, posto che ritengo che gli interessi dell'Italia, gli interessi collettivi, debbano prevalere su quelli di parte.
Credo anche che quando pronunciate la parola "antiribaltone" con tanta foga forse intendiate far dimenticare, con il clamore e le grida, il fatto che i primi ribaltonisti siate stati proprio voi. Mi riferisco a quando avete acquistato - perché di questo si tratta - il voto di un collega in questo ramo del Parlamento, un senatore che venne eletto nel Partito Popolare Italiano e che venne prontamente ricompensato con incarichi prestigiosi che ricopre tuttora, per consentirvi di formare il primo Governo Berlusconi. Voi allora non avevate la maggioranza in Parlamento e questo perché non ve l'aveva data il popolo italiano! Ebbene, compraste il voto di un parlamentare sia per eleggere il Presidente del Senato, sia per ottenere la fiducia al primo Governo Berlusconi: ricordiamole queste cose.
Un altro ribaltone venne fatto dalla Lega Nord - noto che non è presente in Aula nemmeno un senatore appartenente a quel partito - quando fece cadere il primo Governo di centro-destra nel 1994, riempiendo di insulti in quella circostanza e ricevendone di altrettanto gravi, il Presidente del Consiglio e l'attuale Vice presidente del Consiglio. Ricordo questo fatto, allora ero alla Camera dei deputati e rammento quel ribaltone cui seguì il Governo Dini. Ebbene, ecco a chi parlate, a voi stessi, parlate veramente a voi stessi!
Anche i due esperti in buchi che fanno parte di questo Governo, mi riferisco a quello che si occupa di tunnel e trivelle, il ministro dei lavori pubblici Lunardi, e quello che invece produce buchi nel bilancio, il ministro Tremonti, fanno parte anch'essi della schiera dei ribaltonisti, essendo stato il primo il consulente principe del ministro dei lavori pubblici del Governo di centro-sinistra, Nerio Nesi, che allora faceva parte dei Comunisti italiani, e il secondo eletto nelle file del centro-sinistra. Come non ricordarlo, anche se questo, più che ribaltonismo, potrebbe essere tacciato di trasformismo? Ma tant'è.
Ebbene, il secondo, l'esperto di buchi nel bilancio, lo chaperon di Lorenzago, dopo il nuovo imbroglio della legge elettorale, quella con cui pretendete e prevedete di limitare i danni della sconfitta elettorale che incombe su di voi, ha cominciato a parlare di grande coalizione da farsi dopo le elezioni. E allora dov'è la norma antiribaltone, senatore Nania? Voi avete cominciato a parlare prima ancora delle elezioni di ribaltoni da fare dopo le elezioni!
C'è l'onorevole Bondi che dice che questo non si farà mai, salvo poi cambiare idea non appena qualcuno gli avrà suggerito che non si deve intervenire in quel modo. Ma da voi, dalle vostre file, sin dallo chaperon di Lorenzago è partita la proposta di fare il vero ribaltone, che è quello di superare il voto espresso dagli italiani, qualora si creino le situazioni per le quali alcuni settori di questa maggioranza stanno lavorando alacremente, per poter formare un Governo differente, quello sì un Governo ribaltonista!
In questo periodo, cari colleghi del centro-destra, guardate un po' troppo alla Germania, e quindi il proponente di questo ribaltone è lo stesso soggetto che ha tenuto per mano i "saggi di Lorenzago" che hanno prodotto questa vergogna.
Arriviamo a questa vergogna, perché è necessario che spenda qualche parola su questo argomento, anche se lo faranno anche i miei colleghi che interverranno dopo di me. Noi Verdi ci siamo battuti con vigore, lo abbiamo fatto in quest'Aula durante la prima lettura, costantemente con le nostre dichiarazioni, con le nostre ferme posizioni, con i gesti. Voglio dire qui che quando questa vergogna veniva approvata alla Camera, poche settimane fa, il sottoscritto e un altro gruppo di persone, anzi con un manipolo (magari questa parola piace di più ai colleghi di Alleanza Nazionale), è andato a piantare una bandiera tricolore nel prato di Pontida, da dove è partita l'iniziativa contro la Costituzione repubblicana voluta dalla secessionista Lega Nord.
Sono andato lì con i miei colleghi dei Verdi perché intendiamo riaffermare la questione fondamentale che sta a cuore assolutamente a tutti. Nei cartelli e negli striscioni che portavamo insieme a quella bandiera era scritto: «La devolution spacca l'Italia», «La Costituzione difende i più deboli», «Giù le mani dalla Costituzione», «Viva l'Italia unita».
Vi sarebbero potuti stare anche altri, se non fossero coinvolti in quest'operazione che ho definito di mercimonio; quando si fanno leggi che tutelano solamente interessi di una o dell'altra parte siano essi materiali o di potere, i posti e così via, che cosa è se non mercimonio? Sono sicuro che a Pontida non saremmo stati soli, ma ci sarebbero stati anche altri a difendere l'unità dell'Italia, a sostenere che le iniziative nefaste che hanno consentito alla Lega, con il ricatto, di modificare la Carta costituzionale come state proponendo. Non saremmo stati certamente soli; altri ci sarebbero stati perché non è sufficiente dire di aver introdotto l'interesse nazionale quando esso concretamente non compare da nessuna parte.
Non c'è interesse nazionale in questa Costituzione, non c'è perché quello che voi avete introdotto è solamente un vuoto richiamo. Lo abbiamo fatto in quest'Aula, lo abbiamo fatto con i gesti simbolici come quello dell'occupazione del prato di Pontida, lo faremo al momento del referendum. Allora ci impegneremo fino in fondo, nonostante il tentativo che avete messo in atto possa spingere gran parte degli elettori italiani a non andare a votare in occasione del referendum sulla Costituzione, così come abbiamo fatto per le primarie, a portare milioni di italiani a dire no alla vostra vergogna!
Toccherò ora alcuni piccoli aspetti della riforma, cercando di riassumerli tutti; poi, come dicevo, i miei colleghi si esprimeranno in maniera più approfondita sulle sue singole parti.
Negli ultimi anni si è passati dal mito della Costituzione al mito delle riforme costituzionali, considerate come una possibile panacea capace di risolvere ogni tipo di problema dell'ordinamento e della convivenza collettiva. Il riferimento alle disorganiche riforme relative alla Costituzione materiale non prova nulla, se non che si sono commessi degli errori che sarebbe stato meglio non ripetere: perseverare, infatti, è diabolico.
Su questo disegno di legge di riforma costituzionale si sta verificando una presa di coscienza dell'opinione pubblica sulle gravi conseguenze che deriveranno all'Italia e a tutti i cittadini dalla sua approvazione. Avete deciso di cambiare addirittura la forma dello Stato perché alcuni astuti politici, chiamiamoli così (qui sto citando Casavola, è lui che ha usato queste parole, io avrei detto di peggio) hanno messo sul piatto della bilancia la minaccia della secessione e altri hanno scambiato spinte populistiche per interessi progressivi.
Orbene, nei rapporti fra gli organi costituzionali che il testo prefigura vi è qualcosa di più profondo e radicale di un cambiamento della forma di Governo; nel disegno complessivo, il mutamento di quei rapporti è così deciso da determinare un'alterazione degli equilibri di tale portata da incidere sulla stessa forma di Stato.
Il principio maggioritario voi lo avete inteso come illimitato e insofferente di ogni vincolo, incompatibile con la concezione di democrazia accolta dal costituzionalismo occidentale, che prevede robusti argini e contrappesi al potere della maggioranza. L'esito finale della riforma sembra essere proprio l'uscita dallo Stato di diritto democratico (l'hanno detto molto meglio di me tanti colleghi autorevoli stamattina). Non è solo la democrazia, infatti, a risultare annichilita: di essa una parvenza, svuotata di contenuto, in qualche modo rimane; del costituzionalismo, viceversa, non rimane assolutamente nulla, dal momento che l'obiettivo della riforma è esattamente quello di liberare il potere da ogni limite e controllo.
Come è stato sottolineato, vi è una differenza sottile, ma in realtà profonda, fra un Capo dell'Esecutivo che tragga la sua legittimazione da un'investitura personale e che crei attorno a sé una maggioranza parlamentare che lo sostiene, e un Capo dell'Esecutivo che sia investito nella carica in quanto espressione di una maggioranza parlamentare che lo sostiene. È la differenza che corre tra una democrazia tendenzialmente plebiscitaria, fondata sul potere personale, e una democrazia maggioritaria, radicata in un sistema di partiti che riacquistino la funzione costituzionale di strumento attraverso cui i cittadini concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale, secondo il dettato dell'articolo 49 della Costituzione.
Signor Presidente,onorevoli colleghi, signor rappresentante del Governo, noi Verdi manifestiamo tutta la nostra contrarietà nei confronti di questo disegno di legge, contrarietà che non si concluderà con le nostre dichiarazioni di voto, con la nostra azione all'interno di questo Parlamento, ma che si riverserà nel Paese, perché dobbiamo cancellare una vergogna e un'onta che voi, in nome dei vostri interessi, in nome del vostro mercimonio, avete voluto consumare da soli, senza considerare il fatto che le Carte costituzionali… (Richiami del Presidente). Ho finito, signor Presidente.
Le Carte costituzionali, che rappresentano il tessuto connettivo di una Nazione e di uno Stato (e qui non si parla solamente del Titolo V), devono essere condivise da tutti, perché, se così non è, non sono Carte costituzionali, ma sono rappresentazioni degli interessi di una parte! (Applausi dai Gruppi Verdi-Un e DS-U).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Nania, poi interverranno i senatori Villone e Crema; la seduta antimeridiana si chiuderà solo dopo l'intervento del senatore Crema.
Il senatore Nania ha facoltà di parlare.
 
