Riforme Istituzionali
 
 
Discussione generale Ddl di revisione Costituzionale: Senato - 15 novembre 2005  (seduta del pomeriggio) 
   
Fonte: Senato
(2544-D) Modifiche alla Parte II della Costituzione
approvazione in seconda deliberazione,
con la maggioranza dei componenti
 
 
Donati    -    Zancan    -    Curto    -   Di Siena  -  Donadi   -   Gubert
 
Napolitano    -    Sodano    -    D'Onofrio   -   Dentamaro   -  D'Amico   -   Marino    -   Vitali
 
Castellani   -   Maconi   -   Baio Dossi    -    Legnini   -   Soliani    -   Stanisci  -  Peterlini
 
De Petris    -    Piatti    -    Fasolino    -   Caddeo  -  Basso   -   Gaglione
 
Flammia    -    Vallone    -    Rotondo    -   Bastianoni  -  Cavallaro
 
 
 (2544-D) Modifiche alla Parte II della Costituzione (Approvato in prima deliberazione dal Senato; modificato in prima deliberazione dalla Camera dei deputati; nuovamente approvato, in prima deliberazione, dal Senato e approvato, in seconda deliberazione, dalla Camera dei deputati) (Votazione finale qualificata ai sensi dell'articolo 120, comma 3, del Regolamento)
 
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge costituzionale n. 2544-D, già approvato in prima deliberazione dal Senato, modificato in prima deliberazione dalla Camera dei deputati, nuovamente approvato, in prima deliberazione, dal Senato e approvato, in seconda deliberazione, dalla Camera dei deputati.
Ricordo che, ai sensi dell'articolo 123 del Regolamento, in sede di seconda deliberazione, il disegno di legge costituzionale, dopo la discussione generale, sarà sottoposto solo alla votazione finale per l'approvazione nel suo complesso.
Non sono ammessi emendamenti né ordini del giorno, né lo stralcio di una o più norme. Del pari, non sono ammesse questioni pregiudiziali e sospensive. Sono ammesse le dichiarazioni di voto.
Ricordo altresì che nella seduta antimeridiana il relatore ha integrato la relazione scritta ed ha avuto inizio la discussione generale.
È iscritta a parlare la senatrice Donati. Ne ha facoltà.
 
DONATI (Verdi-Un). Signor Presidente, colleghe e colleghi, rappresentante del Governo, sotto il ricatto elettorale della Lega, la devolution, giustamente ribattezzata "dissolution", è arrivata all'ultimo passaggio parlamentare che, come è noto, ha un carattere esclusivamente formale.
Fra oggi e domani, quindi, Governo e maggioranza si apprestano, in virtù della forza dei numeri di cui godono, ad approvare la loro riforma della Costituzione italiana, frutto della maldestra riscrittura privatistica della Parte II della Costituzione che si è - voglio ricordarvi da dove siamo partiti - consumata nella baita di Lorenzago, grazie all'operosità estiva dei celebri quattro saggi. Si tratta della scrittura di una Costituzione radicalmente nuova, modificata in 49 articoli, e che altera, in maniera sostanziale, di fatto, la stessa Parte I.
E' questa di per sé una violazione dello stesso articolo 138 della Costituzione, concepito proprio, invece, per modifiche puntuali e parziali. Un testo che propone un ibrido che scardina i principi e le regole dello Stato di diritto democratico ed espone il nostro Paese al rischio concreto di una dittatura della maggioranza, o ancor più, come si potrebbe dire, di una dittatura del Premier.
Un disegno di legge che getta al vento il lavoro dei nostri Padri costituenti e dissolve l'intero sistema di equilibri e rapporti fra gli organi costituzionali. Solo per citarne alcuni, riduce sensibilmente i poteri di garanzia del Presidente della Repubblica, trasformato in semplice notaio e smembra l'assetto indipendente della Corte costituzionale. Entrambi, lo ricordo, diventano espressione della maggioranza.
Le Camere sono ridotte ad ostaggio di un Presidente del Consiglio plenipotenziario e le leggi saranno approvate con una sorta di fiducia permanente, entro 30 giorni dalla decisione del Premier di ritenerle fondamentali per il suo programma (non della coalizione, di un Governo e dei suoi Ministri, ma esclusivamente del Premier).
La totale prevalenza del potere del "Capo del Governo" non si spiega neppure con la sostanziale elezione diretta da parte del corpo elettorale: il Primo ministro gode di una serie di poteri assolutamente spropositati rispetto alle tradizioni di qualunque Governo, sia parlamentare che presidenziale e che non ha quindi equivalenti in nessuna forma di Governo, neanche in quella semipresidenziale della quinta Repubblica francese; stiamo parlando ovviamente di sistemi democratici.