NANIA (AN). Signor Presidente, onorevoli senatori, siamo oggi qui a dibattere uno dei provvedimenti più significativi di questa legislatura e più significativi in generale, perché si tratta di discutere della riforma di uno strumento fondamentale, quello che organizza la nostra convivenza politica, civile e sociale.
La prima cosa che voglio fare, parlando del modo in cui noi abbiamo cercato di procedere in questa vicenda così importante e al tempo stesso così sofferta, è distinguere in maniera molto attenta e significativa tra la riforma di una Costituzione essenziale e la riforma di una Costituzione come la nostra, che, come tutti sanno, è ritenuta una delle più lunghe Costituzioni moderne; anzi, la nostra per definizione è una Costituzione lunga, essendo formata da 139 articoli e 18 disposizioni transitorie e finali.
Come ciascuno di noi, ciascuno di voi sa e come bene intendono i cultori della materia, in un caso del genere è fin troppo evidente che si opera una distinzione fondamentale, che per la verità è contenuta anche nella nostra Costituzione del 1948, tra princìpi fondamentali della Costituzione e parte organizzativa della stessa.
Se non ci si rende conto che in una Costituzione lunga vi è una distinzione di fondo tra valori di base e parte organizzativa, si chiacchiera a vanvera, senza arrivare al cuore del problema. La Costituzione del 1948 è appunto ripartita in Parte I, riguardante i principi fondamentali, e Parte II, dedicata all'ordinamento della Repubblica.
Ebbene, ho fatto questa lunga premessa per evidenziare che in questa riforma ci siamo occupati della seconda parte, senza toccare minimamente i princìpi fondamentali e i valori di base. E ciò lo abbiamo fatto in sintonia con una lunga tradizione del processo riformatore costituzionale italiano che nelle varie Commissioni bicamerali non si è mai occupato, neppure quando il processo costituente è stato avviato con una legge ad hoc, di entrare nel merito della prima parte della Costituzione. Mi riferisco alle varie Commissioni Bozzi, Iotti-De Mita, D'Alema, che - ripeto - non hanno mai toccato i principi fondamentali della Costituzione contenuti nella prima parte. La riforma varata dall'Ulivo nel 2001 ha riguardato la seconda parte della Costituzione e quella proposta oggi dalla Casa delle Libertà riguarda sempre la seconda parte.
Questo passaggio mi sembra significativo perché dimostra chiaramente come la grande proposta della quale ci facciamo portatori altro non è che una proposta che si iscrive nella tradizione del percorso riformatore italiano. Vi è di più. Si tratta anche di un progetto che abbiamo portato avanti cercando di coinvolgere il centro-sinistra. Ho ascoltato con molta attenzione l'intervento del senatore Tonini, che ringrazio per la sua onestà intellettuale e per la verità delle sue affermazioni.
Ebbene, ciò che è emerso da quell'intervento sofferto è una singolare condizione nella quale si trova la politica italiana per la quale se governa il centro-sinistra può fare le riforme della Costituzione, e anche da solo; se invece governa il centro-destra, per forza, per legge, perché diversamente sarebbe reato, le riforme si devono fare insieme.
 
MORANDO (DS-U). Se citi Tonini parla di quello che ha detto Tonini, non di quello che inventi tu.
 