La quintessenza della situazione di pericolo in cui siamo piombati è costituita dalla norma sulla questione di fiducia: si esplicita la possibilità di porre, da parte del Premier, la questione di fiducia, da votarsi con priorità su ogni altra proposta, con il solo limite che essa non possa essere posta sulle leggi costituzionali e di revisione costituzionale.
Già nel corso della precedente lettura, qui al Senato, in primavera, è arrivato un testo blindato, non discutibile, da approvare inesorabilmente prima dell'imminente tornata elettorale amministrativa: nessun margine di confronto con l'opposizione è stato possibile e si è tenuta una discussione parlamentare a cronometro, sotto la minaccia delle paventate dimissioni da parte del ministro leghista Calderoli.
Il ricatto ha effettivamente funzionato ed il Senato della Repubblica ha approvato il Senato federale, riducendo se stesso ad una sorta di Camera morta. Un ramo del Parlamento con una inconsueta nuova veste, che non sarà in grado di rappresentare le istanze delle Regioni e non sarà più neppure organo di garanzia ed un utile contrappeso nel procedimento di formazione delle leggi.
Il Senato, infatti, così come concepito da questa riforma, non è rappresentativo nemmeno delle Regioni, essendo inidoneo a garantirne il pieno coinvolgimento nelle grandi scelte del Paese e rappresenta la parte più debole di tutto il progetto, ma anche quella che scardina tutto il meccanismo ed espone a pericoli gravissimi il funzionamento di uno Stato democratico. Si tratta di un Senato, dunque, che ha perso ogni barlume di ruolo di garanzia e di contropotere rispetto all'Esecutivo.
Il problema è, come ha giustamente sostenuto l'ex presidente della Corte costituzionale Casavola, che non si conosce la Costituzione e se la si conosce la si vuole demolire e si danno ad essa colpe che sono invece della classe politica che "non ha voluto organizzare tempestivamente lo Stato delle autonomie", nel timore di veder differenziarsi sul piano politico le diverse Regioni (tra bianche , rosse o nere) ed ora ha "deciso di cambiare addirittura la forma dello Stato" perché "alcuni astuti politici hanno messo sul piatto della bilancia la minaccia della secessione" ed altri, purtroppo, hanno scambiato spinte populistiche per intenti progressivi ed innovativi. Nei rapporti fra organi costituzionali che il testo prefigura, infatti, c'è qualcosa di più profondo e radicale di un cambiamento della forma di Governo.
Nel disegno complessivo il mutamento di quei rapporti è così deciso da determinare un'alterazione degli equilibri di tale portata da incidere sulla stessa forma di Stato. L'esito finale della riforma sembra essere proprio "l'uscita dallo Stato di diritto democratico. Non è solo la democrazia, infatti, a risultare annichilita: di essa resta una parvenza (...) in qualche modo rimane; del costituzionalismo, viceversa, non rimane assolutamente nulla, "dal momento che l'obiettivo della riforma è esattamente quello, come è stato detto, e cito testualmente, di "liberare il potere da limiti e controlli".
Non si è neppure evitato il rischio del comparatismo; al contrario ci si è caduti in pieno, prendendo "pezzi" diversi da alcune forme di Governo, tutte di per sé compatibili con lo Stato di diritto democratico e purtroppo costruendo nel complesso un ibrido che conduce fuori da ogni forma contemporanea di Stato.
Nella passata legislatura, quando fu redatto il testo di riforma costituzionale limitata al solo Titolo V (largamente contestata e non votata, ma fino all'ultimo ampiamente condivisa sul piano politico), non fu inserito l'aggettivo «esclusivo», proprio per evidenziare che la competenza legislativa regionale era certamente esclusiva, ma nei limiti stabiliti dai princìpi fondamentali delle leggi dello Stato e che comunque tale potestà regionale non poteva intendersi nel medesimo significato con il quale si intende quella esclusiva statale.
La nozione "esclusiva" riferita alla potestà legislativa regionale, inserita nel testo, al di là delle dichiarazioni politiche rassicuranti da parte della maggioranza, deve invece intendersi purtroppo come potestà non limitata dai princìpi fondamentali delle leggi dello Stato. Un tale aggettivo, inserito nella Costituzione, darà luogo sicuramente a conflitti interpretativi e al moltiplicarsi dei conflitti di attribuzione che anche adesso, pur con un testo decisamente più chiaro, non mancano.
In estrema sintesi, dunque, il riparto delle competenze, se da un lato fa tesoro della recente giurisprudenza della Corte costituzionale, che intende rendere effettivi i princìpi di sussidiarietà e di leale collaborazione fra gli enti della Repubblica, dall'altro viene contraddetto dall'introduzione della esclusività della competenza legislativa regionale, che implica che il potere centrale viene completamente escluso ed è dunque un formidabile ostacolo alla crescita della sussidiarietà. Ciò desta, tra noi Verdi, preoccupazioni ai più vari livelli in merito ai pericoli per l'unità economica e sociale del nostro Paese derivanti dal trasferimento alle Regioni della competenza legislativa esclusiva.
Un federalismo, che di federale ha solo il nome, insaporito da un autoritarismo mascherato da "Premierato forte", non può che complicare la vita a tutti i livelli istituzionali, inclusi gli stessi cittadini che molto direttamente ne sopportano l'onere economico. Non a caso si sono levate molte voci dissenzienti contro questa parte della riforma, come quelle del Presidente della Confindustria e del Ragioniere generale dello Stato, per non parlare dei rappresentanti sindacali: tutti pongono l'accento sugli effetti destabilizzanti per la società italiana e per la finanza pubblica della paventata riforma.
Un falso federalismo in materia di polizia amministrativa regionale, organizzazione scolastica e sanità aumenterà gli squilibri e le diverse offerte di servizi ai cittadini in un Paese, come l'Italia, che è composito e già oggi presenta situazioni differenziate; in tal modo alimenterà disuguaglianze inaccettabili e creerà i presupposti per la rottura di quel patto di solidarietà a cui tutta la nostra normativa fino ad oggi si è ispirata.
Ricordo che in questo progetto di riforma costituzionale si parla di federalismo, mentre - per paradosso - in realtà norme rilevantissime del Governo Berlusconi sono andate esattamente nella direzione opposta. Ne cito una per tutte: nella cosiddetta legge obiettivo è stato deciso che non cinque grandi opere, ma 250 interventi nel nostro Paese vengano decisi al CIPE con il voto di nove Ministri, senza che sia possibile ascoltare le istanze dei Comuni e delle Province; inoltre, gli unici soggetti titolati ad esprimere un parere sono le Regioni che lo hanno ottenuto, dopo un ricorso avanzato dinanzi alla Corte costituzionale. Come si può notare in questi giorni con la vicenda dell'Alta velocità in Val di Susa, tale procedura evidentemente non funziona; infatti, tagliare completamente fuori le istituzioni locali dai processi decisionali porta alla fine a questi miseri risultati.
In un contesto così complesso e confuso, che ha condotto al fortissimo aumento del contenzioso Stato-Regioni, la Corte costituzionale ha assunto il ruolo, tanto delicato quanto ingrato di arbitro unico di tutti i conflitti di competenza legislativa ed amministrativa insorgenti tra Stato e Regioni. La pronuncia n. 196 del giugno 2004 sul condono edilizio (tema assai caro ai Verdi) è il più eclatante dei tanti esempi che si possono fare e che hanno portato ad una sovraesposizione della Consulta, configurando una sorta di federalismo o regionalismo di carattere giurisdizionale.
Il vostro progetto, accanto ad una contrazione delle responsabilità e del ruolo delle Assemblee parlamentari, porta ad un ancora maggiore sovraesposizione politica di un organo qual è la Corte costituzionale, cosa non richiesta, né gradita, come affermato dallo stesso presidente emerito della Corte Zagrebelsky. Il testo oggi al nostro esame non ha, infatti, purtroppo mutato la preponderante anima politica della Corte, prevedendo ben sette giudici di nomina politica su 15. I rischi di una colonizzazione politico-partitica, che si sperava fossero superati, sono, dunque, riproposti con tutta evidenza.
Con questa controriforma si porta dunque a compimento un progetto che vede la convergenza di due assolutismi: l'assolutismo della politica e l'assolutismo del mercato; l'onnipotenza della maggioranza e l'assenza di limiti alla libertà d'impresa; l'insofferenza per le regole e per i controlli, così nella sfera pubblica come nella sfera economica.
È il rifiuto stesso del concetto di democrazia, della sostanza della democrazia, che implica un patto di convivenza basato sull'uguaglianza dei diritti civili e sociali, i cui i corollari necessari sono il principio di legalità e la separazione dei poteri: su questo patto, di cui una Costituzione dovrebbe essere garante, si fonda la concezione dello Stato sociale, oltre che liberale, di diritto, propria della tradizione europea dalla Rivoluzione francese in poi.