NANIA (AN). Fin qui non ci sarebbe nulla di strano. Il punto è che se non le vogliono fare insieme, non le possiamo fare neppure da soli. Quindi, se governano loro se le fanno da soli, se governiamo noi si devono fare insieme, ma non le vogliono fare insieme, per cui la conclusione è che il centro-sinistra, secondo il "politicamente corretto", dovrebbe decidere in questo Paese quando fare le riforme da solo e quando insieme, mentre l'altra parte dello schieramento politico deve aspettare le decisioni del centro-sinistra e sperare che un giorno il centro-sinistra, pur essendo a favore del Premierato e della Corte costituzionale integrata dai rappresentanti delle Regioni, si decida.
L'ultima menzogna l'ha dichiarata il senatore Calvi poc'anzi quando ha detto che avremmo sconvolto la formazione della Corte costituzionale per via dei rappresentanti dei Consigli regionali e delle Regioni, dimenticando che si trattava di una proposta del centro-sinistra durante i lavori della Commissione bicamerale; tant'è che l'articolo 135 di quella proposta afferma che la Corte costituzionale è composta da 15 giudici: cinque eletti dal Presidente della Repubblica, quattro dalle magistrature, tre - bontà sua! - dal Senato e tre dalle Regioni. La Camera dei deputati kaputt, se non decide il centro-sinistra! Ma se invece siamo noi a dire che la Camera dei deputati, essendo un organo politico, non sarebbe giusto che indicasse i giudici della Corte costituzionale, si scatena la rivoluzione, perché in questo Paese quando le proposte vengono dagli scienziati del centro-sinistra sono sempre gradevoli e buone, quando vengono da quegli zulù del centro-destra non sono mai ragionevoli.
Detto questo, il punto centrale qual è? Noi abbiamo provato a fare le riforme insieme, ma c'è di più anche dal punto di vista del metodo. Ci siamo incontrati in sede riservata - diciamocelo chiaramente, perché alla storia di questo Parlamento deve passare la verità dei fatti - con i colleghi del centro-sinistra, anche perché, e lo faceva intuire ancora una volta il senatore Tonini, noi di Alleanza Nazionale volevamo una forma di Governo semipresidenziale alla francese, e il centro-sinistra ci ha fatto sapere, per le vie brevi, di lavorare invece sul Premierato sul quale sarebbe stata possibile un'intesa.
Abbiamo quindi lavorato sul Premierato e le proposte non sono state avanzate soltanto dal centro-destra. Si partì con due proposte, una presentata dal senatore Malan, l'altra dal senatore Tonini. Si cominciò a lavorare così e allo stesso modo si doveva procedere, fino a quando non è scattata la cosiddetta tesi dello scambio, del mercimonio.
Le nostre proposte, inoltre, le abbiamo portate avanti dopo averle poste all'attenzione dell'opinione pubblica, prima delle elezioni del 2001. Abbiamo cioè detto pubblicamente - per la verità l'ha detto anche l'Ulivo, sia nel 2001 sia nel 1996 - che se avessimo vinto le elezioni avremmo creato un sistema di elezione diretta da parte dei cittadini, inserito una norma antiribaltone e realizzato una devoluzione unitaria. L'abbiamo detto e gli elettori ci hanno votato.
Dopo di che al Senato è cominciata questa lunga vicenda, ed è iniziata con una proposta di Bossi limitata alla devoluzione, votata ed approvata dal Senato e dalla Camera. Interlocutori di autorità del centro-sinistra ci hanno nuovamente fatto sapere che non si poteva andare avanti così, che bisognava fare una proposta più globale. Quindi l'UDC ha sollevato il caso, dicendo che non si poteva approvare solo l'articolo sulla devoluzione, ma bisognava presentare una proposta di riforme più articolata, più complessa, più significativa e più organica.
Dunque, contrordine compagni! Abbiamo ricominciato e presentato un altro disegno di legge costituzionale, abbandonando la proposta iniziale che già aveva superato i primi due passaggi parlamentari e abbiamo ripreso l'iter, sperando di poter finalmente lavorare su questa riforma complessiva anche con il centro-sinistra.
Attenzione, mi sto riferendo all'inizio della legislatura, quattro anni fa. Perché mentre noi siamo rozzi e incolti, e proviamo a chiedere ai colleghi del centro-sinistra di dare una mano, loro non lo fanno. Quando, nella scorsa legislatura, è arrivato l'ordine di approvare a tutti i costi la riforma, immediatamente con la tecnica del blitz, con la tecnica del "detto fatto", hanno presentato il relativo pacchetto di proposte alla Camera. E colgo l'occasione per dare il benvenuto in quest'Aula al collega, senatore Napolitano, a nome di tutti i colleghi di Alleanza Nazionale.
Alla Camera si è discusso della proposta del centro-sinistra però, attenzione, presidente Dini, se n'è discusso solo alla Camera. Nella storia del Parlamento italiano, infatti, si registrerà che in occasione del progetto di riforma di 20 articoli della Costituzione portata avanti dal centro-sinistra, il dibattito in quest'Aula non ebbe luogo, ma ci fu soltanto alla Camera dei deputati.
Si è discusso su quella riforma, dopo di che, siccome bisognava fare presto, si utilizzò la tecnica del "detto fatto" o del blitz, perché bisognava impedire l'accordo politico della Lega con la Casa delle Libertà. Al Senato è pervenuta la riforma approvata dalla Camera alla quale non sono state apportate modifiche, non è cambiata una virgola perché i colleghi del centro-sinistra allora non sarebbero riusciti, con la doppia lettura, a presentarsi in tempo per lo scioglimento delle Camere.
Quindi, una riforma della Costituzione, della parte fondamentale dei nostri valori cui tutti quanti, piangendo, si dichiarano attaccati, che si discute solo alla Camera e, sulla quale il Senato della Repubblica non si pronuncia, votando la riforma così com'è stata approvata dall'altro ramo del Parlamento. La riforma torna poi alla Camera e si vota nuovamente con i tempi contingentati.
Questa è la storia della riforma con il metodo del blitz. È come se, dicessi al collega Bevilacqua qui accanto (così passerai pure tu alla storia di questo dibattito): sai che faccio, Franco? Ti do uno schiaffo. E poi glielo do. Questo è quanto ha fatto il centro-sinistra: detto fatto. Come abbiamo fatto invece noi? Sai Franco, ti avverto, tra cinque anni ti darò uno schiaffo. Ovviamente, chi è avvertito si organizza, si prepara, va in palestra, si irrobustisce e cerca, confrontandosi, di resistere.
Noi, nel 2001, abbiamo cominciato questo lungo processo: dibattiti sulla stampa, dibattiti in televisione, dibattiti in Aula, confronto tra costituzionalisti. Ma ci rendiamo conto da quale lavorio sofferto è stata caratterizzata questa riforma, che proponiamo e che vogliamo con forza sia sottoposta con grande attenzione al corpo elettorale? Un lunghissimo dibattito. Prima, davanti al corpo elettorale abbiamo chiesto: ci date questo mandato, elettori italiani? E ce l'hanno dato. Hanno detto: intavolate la grande riforma. Poi abbiamo detto ai colleghi del centro-sinistra: vogliamo cominciare? E abbiamo cominciato. Stop! Siamo tornati indietro. Abbiamo cominciato in maniera allargata, dibattiamo da quattro anni, che altro potevamo fare? A quel punto, l'unica cosa giusta da fare era quella di cui parlavo all'inizio: siccome loro non sono d'accordo, siccome in questo Paese le riforme si possono fare solo se governano loro (il cosiddetto complesso di superiorità della sinistra), dovevamo fermarci e basta.