È chiaro però che domani questa maggioranza, anche al Senato, voterà questo testo che dissolve una buona parte della nostra Costituzione. Ma noi sappiamo (e i Padri costituenti l'avevano previsto fin dal principio del nostro Stato di diritto) che abbiamo uno strumento straordinario: impegnare fuori dal Parlamento direttamente i cittadini in un referendum confermativo, contro una riforma sbagliata e pericolosa. Una nuova Carta costituzionale che scardina princìpi e regole dello Stato di diritto democratico ed espone il nostro Paese - come ha giustamente sottolineato Romano Prodi - al rischio concreto di una dittatura della maggioranza, ma, ancor più e ancor peggio, di una dittatura solo del Premier. (Applausi dei senatori Zancan e Gaglione).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Zancan. Ne ha facoltà.
 
ZANCAN (Verdi-Un). Signor Presidente, colleghi, questa maggioranza sta arrivando alla fine, e potrei già fermarmi qui. Sta arrivando alla fine proponendo una riforma della Costituzione che non è una riforma, ma il perseguimento di una propria politica, in particolare da parte di un partito della maggioranza che vuole far prevalere una parodia tragica di qualsiasi corretto federalismo, vuole mascherare i reali problemi del Paese con un'effimera vittoria parlamentare.
Voi non avete presentato, né approverete un progetto di Costituzione: voi vincerete una lotta politica e - lasciatevelo dire - la vostra lotta politica l'avete svolta con l'eleganza costituzionale che potrebbe avere una squadra di lottatori di wrestling.
Voi non capite che cosa è una Costituzione: è tutto il contrario del vostro progetto. Una Costituzione è l'adesione ad un progetto da costruire insieme.
In materia costituzionale, se nella lotta per ottenere un risultato si sconfigge l'opposizione al punto che quest'ultima non partecipa al progetto, chi perde vince e chi vince perde. Avete ricercato la sconfitta dell'opposizione per avere, attraverso un colpo di maggioranza, quel vigore costituzionale che il vostro testo non ha mai conseguito. E mi permetto di ricordarvi l'insegnamento di un grande costituzionalista svedese, secondo il quale le riforme costituzionali si fanno da sobri a valere quando si è ebbri.
Sono convinto che in questo caso sia avvenuto il contrario. Avete perseguito fondamentalmente due direttrici: la prima, di far saltare tutti i contrappesi alla maggioranza ed al Governo, per ottenere una dittatura dei numeri che non è nel nostro sistema costituzionale; la seconda, di demolire l'unità nazionale in forza di un federalismo non autentico, non vero, errato, che è una tragica parodia.
Per dirvi il mio pensiero, nella sintesi di questi ultimi minuti di intervento sul tema, avete massacrato e devastato la Corte costituzionale, quella Corte costituzionale che, secondo una bella definizione di un costituzionalista, è l'antidoto contro la tirannia della maggioranza.
La partecipazione paritetica dei tre poteri era volta ad evitare una tendenziale gravitazione dell'organo di garanzia verso uno di essi. Voi spostate questo equilibrio e non vi rendete conto di quanto ciò sia gravemente nocivo. Sette giudici saranno eletti dalla forze politiche, ma sette - siccome la matematica ha una forza che neppure voi riuscite a contestare - è quasi la metà di quindici, non è l'esatta metà: ne manca mezzo da catturare, magari indicandolo alla Presidenza della Corte.
Questo significa fare strame di un'istituzione che fino adesso ha fatto onore all'Italia. Volete seguire fino in fondo i vergognosi giudizi del Presidente del Consiglio sulle sentenze e sui giudici della Corte costituzionale? Accomodatevi. Il Parlamento sarà così supino pure a fronte della gloriosa storia della Corte costituzionale? Accomodatevi. Ricordo le straordinarie sentenze della Corte costituzionale in tema di diritto alla salute, all'istruzione, in tema di lavoro, di giurisdizione, di diritto degli stranieri, di diritto di difesa, nonchè quelle relative alla cancellazione di tutte le norme fasciste contenute nel TULPS.
Andatevi a leggere quelle sentenze, guardate il cammino compiuto prima di devastare: siete peggio dei lanzichenecchi che andavano con le torce ad affumicare la Cappella Sistina. Perché volete cambiare? Volete dare la Corte costituzionale, organo di garanzia autonomo, indipendente, alto, in mano al potere politico. Volete creare un organo che giudica nei giudizi tra i poteri dello Stato, in particolare nei giudizi Stato-Regione, nominato da quel Senato regionale che ne elegge quattro giudici.
Voi comprendete cosa significhi, rispetto ai rapporti tra Regioni e Stato, istituire un organo di garanzia, di controllo, di giurisdizione, il giudice delle leggi (come viene chiamata la Corte costituzionale), e farne eleggere dal Senato federale parte dei giudici? Ciò significa che una delle parti si nomina i suoi giudici. Lo comprendete?
Il Primo Ministro che, come afferma il vostro nuovo articolo 88, ne assumerà l'esclusiva responsabilità, potrà da solo sciogliere le Camere e io in questa Camera, che voi volete venga sciolta e soprattutto tenuta sotto ricatto dall'arbitrio del Presidente del Consiglio o Primo ministro (ha poca importanza la terminologia che adottate), protesto ed affermo che con questa norma fate strame del Parlamento.
Prevedete quell'assurdo alambicco della mozione di sfiducia da parte dei deputati della maggioranza. Guardate, sto per terminare il mio primo e molto probabilmente ultimo mandato parlamentare, anche se non con grandissimo entusiasmo. Certamente, però, di una cosa sono e rimarrò sempre orgoglioso; di essere stato, ai sensi dell'articolo 67 della Costituzione, un membro del Parlamento che rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.
Creando due categorie, il parlamentare di maggioranza e quello di minoranza, togliete a questa norma il suo preciso significato di rappresentare la Nazione. Un deputato di maggioranza rappresenta le forze di maggioranza, mentre io mi onoro, come tutti i senatori presenti in quest'Aula, di rappresentare la Nazione senza vincoli di mandato.
Devasterete l'unità nazionale attraverso una devolution che creerà un permanente conflitto tra i poteri dello Stato. Colleghi senatori, vi prego di leggere l'articolo 46 del vostro progetto, laddove dite che le Regioni e gli enti locali in genere hanno possibilità diretta di sollevare conflitto dinanzi alla Corte costituzionale. Sapete che cosa significa? Significa che la Corte costituzionale sarà assai più che intasata, sarà sommersa di ricorsi, non potrà più funzionare, perché il filtro di inserire la questione costituzionale all'interno del fatto giudiziario non era una stupidaggine pensata dai nostri legislatori, ma uno strumento per evitare un conflitto che renderà inutilizzabile la Corte costituzionale e che creerà una permanente lotta all'interno del nostro Stato.
Inoltre, sulla base di queste norme relative alla devoluzione, creerete, di Regione in Regione, quei pellegrinaggi veramente poco commendevoli alla ricerca dell'ospedale migliore, della scuola migliore e di un efficiente tutela della polizia amministrativa. Noi non vogliamo pellegrinaggi. Vogliamo che ogni cittadino del nostro Stato sia fiero di ricevere nella propria Regione, dalle Alpi a Capo Passero, per dirla con Pavese, ciò cui ha diritto. Voi, nelle norme transitorie, avete inventato addirittura l'assurdità secondo cui nuove Regioni saranno possibili saltando le procedure di controllo della richiesta del parere delle popolazioni interessate.

Cosa posso dirvi, dunque, a conclusione del mio intervento? Vi posso dire quella che è una realtà obiettiva, ovverosia che il referendum spazzerà via ogni cosa. Noi siamo orfani certamente dei nostri maggiori, quelli che avevano scritto, voluto ed approvato una Costituzione diversa. Siamo orfani di Piero Calamandrei, di Alessandro Galante Garrone, di Norberto Bobbio, ma il loro pensiero è ben vivo e la loro lezione l'abbiamo imparata e la porteremo avanti, di fronte a questa totale incultura istituzionale che trasuda da ogni articolo di questa sorta di legge che presentate al Parlamento per l'approvazione finale.
Voi modificate la Carta costituzionale. La modificate in modo serio e grave, ma noi continuiamo ad essere convinti che, come ha scritto Calamandrei e come più volte è stato detto in quest'Aula (non posso non ripeterlo anche in questo mio intervento), per ricercare la nostra Costituzione andremo sulle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque sia morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità. Noi andremo lì, perché lì è nata la nostra Costituzione. (Applausi dai Gruppi Verdi-Un, Mar-DL-U e DS-U).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Curto. Ne ha facoltà.
 
CURTO (AN). Signor Presidente, profferirò pochissime parole per fare chiarezza sui motivi di polemica che sono stati agitati in queste settimane, in questi mesi, da parte dei colleghi del centro-sinistra. Pochissime parole per rappresentare, con un esempio plastico, come la deformazione della verità ormai costituisca il DNA di una certa parte politica.