Ma questo non è possibile per una grande forza di cambiamento come è la Casa delle libertà, per una grande forza che vuole cambiare questo Paese e vuole cambiarlo in meglio, utilizzando argomenti che vengono dal laboratorio culturale e istituzionale della sinistra. Infatti, le proposte che abbiamo portato avanti nel nostro pacchetto riformatore - e lo vedremo insieme - non sono proposte sulle quali abbiamo il copyright, sulle quali possiamo con ragionamenti affermare l'esclusività della destra o del centro-destra; sono proposte che nascono da dibattiti di lungo periodo e che rappresentano per noi il punto di riferimento, la fonte dalla quale siamo partiti in questo nostro lunghissimo impegno parlamentare.
Come ho detto, prima parte della Costituzione sui princìpi, seconda parte della Costituzione organizzativa. Ci siamo intrattenuti sulla seconda parte della Costituzione e, su di essa, un aspetto che caratterizza in maniera significativa l'impianto è che la Costituzione del 1948 contiene aspetti molto importanti e pregevoli, che consideriamo un punto di riferimento utilizzato nella nostra proposta di riforme, ed una parte, invece, che rappresenta una precisa scelta politica dettata da contingenze storiche che sicuramente, come ormai è abbondantemente dimostrato, oggi sono superate.
Per la parte che riguarda l'aspetto superato della organizzazione dei poteri, mi richiamo a tutta la dottrina e a tutte le posizioni politiche portate avanti contro la democrazia consociativa, contro la democrazia compromissoria, per una scelta diretta degli elettori, o sotto la specie dell'elezione diretta del Capo dello Stato, o sotto la specie dell'elezione diretta del Premier. Questo è un dibattito consolidato, lo do per scontato.
La seconda parte - ed è quella che più ci interessa in questa disputa così significativa, così apocalittica direi, sulla devoluzione - è invece la scelta che ha compiuto il costituente del 1948 di un regionalismo paritario e unitario (attenzione, perché su questo aspetto voglio concentrarmi molto, in quanto è la parte che c'è, rispetto soprattutto alla parte che manca), che è la scelta diretta di chi governa e le norme antiribaltone.
Come era concepita la Costituzione del 1948? Essa era concepita con il principio della sovranità unica dello Stato, che devolveva alle Regioni. Attenzione, devolveva, perché la devoluzione, purtroppo per Bossi e per la Lega, non l'hanno inventata né Bossi, né la Lega. La devoluzione è un concetto semplicissimo: che cosa vuol dire "devolvere"? Una persona "devolve in beneficenza": se "devolve", è perché ha. Uno ha e dà. Che cos'è la devoluzione? La devoluzione non è altro che il metodo con il quale lo Stato, che ha, dà.
La Costituzione del 1948 vedeva uno Stato centralista e unitario, che aveva tantissime cose, alcune delle quali le ha date alle Regioni. Cosa fa la Costituzione del 1948? Prevede la devoluzione (della quale tanto parliamo perché il centro-sinistra, che non ha cultura autenticamente unitaria, ma che per l'uso politico che deve fare dell'argomento, così come ha fatto una riforma per bloccare la Lega nel 2001, oggi ne vuole fare un'altra, oggi ci attacca su questa riforma per sostenere il potere ricattatorio della Lega).
Infatti, nella Costituzione si afferma che il Parlamento esercita la funzione legislativa e poi, nel vecchio articolo 117, che «La Regione emana per le seguenti materie norme legislative (…)». Quindi, attenzione, si dice che il potere legislativo appartiene al Senato della Repubblica e alla Camera dei deputati, mentre le Regioni emanano norme giuridiche in alcune materie.
Come cambia questa norma nella Costituzione attuale, dopo la riforma del centro-sinistra? Questo è il punto centrale dal quale partire per capire lo strappo che nella Costituzione del 1948 è stato effettuato dalla riforma attuale.
Nella vecchia Costituzione vi era una sola sovranità, quella dello Stato, mentre le Regioni potevano emanare delle norme giuridiche su alcune materie devolute dallo Stato, come beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria e ospedaliera; fiere e mercati; polizia locale urbana e rurale; turismo ed industria alberghiera; tramvie e linee automobilistiche d'interesse regionale; viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale; caccia; agricoltura e foreste; pesca, eccetera, eccetera: come si capisce, cosucce.
Quindi, in sostanza, la Costituzione del 1948 diceva: io Stato ho tutto, alcune materie le devolvo alle Regioni, si tratta di cosucce, ma, attenzione, in queste cosucce voi Regioni potete emanare delle norme sempre che non siano in contrasto con l'interesse nazionale.
Pertanto, nell'impianto della Costituzione del 1948 tutto resta allo Stato, alcune materie elencate tassativamente alle Regioni, le quali comunque non possono fare ciò che vogliono, ma possono emanare norme che non devono essere in contrasto con l'interesse nazionale. Quindi, c'era una devoluzione regionale unitaria e paritaria; unitaria perché unico sovrano era lo Stato che concedeva le materie; paritaria, perché tutte le Regioni, ad esclusione di quelle a Statuto speciale, avevano le medesime competenze.
Arrivano gli scienziati del centro-sinistra, i democratici del centro-sinistra, gli antileghisti del centro-sinistra, gli unitari del centro-sinistra, e cosa fanno? Rispetto alla Costituzione del 1948, dove lo Stato ha e dà alle Regioni, attuano il rovesciamento dell'articolo 117 per cui le Regioni hanno tutto e si lasciano allo Stato alcune materie. Arriviamo al capovolgimento totale: lo Stato trattiene soltanto alcune competenze elencate tassativamente, le Regioni hanno tutto il resto.
Quindi, mentre con la Costituzione antifascista del 1948 - della quale i colleghi del centro-sinistra si riempiono la bocca - alle Regioni andavano solo alcune competenze ("io Stato riconosco a te Regione solo la competenza su alcune materie, in cui puoi emanare norme giuridiche se non violi l'interesse nazionale"), il centro-sinistra con la sua secessione mascherata capovolge il principio ("noi Regioni prendiamo tutto, a te Stato lasciamo alcune materie di competenza") ed elenca le materie di competenza statale, sostituendo, con il nuovo articolo 117, alla sovranità statale la sovranità regionale. Si aggiunge, poi, colleghi del centro-sinistra (guardate che bellina questa norma sempre contenuta nel nuovo articolo 117 della Costituzione): «Spetta la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente elencata nel primo comma dell'articolo 117».
Tutte le materie non elencate nel primo comma (che fissa la competenza statale) competono alle Regioni. Questa in termine tecnico si chiama potestà residuale, ovvero tutto ciò che compete allo Stato è esplicitamente elencato ed è espressamente indicato, tutto ciò che non è elencato, né indicato appartiene alle Regioni. Questo è il rovesciamento dell'articolo 117, che ha determinato la crisi nella quale ci troviamo.
Senatore Tonini, faccia questa domanda al collega Angius, quando svolgerà il suo intervento: con la Costituzione attuale, a chi compete il governo della sanità? A chi compete il governo della scuola? A chi la polizia locale?
 