Il senatore Zancan, che mi ha preceduto, parlando del sistema delle garanzie per le autonomie locali ha infatti prospettato l'ipotesi di un conflitto permanente (un'espressione molto cara, probabilmente, ad una certa sinistra) tra lo Stato, i Comuni, le Regioni e le Province. Non ha ritenuto, però, il senatore Zancan, di leggere l'intero articolo e quindi di richiamare l'ultimo capoverso, nel quale si fa riferimento al fatto che c'è una legge costituzionale che disciplinerà le condizioni, le forme e i termini di proponibilità della questione, a dimostrazione che ci saranno griglie che non consentiranno a tutti di poter strumentalmente agitare la questione di costituzionalità. Infatti, se così fosse, in effetti apriremmo un varco a coloro che non vogliono il bene del Paese, a coloro che invece vogliono che il Paese continui a vivere in un'irrazionalità assoluta.
Debbo richiamare anche l'intervento di un altro autorevole collega del centro-sinistra. Questa mattina, il senatore Manzella, nel suo intervento, ha parlato della platea dei colleghi del centro-sinistra che sarebbero intervenuti su questo provvedimento definendola sostanzialmente come una sorta di avanguardia politica.
Un'avanguardia politica che tendeva, evidentemente, a raggiungere l'obiettivo di trasferire al Paese tutte le perplessità, tutti i timori, tutte le angosce che una parte politica, che prima di noi aveva proposto la questione del federalismo in Italia, aveva affrontato in maniera sicuramente dissimile rispetto a come ha fatto in questi ultimi mesi.
Non so dire se posso chiedere al senatore Manzella di entrare a far parte di quell'avanguardia politica. Dico solamente che sono tra quei senatori che hanno ritenuto e ritengono di dover intervenire in questo dibattito perché faccio parte di un gruppo, forse non molto nutrito, ma neanche poco consistente, all'interno del centro-destra e, perché no, anche della destra e della stessa Alleanza Nazionale che, in passato, ha avuto molte perplessità riguardo a questo nuovo sistema di struttura costituzionale. E quando in quest'Aula votammo a favore, molti di noi lo fecero - lo dico in maniera assai franca e assolutamente senza alcun infingimento - più che altro perché esistono delle regole politiche all'interno delle coalizioni e dei partiti, in ragione delle quali va adottato un certo tipo di comportamento, che si chiama disciplina di partito, altrimenti si avrebbero l'anarchia e l'individualismo esasperato, cioè l'incapacità di rappresentare princìpi, obiettivi e idee comuni.
Nel passato ho adottato un comportamento di questo genere e ho ritenuto opportuno votare a favore di questo provvedimento, non perché - e lo dico in maniera molto franca - ne fossi estremamente convinto, ma perché questa era la linea politica della mia maggioranza, della mia coalizione e del mio partito.
Mai come in questi ultimi mesi ho ritenuto, invece, di dover necessariamente ripercorrere alcuni momenti della mia particolare formazione culturale, che probabilmente è comune anche a molti di noi. Ho ricordato il periodo universitario, quando per la prima volta mi trovai davanti quella particolare procedura di revisione costituzionale che è il procedimento di aggravamento. In quella occasione, la interpretai come un passaggio inutile, superfluo, come un appesantimento delle procedure che avrebbero portato alla definizione della legge.
Mi rendo perfettamente conto oggi che quel procedimento di aggravamento ci ha dato la possibilità di riflettere di più, di analizzare di più, di convincerci meglio della bontà di un'iniziativa, di un provvedimento di revisione costituzionale, di una riforma.
Evidentemente ci sono situazioni che non possono essere prese a cuor leggero; ci sono questioni, soprattutto quando si tratta di riformare lo Stato, che non possono essere esaurite nello spazio di un dibattito parlamentare, sia pur certamente più ampio rispetto a quello che il centro?sinistra ci ha riservato nella passata legislatura, quando determinò le condizioni e i presupposti per dar vita a un certo tipo di federalismo sicuramente monco, con una maggioranza assolutamente striminzita, violentando la volontà complessiva di questo ramo del Parlamento e creando le condizioni per produrre anche una contrapposizione tra le due Camere.
Debbo, quindi, riconfermare anche in questa occasione, come sia stato assolutamente necessario consentire - come è stato fatto - un dibattito molto più ampio, creando anche le condizioni per rimuovere quelle resistenze di natura culturale, psicologica, sociale e territoriale, che negli ultimi tempi sono state avanzate e agitate come spettri rispetto all'adozione di questa revisione costituzionale.
Oggi il nostro impegno non è solamente votare a favore di questa legge, come è avvenuto nella tornata precedente, nel marzo 2005. Ovviamente, voterò in senso favorevole il provvedimento al nostro esame anche in questa occasione, ma credo che occorra dire qualcosa di più sotto il profilo politico.