MORANDO (DS-U). Con la vostra proposta non si capisce più niente, prima era chiaro.
 
NANIA (AN). Prestiamo attenzione a questa domanda, che è molto importante e significativa: lo vediamo adesso, ma soprattutto lo abbiamo visto in passato, che mentre si elaborava questa riforma con i decreti Bassanini si aboliva il Ministero della sanità, trasferendo la sanità alle Regioni. Il Ministero della sanità, in tal modo, non aveva più alcun senso. Per avere un Ministero non più della sanità ma della salute, il Governo Berlusconi - dopo aver vinto le elezioni - ha dovuto emanare un decreto, perché la sanità, in base alla riforma dell'Ulivo, è passata interamente alle Regioni.
Chi su questo punto avesse dei dubbi può leggersi un'interessante sentenza della Corte costituzionale, che si è occupata del problema sanità con riferimento agli asili nido, materia contenuta nella legge finanziaria del 2002. Il 5 novembre 2004 la Corte costituzionale ha deciso su questo tema e sui giornali si scriveva: «Consulta, finanziaria bocciata su asili nido nei luoghi di lavoro. La decisione in materia di sanità spetta esclusivamente alle Regioni e non allo Stato».
Questo lo sanno tutti. Chi può dire che un concorso nella regione Emilia-Romagna lo bandisce Berlusconi? Che il primario di un ospedale lo nomina Berlusconi? Che il manager lo nomina Berlusconi? Lo sanno tutti i cittadini che fanno la fila e che impattano con il sistema sanitario che il Governo centrale non c'entra niente. Eppure c'è una persona, di nome Fassino, che a "Porta a Porta" afferma: «Vogliono fare 21 sistemi sanitari nazionali». Siamo arrivati al punto che si sostiene con la massima naturalezza la menzogna (alla Celentano, diremmo che è rock, tanto nessuno può verificarla, nessuno può immediatamente contrastarla, perché è tumultuosa e non si capisce, mentre la verità è lenta, inesorabile ed inarrestabile).
Il referendum lo dobbiamo fare, ma il centro-sinistra dovrà spiegarci (ricordo quanto è accaduto al ministro Storace con la famosa pillola antiabortiva RU 486) come il Ministro della salute può intervenire per evitare casi spiacevoli.
Occorre, intanto, precisare che la ricerca scientifica compete alle Regioni: con la legge secessionista dell'Ulivo si è attribuita loro non solo la sanità, ma anche la ricerca scientifica. Sono preoccupatissimo; questo vuol dire, per esempio, che una Regione può stabilire che alla manipolazione genetica possa ricorrere soltanto chi è alto 170 centimetri, per cui io sarei tagliato fuori, considerati i miei 160 centimetri.
Nella Costituzione dell'Ulivo la ricerca scientifica appartiene alle Regioni, e questo produce evidenti differenze, tant'è che alcune prevedono la ricerca sulla pillola, mentre altre no. Se il Piemonte, che è di centro-sinistra, vuole portarla avanti lo può fare. La Regione governata dal centro-destra invece non è d'accordo e non lo fa; così abbiamo la Regione sì e la Regione no. Storace può solo intervenire, come Ministro della salute, per controllare; può esercitare il controllo sul farmaco, nel caso in cui la pillola dovesse comportare dei danni alla salute della donna. Quindi un intervento ex post, repressivo, in base a quel trasferimento di competenze pericoloso, che ha rappresentato una disgregazione fondamentale dei diritti unitari del cittadino. A chi appartiene la sanità?
Ma è presto detto; la sanità non è citata tra i compiti dello Stato; si parla soltanto di livelli minimi essenziali, la cui tutela è compito dello Stato. La sanità non è specificata nella famosa norma che leggo: «Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».
La sanità non è elencata espressamente; la sanità è di competenza delle Regioni. Guarda caso, chi ha fatto ricorso allo Stato contro gli asili nido? Chi attacca Storace? Le Regioni di centro-sinistra, che dicono: la sanità è mia e me la tengo io. Tu, Stato, non puoi intervenire!
Vi sono presidenti di Regione come Errani che, in un dibattito libero, dell'Italia democratica, organizzato da Augias su RAI 3, ha sostenuto che era lo Stato a volere e ad avere la sanità, questo in presenza del collega Manzella (era un dibattito molto confrontato!). Per il centro-destra a difendere le ragioni della riforma federalista era presente il nostro presidente Domenico Fisichella! Questi sono i dibattiti, secondo la libertà del centro-sinistra. Ne lascio immaginare il contenuto.
La seconda domanda è la seguente: a chi appartiene la scuola, con la riforma dell'Ulivo? Errani, che si è permesso di entrare nel merito della gestione scolastica, ha fatto ricorso contro la Moratti. Questo perché la potestà è residuale, su tutta la materia. Attenzione, con la riforma dell'Ulivo tutta la materia sanitaria e quella scolastica è di competenza delle Regioni, ma la riforma fa qualcosa di più grave: fa una distinzione tra scuola ed istruzione. E guardate cosa scrive l'Ulivo nella propria riforma: intanto non mette la scuola tra le materie di competenza dello Stato; quindi per la norma sulla competenza residuale, sulla quale la Corte costituzionale ha già abbondantemente deciso, quella competenza va alle Regioni. Guardate invece cosa si lascia allo Stato: le norme generali sull'istruzione, di cui alla lettera n). Sempre gli scienziati del centro-sinistra fanno una distinzione tra norme generali sull'istruzione e norme particolari.
Le norme generali sull'istruzione, di cui alla lettera n), sono lasciate allo Stato, ma all'articolo 116, comma 3, si aggiunge che ulteriori forme di autonomia, su iniziativa della Regione interessata, possono essere date alle Regioni che ne fanno domanda su tutta la legislazione concorrente - su cui si parlerà - ma anche con riferimento alle lettere n) ed s) delle materie di competenza dello Stato. La lettera n) concerne proprio le norme generali sull'istruzione. Con la loro riforma, cioè, hanno anche stabilito che la Regione, a domanda se ha i soldi, ex articolo 119, può chiedere allo Stato persino di prendersi totalmente le norme sull'istruzione. Questa è la riforma sull'istruzione, per non dire della polizia locale. Già avevano detto in maniera evidente che lo Stato si occupava solo di ordine pubblico e sicurezza. Non si capiva chi si dovesse occupare della polizia locale.
Riflessione finale sul tema: che cos'è la devoluzione proposta dalla Casa delle libertà? Permette il passaggio da una competenza residuale su tutto, che ha determinato il contenzioso davanti alla Corte costituzionale, ad una elencazione tassativa di ciò che spetta alle Regioni. Per l'Ulivo alle Regioni spetta tutta la polizia locale, la sanità, la scuola. Con la nostra proposta si elenca in maniera tassativa, esplicita ed esclusiva di che cosa si occupano le Regioni. Infatti, non si occupano di tutta la sanità ma, come è bene indicato, dell'organizzazione sanitaria e di altro, così anche sulla scuola e sulla polizia locale perché deve essere soltanto polizia locale amministrativa. Si specifica con quelle norme in maniera esatta, puntuale che su quegli aspetti e solo su quelli, non su tutto, decidono le Regioni.
Eppure ci troviamo ogni giorno a combattere rispetto ad un attacco e all'accusa di voler disgregare l'unità dello Stato. Non è così. Questa devoluzione giova perché risolve il contenzioso davanti alla Corte costituzionale. Ma attenzione, non è così per un altro fatto fondamentale.
All'interno di un trasferimento di materie così forte e così significativo dallo Stato alle Regioni andiamo a stabilire princìpi e criteri certi cui si può fare ricorso per dirimere, in via preventiva e comunque facilmente in via successiva, le controversie.
Si afferma che abbiamo predisposto una riforma nella quale sono state previste tante materie? Ebbene, alcune, quali quelle relative alla sanità e all'istruzione, le riportiamo alla competenza dello Stato; tante altre (oltre dodici) - ripeto - tornano alla competenza esclusiva dello Stato e, in quanto tali, dobbiamo elencarle tassativamente e lo facciamo.
Secondo aspetto importante. Su quelle materie fondamentali le Regioni hanno soltanto alcune competenze e non altre; e non si parli del dialetto perché noi abbiamo una grande cultura della lingua italiana, sappiamo che cosa essa significhi rispetto alla necessità di tutelare l'identità nazionale. A tale proposito desidero aggiungere che nella nostra Costituzione del 1948 nessuno aveva pensato di dirottare e di deviare dalla lingua italiana; in tal senso aggiungo che non è stato il Governo della Lega Nord, ad aver introdotto, riformando la Costituzione italiana nel 2001, accanto al nome della Regione Trentino-Alto Adige - che quindi non si chiama più così - il termine Südtirol. Ripeto, quando fu presa questa decisione al Governo non c'era la Lega Nord e quindi il tedesco ha fatto ingresso nella Costituzione italiana grazie al centro-sinistra!
 
TONINI (DS-U). Anche il francese, nella definizione di Valle d'Aosta, e ce ne vantiamo!
 
NANIA (AN). Stia zitto! E allora, visto che i Costituenti dell'epoca, di cui pure ci si riempie la bocca, i vari Croce e Calamandrei, che evidentemente non si intendevano di queste cose, non avevano pensato ad aggiungere al nome Trentino-Alto Adige anche il termine Südtirol, e questo perché allora i confini della Patria erano sacri e identificavano l'identità italiana, siete dovuti andare voi del centro-sinistra al Governo per scrivere - ripeto - accanto a Trentino-Alto Adige il termine Südtirol e, siccome i valdostani si offendevano, accanto al termine Valle d'Aosta le parole Vallée d'Aoste, e non c'era la Lega al Governo! Ecco perché...
 
MORANDO (DS-U). Sbaglia pronuncia, si dice "d'Aost".
 
NANIA (AN). Siccome non sono un esterofilo ho grandi difficoltà nella pronuncia, all'opposto sono una persona che crede nei dialetti e sono convinto che più si è siciliani e più si è italiani, più si è lombardi più si è italiani, più si è romagnoli più si è italiani, più si è laziali più si è italiani, perché credo che le Regioni siano parte costitutiva dell'identità italiana. Ed allora perché non conoscere il dialetto siciliano così intriso di spagnolo, di arabo e di tante altre lingue, ma così formativo della lingua italiana?
Lo stesso si può dire per il dialetto toscano, per quello veneto e piemontese. Ci si deve vergognare di avvicinarsi a quello che viene da altre culture e non a quello che rappresenta la nostra radice e i dialetti rappresentano la radice di quel grande dialetto che è il dialetto italiano che diventa lingua perché mette insieme tutti i dialetti unendoli con il sangue, con il valore, con la cultura, con i progetti, con il destino. Eppure si assiste ad un attacco contro i dialetti.
 
BUDIN (DS-U). Grazie per la lezione di filologia.
 
NANIA (AN). Avviandomi alla conclusione, vorrei anche sottolineare che il processo di moltiplicazione dei centri di potere è stato sempre descritto come un grande elemento della democrazia moderna. Alcuni si chiedono come mai noi di Alleanza Nazionale abbiamo scelto di "approfondire" questi aspetti e ci siamo aperti a questa cultura del dislocamento plurale dei soggetti istituzionali, anche perché, diciamocelo francamente, non si può non osservare quanto succede, né quella che è la linea di tendenza delle democrazie che funzionano, ovvero una distribuzione dei centri di potere in più punti del sistema.
Le democrazie moderne in questo senso vengono da alcuni definite polifunzionali, policentriche, altri addirittura poliarchiche. Lo vediamo anche noi nell'ambito dell'elezione diretta del sindaco, del presidente delle Regioni, delle autorità di garanzia, rispetto al ruolo sempre più forte dei media, al ruolo dei sindacati, della finanza, delle lobby, e quant'altro. Il punto è che è certo che nelle democrazie moderne emerge chiaramente una molteplicità di poteri.
Ebbene, questa è la nostra risposta a tale quesito. Nel 1948 avevamo una Costituzione che ci garantiva contro qualcuno, mi riferisco al pericolo della dittatura, del bonapartismo, pericolo che il sistema democratico si potesse rompere in favore del primo Ministro; ciò richiedeva una serie di poteri finalizzati a garantirsi da qualcuno. Mi riferisco ad esempio ai poteri del Capo della Stato, quello di nomina, di controllo, di partecipazione, di scioglimento delle Camere, sentiti i Presidenti di Camera e Senato, mettendo fuori campo il Governo.
Ma questo succedeva proprio perché dietro avevamo il fascismo e la democrazia del '48: le democrazie precedenti correvano il rischio della china autoritaria, perché esse si potevano rompere al centro. Erano democrazie centraliste: lo Stato centralista si rompe al centro e quindi è normale che esso trovi nel Capo dello Stato un elemento di garanzia contro il Primo Ministro.
Pongo un quesito: dopo cinquant'anni, rispetto all'attuale dislocazione dei poteri, rispetto al moltiplicarsi dei centri di potere e di governo, rispetto a queste democrazie che dimostrano chiaramente come i cittadini partecipino a più livelli (sul piano sociale, scolastico, culturale, istituzionale), oggi un sistema politico moderno, una democrazia autorevole e forte, ma forte davvero, garantisce contro qualcuno o garantisce contro qualcosa? Ecco il quesito di fondo e l'anima, il cemento, della nostra grande proposta di riforma costituzionale, ciò che manca perché non ci poteva essere nella Costituzione del '48.
Diciamolo francamente: la devoluzione l'hanno fatta loro, noi abbiamo solo corretto quei guasti e quelle assurdità, noi abbiamo un po' aggiustato lo strappo che avevano realizzato. (Brusìo in Aula. Richiami del Presidente).
Cosa manca in questa Costituzione? Di che cosa hanno paura? L'onorevole Violante ha fatto un intervento alla Camera, proponendo di stralciare la parte che riguarda l'elezione diretta e di discutere della devoluzione. Certo, perché lo sanno che non è quello il versante del cambiamento: l'hanno stravolta loro la Costituzione, noi stiamo cercando soltanto di ricomporre il quadro su quel versante.
La forte novità è invece costituita dal fatto che il voto dell'elettore non può essere tradito, perché i ribaltoni non si possono più fare. La forte novità è che il cittadino italiano, di Bolzano come di Siracusa, è messo in condizione, se passa questa riforma, di scegliere con il proprio voto chi lo governerà: è questa la novità. Allora il sistema deve garantirci contro qualcosa: qual è il pericolo per una democrazia moderna, che ha cento, mille, milioni di centri di potere? Il pericolo è la disgregazione, è che ogni parte se ne vada per conto proprio.
Rispetto a questo pericolo proprio delle democrazie moderne, noi realizziamo due fatti fondamentali, che sono l'anima della nuova Costituzione: un processo verso il basso, con il federalismo unitario e paritario, che abbiamo realizzato grazie alla Lega (e questo dobbiamo avere il coraggio di dichiararlo), e al tempo stesso un ritorno verso l'unità del Paese, che avviene attraverso l'elezione di chi governa. Un avvicinarsi ai cittadini attraverso il federalismo e un tornare al centro: un effetto che va verso il basso e uno che verso l'alto.
Questo è il senso della grande proposta, del grande progetto che noi portiamo avanti, per una Costituzione che non garantisca contro qualcuno, perché non c'è più il pericolo del bonapartismo, ma che garantisca contro qualcosa: la disgregazione, la possibilità che ogni potere se ne vada per conto proprio. (Applausi dai Gruppi AN e FI e dai banchi del Governo. Congratulazioni. Applausi ironici dal Gruppo DS-U).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Villone. Ne ha facoltà.
 