Oggi noi di Alleanza Nazionale non possiamo limitarci a sottoscrivere l'impegno a votare in Aula questo provvedimento, ma ci impegniamo a sostenerlo anche in occasione del referendum confermativo, che credo sia la cartina di tornasole di una coalizione politica che si rispetti, che mantiene gli impegni, che ritiene di avere valori condivisi, che non vuole terminare la propria vita politica con questa legislatura, ma vuole continuare anche in seguito, perché ritiene di avere gli strumenti, le capacità, le progettualità, le intelligenze per governare il Paese.
Siamo impegnati, quindi, a determinare queste condizioni, a trasferire all'interno del corpo elettorale e della pubblica opinione i nostri convincimenti e le nostre certezze su un argomento che riteniamo molto importante, perché il Paese cambia, si modernizza, si razionalizza. Forse oggi quello di cui ha bisogno il Paese è una grande razionalizzazione, dal momento che non è più possibile utilizzare le risorse pubbliche, come è accaduto nel passato.
Un grande merito, allora, un grande passo avanti è che questa riforma, sostanzialmente, pone dei rimedi a quella che il centro-sinistra approvò - l'ho già detto - alla fine della scorsa legislatura, con una maggioranza di soli quattro voti, con l'ausilio di quelle forze politiche che oggi si vorrebbero demonizzare solamente perché fanno parte del centro-destra, mentre erano perfettamente inserite nello schema democratico quando erano alleate del centrosinistra.
Tornerò fra breve su questo argomento, perché credo che rappresenti uno dei fattori più importanti rispetto ai quali noi di centrodestra dobbiamo giocare una grande battaglia con la pubblica opinione.
C'è un aspetto molto importante: noi acceleriamo i grandi ritardi che sono stati accumulati, non dal centro-destra e dalla maggioranza, ma dall'intero Paese sul tema. Dobbiamo superare questo tipo di contraddizione: da un lato, ci si ribella all'ipotesi di uno Stato federale, dall'altro, non c'è Regione, non c'è Provincia, non c'è Comune, non c'è Comunità montana che non rivendichi il proprio spazio di autonomia.
Dobbiamo chiarire tale situazione, anche alla luce dell'ultima pronuncia della Corte costituzionale, che ha fatto riferimento alla necessità di indicare i parametri complessivi della spesa, ma di lasciare poi libertà ed autonomia nella scelta dell'allocazione delle risorse.
Anche sotto questo aspetto, diciamolo in maniera molto chiara, chi del centro-sinistra ha ritenuto di poter sfruttare la situazione e il pronunciamento della Corte in maniera negativa nei confronti del centro-destra, a mio personale avviso, è incorso semplicemente in un grande bluff, perché quella pronuncia sostanzialmente conferma la bontà della nostra impostazione e la necessità di procedere sulla via di uno Stato federale.
Avevo parlato di modernizzazione, che investe il sistema bicamerale perfetto. Debbo purtroppo procedere per sintesi, ma intendo ricordare quanti teorici e politologi si sono confrontati sul tema di un bicameralismo che ha simili competenze, che quindi rallenta i lavori parlamentari, che crea le condizioni per l'ostruzionismo, che determina le condizioni per non far procedere il Paese alla stessa velocità con la quale procede la società civile o la società economica.
Quante volte ci siamo interrogati su questo. Oggi, che assumiamo determinazioni in tal senso, anche attraverso uno sfoltimento ed una razionalizzazione del numero dei parlamentari, ci si chiede perché mai fosse così necessario procedere in questa direzione. Superiamo il bicameralismo, dando competenze diverse alla Camera e al Senato, istituiamo la figura del Primo Ministro che finalmente corrisponde alla società attuale. Non ci siamo inventati nulla, abbiamo sostanzialmente ratificato ciò che oggi avviene: l'esistenza di un diaframma profondo tra le Assemblee parlamentari e gli Esecutivi, perché sono questi ultimi che decidono molto di più di quanto non avvenisse nel passato rispetto alle decisioni delle Assemblee.
Pertanto, se questo è lo schema, ed è di tipo verticale, non possiamo ingessare il Primo Ministro all'interno di un quadro che non gli permetta di poter espletare tutte le proprie potenzialità, perché ne va del prestigio, dell'autorevolezza, della flessibilità delle funzioni, della capacità anche di rappresentare in maniera forte e decisa gli interessi nazionali del Paese.