VILLONE (DS-U). Signor Presidente, dopo gli entusiasmi del collega Nania, dirò invece che si svolge oggi, in quest'Aula, l'ultimo atto di una farsa istituzionale, che occasionalmente assume la veste di un'ampia riforma della Costituzione. Qualche collega del centro-sinistra diceva prima di vivere questo giorno con amarezza. Condivido questa espressione. È un giorno amaro, soprattutto per chi come me è nato con la Costituzione del '48, ha iniziato il suo percorso professionale e scientifico studiando i lavori di quella Costituente e quindi ne ha toccato con mano la grandezza, ne ha respirato l'aria. (Forte brusìo in Aula).
 
PAGANO (DS-U). Presidente, c'è troppo brusìo, dopo lo storico intervento del senatore Nania, in perfetto italiano. (Richiami del Presidente).
 
VILLONE (DS-U). Un giorno, questo, che misura la differenza tra il confronto che diede vita al patto costituzionale del '48 e i vertici di maggioranza che invece, nottetempo, hanno scandito il percorso di questa riforma.
Mi riferisco ai vertici che producevano le proposte poi portate in Aula e votate da una maggioranza inscalfibile e blindata, senza possibilità di confronto (com'era ovvio, visto che il risultato di un vertice non si può poi evidentemente toccare). Si è trattato di vertici in cui sono stati consumati tutti i possibili reciproci veti e ricatti di una maggioranza in cui per prima la Lega, e poi gli altri componenti, hanno imposto ciascuno il proprio pezzo e aggiunto il proprio vagone. Un vestito di Arlecchino, una somma di reciproche debolezze, alla quale le opposizioni non hanno voluto - né avrebbero potuto, del resto - aggiungere un pezzo, giustapponendolo agli altri.
In Commissione il collega D'Onofrio ha teorizzato la Costituzione di maggioranza, domandandosi: ma non ha forse la maggioranza il potere di rivedere la Costituzione? Certo che ce l'ha, come costituzionalista il collega D'Onofrio lo sa bene; ma sa anche che, se si vuole ottenere una Costituzione durevole, stabile, se si vuole davvero costruire una casa comune, allora non si procede a colpi di maggioranza.
Per questo io oggi, per esempio, sostengo nel centro-sinistra che si deve evitare di andare alle elezioni con una proposta elettorale di Costituzione del centro-sinistra. Per non trovarci domani noi nella stessa condizione in cui si è trovata questa maggioranza, la quale, avendo portato una proposta nella campagna elettorale - in specie, la devolution - ci si è trovata poi inchiodata, sotto il ricatto di una crisi di Governo, e ha quindi impedito il confronto parlamentare che sarebbe stato utile e necessario.
Il nostro è un contrasto che abbiamo posto in essere, signor Presidente, per il metodo; ma anche per il merito, perché, anche se vogliamo dimenticare il modo scellerato in cui la proposta di riforma è nata, rimane la considerazione che, nei contenuti, si tratta di una proposta priva di qualsiasi pregio. Non solo perché astrattamente è incostituzionale, essendo lesiva dei limiti del potere di revisione della Costituzione, che è un potere costituito, ma anche perché è una Costituzione sbagliata, inadeguata rispetto alle domande di oggi, una Costituzione che nasce da una lettura insufficiente delle condizioni storico-politiche del momento attuale e degli scenari di un futuro possibile.
Esporrò ora solo per cenni le mie considerazioni, perché più volte abbiamo discusso il tema, in quest'Aula e fuori.
Sulla forma di governo, il complesso delle scelte fatte si incardina intorno alla figura del Primo Ministro, che giustamente Leopoldo Elia ha definito Primo Ministro assoluto. Il Parlamento risponde al Governo e non viceversa. Secoli di storia e di evoluzione politico-istituzionale d'Europa vengono gettati nel cestino. Il potere di scioglimento è nelle mani del Primo Ministro e lo rende padrone della Camera politica. Né è temperato della sfiducia costruttiva, che è un vero e proprio meccanismo truffaldino, un imbroglio costruito per non funzionare, perché è fatto in modo tale che basta il Primo Ministro con pochi sodali a produrre una condizione nella quale sia impossibile schiodarlo dalla poltrona.
In realtà, si tratta di un modello basato sul principio dell'uomo solo al comando. Questo già di per sé è una rottura dello schema di equilibrio istituzionale proprio dell'attuale Costituzione. Ma soprattutto vorrei qui sottolineare che è un modello che non funziona. Ce lo dimostra l'esperienza di questi ultimi anni. E se i colleghi del centro-destra fossero capaci di studiare e, forse anche senza studiare, di capire quel che accade, se ne dovrebbero accorgere. Proprio il centro-destra in realtà ci ha mostrato in atto, in questi ultimi anni, il modello dell'uomo solo al comando. Abbiamo avuto un Primo Ministro che era, perlomeno nella sua fase iniziale, una sorta di padrone delle ferriere, un padre-padrone; se non era l'uomo solo al comando lui, chi sarebbe mai l'uomo solo al comando? Il Padre Eterno in prima persona, a quel punto? Eppure vedete che alla fine non ha funzionato: avete una maggioranza rissosa; vi siete spaccati in tantissimi pezzi; e, soprattutto, non riuscite a portare avanti le vostre politiche.
Avete assistito a casi evidenti in cui le scelte del Governo sono state contrastate da manifestazioni popolari. Questo è accaduto a livello nazionale e locale: a Scanzano, succede adesso con la TAV, è successo con gli agricoltori, è diventato ad un certo punto uno sport nazionale bloccare le autostrade, i treni; è successo anche per i rifiuti.
Allora, non vi viene il dubbio che sia il modello che non funziona? Anche a livello regionale e locale, abbiamo già lo schema dell'uomo solo al comando. A livello nazionale lo abbiamo avuto di fatto con Berlusconi, a livello regionale e locale con le riforme introdotte. Né qui, ne lì ha funzionato. Chi ha occhi per guardare, vede le risse continue, vede i Consigli che si dissolvono nei contrasti quotidiani, che rimangono in piedi solo per attaccamento, non certo al Paese, ma alle poltrone.
Non funziona il punto dell'investitura popolare. Non produce buon governo, anzi non produce governo, senza aggettivi. Voi stessi esprimete un paradosso: ai minimi del vostro consenso nel Paese, ma in virtù dell'antica investitura di anni addietro, imponete al Paese scelte lontanissime dal consenso popolare, come voi ben sapete.
Questo sarebbe il modello che funziona? Mi permetto di dubitarne. Questa è una concezione rozza e limitata, che non percepisce l'impossibilità e l'inutilità di introdurre in società sempre più complesse meccanismi semplificati e inidonei a governare tale complessità. Un'insufficienza aggravata e non certo corretta dall'indebolimento complessivo del sistema di check and balances che si riscontra nella vostra proposta.
Sulla forma di Stato, il collega Nania ha ripetuto che la prima forzatura l'abbiamo fatta noi del centro-sinistra con il Titolo V. Ha ragione, l'ho già detto più volte e lo voglio ripetere in questa ultima tornata. Fu un errore dovuto essenzialmente alla pressione del popolo degli amministratori che, come sa bene il collega Nania, ha visto compattamente uniti in un'azione lobbistica gli amministratori della sinistra, del centro e anche della destra. Fu un errore non resistere a quella pressione, e non solo per il metodo - perché ne venne alla fine una forzatura - ma anche per il merito.
Non fu - quella - una riforma volta a costruire le istituzioni di un Paese moderno e competitivo. In questi ultimi anni, in economia ci siamo fatti trascinare dal concetto che "piccolo è bello". Poi, all'improvviso, ci siamo trovati privi di grande industria come punta avanzata del sistema economico produttivo. Le nostre aziende sono troppo piccole, e sono a rischio di essere mangiate dai cinesi. Allo stesso modo si è fatto nelle istituzioni.
Non sempre piccolo è bello. Il mondo di oggi non è, da questo punto di vista, né quello del 1948, né quello di venti anni fa. Oggi la competizione in un mondo globalizzato non consente di puntare sul "piccolo è bello", né in economia né nelle istituzioni. Negli Stati federali, il punto vero in questione oggi è la capacità dello Stato di fare politiche nazionali/federali forti, per garantire la competitività sul piano globale del sistema Paese. Questo è il problema che oggi si affronta nella Repubblica federale tedesca; questo è il problema che si è posto e risolto da lungo tempo negli Stati Uniti; come è accaduto in Canada, in Australia e in tutti i federalismi efficienti di questo mondo.
La questione vera di fronte a noi in questa legislatura era come correggere il Titolo V, introducendo un chiaro principio di supremazia statale per le politiche oggi necessarie alla competitività e all'eguaglianza dei diritti, e semplificando radicalmente un impianto troppo complesso e barocco.
Colleghi del centro-destra, potevate prendere questa bandiera. Non solo non lo avete fatto, ma avete aggravato la condizione attuale con la devolution. Non valgono le considerazioni del collega Nania. Ricordo che in Commissione la prima volta che abbiamo discusso la proposta leghista di devolution, ho chiesto al relatore D'Onofrio se sarebbe stato poi possibile prevedere un Piano sanitario nazionale, una volta approvato questo testo. La risposta è stata: ovviamente, no. E in questa impossibilità, volta agli egoismi territoriali e al sacrificio dell'eguaglianza nei diritti, si riassumono tutti i motivi della nostra contrarietà.
Né avete avanzato, con l'interesse nazionale, alcuna soluzione efficace. Proponete un meccanismo complicato, inefficiente e sostanzialmente inutile. In realtà il punto non è difendere l'interesse nazionale contro l'attacco di qualcuno - le Regioni - ma assumerlo come fondamento di politiche attive e forti da parte dello Stato centrale. (Richiami del Presidente). Ancora un minuto, signor Presidente, e concludo.
Penso che la vicenda di questa riforma ci insegni prudenza ed umiltà. D'ora in poi, attenzione a non farsi inchiodare addosso l'etichetta di saggio: si rischia di rimanere consegnati al sempiterno ludibrio dei posteri. Attenzione a non cadere in un semplicistico schema di decisionismo istituzionale, che non coglie le complessità di una società articolata e mutevole, fondata su uno scambio di informazioni più veloce e intenso di qualunque altro momento della storia. Attenzione a non capire che questa società ha bisogno di più politica e di più flessibilità istituzionale, che faccia spazio a quella politica, e non di rigide ingessature fatte di regole non sostenibili. Attenzione a non cogliere che oggi una Costituzione deve essere strumento della competitività del sistema Paese in un mondo che è, ad un tempo, molto più piccolo e molto più grande che in passato. Attenzione, infine, a non capire che costruendo una Costituzione si deve guardare al futuro, imparando dall'esperienza anche di questi anni.
Colleghi del centro-destra, la vostra proposta di riforma è vecchia ancor prima di nascere. La Costituzione del 1948 è, paradossalmente, più moderna e lungimirante della vostra. Per questo la vostra Costituzione si frantumerà contro un compatto volere del popolo italiano. (Applausi dal Gruppo DS-U).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Crema. Ne ha facoltà.
 
CREMA (Misto-SDI-US). Signor Presidente, signor Sottosegretario, onorevole relatore, colleghi, stiamo per consumare l'ultimo atto parlamentare di una modifica di oltre cinquanta articoli della Costituzione e, mi sia permesso, questa volta sì, a colpi di maggioranza.
La maggioranza si sente legittimata perché il centro-sinistra nella XIII legislatura lo fece senza ricercare il consenso dell'opposizione. Questo è falso e siete dei bugiardi, perché non ricordate, non volete ricordare che i parlamentari del centro-sinistra lo fecero perché fu chiesto da tutto il sistema delle autonomie locali: tutti i Comuni, tutte le comunità montane, tutte le Province e tutte le Regioni, indipendentemente dalle loro maggioranze politiche.
Oggi, non ve lo chiede nessuno, proprio nessuno di loro. Ripeto: non ve lo chiede l'UNCEM; non ve lo chiede l'UPI; non ve lo chiede l'ANCI; non ve lo chiedono le Regioni d'Italia. E ripeto qui ciò che dissi giusto cinque anni fa, in dichiarazione di voto alla Camera dei deputati per il Gruppo dei socialisti, quando ricordai che lo facevamo per dovere nei confronti del sistema delle autonomie locali e che per noi era solo uno stralcio, un anticipo della riforma che avremo dovuto completare nell'attuale XIV legislatura.
Proprio per questo, anzi, vi dirò di più: voi siete colpevoli; colpevoli di non aver voluto approvare in Parlamento la proposta del ministro La Loggia, che all'inizio della presente legislatura intendeva dare corso, con legge ordinaria, all'attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione.
Non avete fatto, con la legge ordinaria, la nuova riforma tributaria rendendo così non applicabile l'attuale articolo 119 della Costituzione, e cioè il federalismo fiscale, con tutte le conseguenze di difficoltà, di litigiosità e di inefficienza dell'intero sistema democratico rappresentativo.
Per quanto riguarda le riforme costituzionali, i colleghi della Lega non se ne sono accorti: il presidente Berlusconi ha dichiarato ufficialmente, nelle settimane scorse, che il centro-sinistra, con la riforma del Titolo V, ha dato troppi poteri alle Regioni. Ecco, colleghi della Lega, prendetene atto: quello che abbiamo fatto noi andava nel senso del sistema federale, quello che state facendo voi, lo ha detto in maniera lucidissima il collega Nania, toglierà potere alle Regioni e all'intero sistema delle autonomie locali.
Nella scorsa legislatura, comunque, non abbiamo avuto il timore di promuovere noi stessi un referendum, ai sensi dell'articolo 138 della Costituzione, che abbiamo vinto anche per abbandono del campo da parte vostra. In questa legislatura anche sulla riforma costituzionale la Casa delle Libertà si dimostra terrorizzata dal giudizio della sovranità popolare al punto che l'ultima lettura da parte della Camera e del Senato potevate effettuarla nell'aprile scorso, in quanto erano ampiamente trascorsi tre mesi, invece l'avete tirata a lungo fino ad ottobre alla Camera e ad oggi al Senato perché avete il terrore che si celebri il referendum prima delle elezioni politiche. Comunque, prima o dopo le elezioni politiche il referendum si celebrerà e alla fine sarà il popolo sovrano ad esprimere il suo giudizio definitivo.
È di oggi la decisione della Corte costituzionale che boccia il decreto taglia-spese del luglio 2004 del Governo, che suona come un giudizio di condanna definitivo e inappellabile nei confronti della politica dell'Esecutivo verso le autonomie locali.
Veniamo al merito. La fragilità del testo è dovuta al compromesso tutto interno alla maggioranza, dove ogni sua parte ha incassato un pezzo: la Lega la cosiddetta devolution, AN il ripristino degli interessi nazionali, Forza Italia il Premierato assoluto; l'UDC la legge elettorale proporzionale.
È bene evidenziare che la legge elettorale che verrà in Aula nelle prossime settimane e che stiamo discutendo è in aperta e trasparente contraddizione con lo spirito della riforma costituzionale, con la quale si modifica sia la forma di Governo che la forma di Stato, vengono riscritti e pasticciati i rapporti tra Stato e Regioni, vengono radicalmente riformati e privati di essenziali poteri tutti gli organi di garanzia; anche se formalmente non viene intaccata la prima parte della Carta, le modifiche della seconda parte, volte essenzialmente a personalizzare e concentrare molti poteri nella figura del Primo ministro, incidono pesantemente e sostanzialmente su non pochi princìpi sanciti anche nella prima parte. In questo senso, si può parlare di modifica della forma di Governo che realizza anche la modifica dello Stato.
La concentrazione eccessiva di poteri in capo ad un solo organo, contestualmente all'indebolimento dei poteri di controllo e di garanzia, va ben al di là del pur positivo rafforzamento dei poteri del Capo del Governo, rompendo lo schema classico, non di una semplice democrazia, ma di una democrazia costituzionale, come siamo soliti definire i modelli democratici occidentali.
Il contrappeso a questi enormi poteri del Primo ministro, tra l'altro - ripeto e lo farò anche in occasione dell'esame di quella legge - in contraddizione con lo spirito e la lettera della vostra stessa riforma elettorale proporzionale e di fatto priva di veri vincoli coalizionali, non potendo essere realizzato dal Parlamento e ancora meno dalla tradizionale figura di garanzia del Presidente della Repubblica, dovrebbe nelle vostre intenzioni essere garantito dalla struttura federale dello Stato. Anche in questo caso, però, vi sono solo proclami, intenzioni divisive dell'unità del Paese, un insieme di grave confusione di prerogative e di poteri parcellizzati che sono sovrapposti, ripetitivi e conflittuali. Dunque, confusione e prevedibili sprechi di risorse, credibilità e funzionalità della Repubblica.
Molte sono le autorevoli voci che si sono levate in questo periodo e in questi giorni a manifestare fondate preoccupazioni per le modifiche costituzionali. Oggi sono sorpreso dal silenzio del presidente della Conferenza episcopale italiana, che pure in questi mesi è intervenuto su tante vicende della vita del nostro Stato: dai PACS, all'aborto, al principio della laicità dello Stato, all'esenzione ICI sugli immobili di proprietà della Chiesa.
Avremmo gradito che in questa triste circostanza per i destini della Costituzione egli avesse ripetuto le stesse cose che affermò il 20 gennaio 2004 all'apertura del Consiglio permanente della CEI, parole che scatenarono la reazione dell'allora capogruppo della Lega Nord, Alessandro Cè, che consigliò il cardinale Ruini di parlare il meno possibile e di occuparsi di più dell'ambito spirituale e di meno di quello materiale: «Il percorso riformatore avviato da oltre un decennio deve essere portato a compimento con una visione il più possibile organica e lungimirante, senza mettere nemmeno apparentemente in discussione l'unità della Nazione», un modo questo per esprimere da parte del cardinale Ruini una posizione storica della Chiesa.
Noi socialisti, che da sempre abbiamo difeso la nostra rispettosa autonomia e le nostre battaglie per i diritti civili senza mai cadere in atteggiamenti anticlericali, sottoscriviamo alla lettera questo autorevole pensiero. Gradiremmo, però, che si levasse anche oggi un forte dissenso verso questa riforma, che è la stessa di allora e che rappresenta una ferita lacerante per la nostra Carta costituzionale.
Colleghi della destra - mi rivolgo a chi è rimasto - non è vero che avete reso più snello il procedimento legislativo: al contrario, si determinerà una sovrapposizione di competenze che aumenterà conflitto e competizione tra le Camere, ed il procedimento legislativo diventerà ancora più complesso e difficile.
Ci proponete una devolution che è molto lontana dal federalismo. Quest'ultimo è la capacità di riconoscere autogoverno alle comunità regionali e locali nel quadro di diritti e di opportunità offerte paritariamente a tutti i cittadini. Questo non avverrà con la devolution. Noi passeremo da un sistema sanitario unico, che oggi è gestito direttamente dalle Regioni, a venti sistemi sanitari regionali. Passeremo da un sistema scolastico nazionale unico, che in buona misura vede titolarità di funzione e di responsabilità nel sistema regionale - tanto più dopo la riforma del Titolo V - a venti sistemi regionali. Anzi, venti oggi, perché, sulla base di questa vostra legge, le Regioni potranno diventare più di cinquanta, questa è la demenzialità.
Ciò avviene perché voi riconoscete un diritto di separazione con l'unico criterio che si abbia una dimensione demografica minima di 1 milione di cittadini e, stante che questo Paese ha cinquantasei milioni di abitanti (e forse anche più), voi avrete innestato un meccanismo separatista che determinerà l'ulteriore frammentazione istituzionale dello stato.
Mentre appare sempre più evidente che una politica di sviluppo e di ripresa produttiva impone a livello europeo e nazionale una più forte politica di coesione e una strategia efficace di unificazione economica del Paese, con la normativa indicata in materia di sanità e di istruzione, poniamo grossi macigni lungo la strada dell'eliminazione dei divari storici tra le due Italie. Quella competenza esclusiva delle Regioni, in tema di assistenza e organizzazione sanitaria e di organizzazione scolastica, sembra finalizzata a rendere permanente negli anni il divario tra Regioni ricche e Regioni povere in settori delicatissimi per i cittadini e per il sistema Paese nel suo complesso (cosa che non avveniva e non avviene con la riforma del centro-sinistra del Titolo V della Costituzione).
Né credo che l'asimmetrica competenza esclusiva dello Stato, in tema di norme generali sulla salute e sull'istruzione, di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali possa costituire una garanzia efficace di uguaglianza; sarà solo garanzia di una permanente conflittualità Stato-Regioni.
Vi è da chiedersi, a questo punto, se esista una linea di politica istituzionale della maggioranza che abbia una coerenza e quale sia.
Se ricordiamo le principali iniziative avanzate nell'arco della presente legislatura dal Governo e dalla maggioranza, e cioè dai provvedimenti sulla giustizia a tutela degli interessi del Presidente del Consiglio e dei suoi amici, alla legge Gasparri sui sistemi televisivi - leggi sopra - alla riforma dell'ordinamento giudiziario, alla vicenda del mandato d'arresto europeo, alla presente maxi riforma della seconda parte della Costituzione, non si può negare che esiste una sola precisa ispirazione: quella che si può sinteticamente definire tentativo di demolire alcuni capisaldi della Costituzione del 1947 e cioè di quanto le consuetudini, la prassi, la dottrina, il lavoro interpretativo hanno accumulato e sostenuto nella vita istituzionale in cinquanta anni di storia repubblicana.
È questa la vera carta d'identità politico-costituzionale della coalizione che rende la Casa della Libertà, o delle libertà, in questi temi non alternativa al centro-sinistra, ma ai valori fondanti della Costituzione italiana, ai quali non si contrappone un modello alternativo di sistema politico, ma un coacervo di norme contraddittorie e confuse che rendono impossibile definire una nuova identità nel nostro sistema politico.
Quale giudizio finale, allora, si può o si deve dare? Questa riforma è un irrimediabile pasticcio, che non è in grado di funzionare e che, se approvata, bloccherà il Paese ma che, soprattutto, «scassa» la Costituzione vigente.
Ci stiamo, o meglio, vi state avviando verso una precaria approvazione parlamentare che avrà come inevitabile conseguenza la richiesta da parte nostra di un referendum popolare. Quando ci sarà questo referendum popolare? È difficile immaginario. Adesso è facile pensare che possa essere dopo le elezioni, perché avete dei dubbi voi stessi, direi quasi che avete paura di quello che state approvando e quindi volete lasciare questo tema delicatissimo ad un'occasione successiva a quella del rinnovo del Parlamento.
Noi, però, faremo di tutto perché il referendum possa essere svolto e possa rappresentare il momento in cui il popolo prende coscienza della gravità della riforma che state attuando. Se oggi in Parlamento noi del centro-sinistra siamo sconfitti dai numeri, siamo convinti della forza delle nostre ragioni e proprio per questo chiediamo il voto popolare.
Ciò non deve essere scambiato per una confusa ansia di conservazione: noi vogliamo riformare, noi siamo dei riformatori ma non usando le astute alchimie del Governo, le piccole vanità della maggioranza, distinguendo invece con estrema cura quanto va ripensato a causa delle sue stesse origini da quanto si dimostra tuttora vivo e vitale. Noi vogliamo una modifica autentica, non di comodo, della nostra Carta fondamentale, perché vogliamo una Costituzione specchio del nostro patrimonio culturale e fondamento della nostra speranza. Questa è una ragione vera che ha bisogno di un impegno vero; è quello che noi abbiamo offerto in quest'Aula e quello che chiediamo e chiederemo con il referendum a tutti coloro che credono ancora nello Stato democratico. (Applausi dai Gruppi Misto-SDI-US e DS-U).
 
PRESIDENTE. Rinvio il seguito della discussione del disegno di legge in titolo ad altra seduta.

 

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Speciale "Referendum costituzionale" 2006