Quanto all'interesse nazionale, altro argomento importante sul quale ci si è mosso soffermati sia da parte del centro-destra che del centro-sinistra, riteniamo che aver ripreso in considerazione questo concetto non rappresenti una mera esercitazione teorica, ma un momento importante per definire il DNA di questa nuova riforma costituzionale. Tutto si blocca, tutto si ferma, tutto si infrange contro l'interesse nazionale, se questo non è garantito, non è tutelato, non è protetto, non è proiettato verso gli interessi generali dei cittadini. Aver rimarcato questo dato costituisce un momento importantissimo dello schema strutturale all'interno del quale abbiamo collocato la riforma costituzionale.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, concludo facendo riferimento ad una domanda che mi è stata posta poco fa da alcuni organi di informazioni su come si sente un parlamentare di centro-destra a far approvare la riforma federalista dello Stato. Ho replicato che forse la domanda andava posta in termini diversi: non come si sente un uomo di centro-destra, ma un uomo della destra, di Alleanza Nazionale, a far passare una riforma federalista.
Ebbene, mi sento come un parlamentare che ha contribuito, insieme a tutti gli altri colleghi, a far uscire la situazione politica italiana con questo tipo di provvedimento dal caos all'interno del quale era stata gettata la materia da parte del centro-sinistra, che per la fretta di determinare un certo tipo di risultato politico, aveva di fatto determinato le condizioni per creare un mostro giuridico, dove le competenze si contrapponevano, si accavallavano ed a un certo momento si divaricavano prendendo strade differenti.
Quindi, ritengo sia stato dato un importante contributo in tal senso. Ma credo - e lo riconfermo qui - che debbono essere riconosciuti due fattori molto importanti: uno riguarda il partito della Lega, nostra alleata, e l'altro principalmente e direttamente il partito di Alleanza Nazionale.
Per quanto riguarda il partito della Lega, credo che vada accreditato a tutto il centro-destra, Lega compresa, la grande mutazione genetica avvenuta nel corso di questi anni, che non ne ha d'altro canto snaturato i princìpi, gli obiettivi, le tesi di fondo e, soprattutto, gli interessi legittimi che tutelava.
Voglio ricordare, stando in questo ramo del Parlamento da ben dodici anni, che è dell'altra legislatura il fatto che la Lega Nord si riuniva nel cosiddetto parlamento della Padania; riuniva il proprio corpo armato, le camicie verdi; mentre si discuteva qui la legge finanziaria ed il voto di fiducia, essa si allontanava dall'Aula parlamentare per elaborare strategie politiche altrove. Oggi la Lega è tutt'altra cosa rispetto al passato ed è grande merito di questa forza politica, ma anche di questa coalizione e di questo partito, parte importante di quel movimento politico.
Il mio partito si era avvicinato con molte perplessità, paure, timori, angosce alla riforma dello Stato federale perché la nostra è una cultura sostanzialmente unitaria del Paese: l'unità nazionale, il rispetto, il culto della bandiera hanno sempre rappresentato e rappresentano tuttora un momento importante di natura culturale, politica, sociale, territoriale, di costume, etico.
Ebbene, avevamo molti timori nel prendere questa direzione, ma anche noi abbiamo compiuto grandi passi avanti, rimuovendo quelle rigidità intellettuali che hanno a lungo determinato un freno alla nostra azione politica.
Oggi questi sono due partiti molto più moderni, grandemente proiettati al futuro che, insieme con gli altri alleati, Forza Italia ed UDC, si apprestano a dare una nuova, più bella e prestigiosa immagine. Lo facciamo nella consapevolezza che vi è una grande garanzia per questa riforma dello Stato federale: è la Costituzione stessa, così come esce dai lavori parlamentari, lo strumento ed impianto che garantisce gli interessi generali del nostro Paese.
Sono convinto che quando trasferiremo - e lo sapremo fare - questi concetti, princìpi, opinioni, obiettivi raggiunti anche al corpo elettorale, questo non potrà che riconoscerlo e che essercene grato. (Applausi del senatore Pastore).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Di Siena. Ne ha facoltà.
 
DI SIENA (DS-U). Signor Presidente, signori rappresentanti del Governo, stiamo vivendo in un'epoca in cui le democrazie moderne si trovano ad affrontare problemi stringenti. Non solo esse si sentono assediate dall'esterno, dal dilagare dei fondamentalismi, con i rischi di implosione che ne possono derivare, ma esse sono come minati, per certi aspetti, dall'interno.
Il corso della storia mondiale iniziato negli anni Settanta del secolo scorso e che per molti aspetti ancora dura, insieme alle grandi trasformazioni che hanno investito l'economia, la società, i consumi, riassunte sotto il nome di "globalizzazione", ha anche prodotto sul piano istituzionale un rovesciamento radicale tra rappresentanza e governabilità, quale fonte di legittimazione dei sistemi democratici occidentali a favore di quest'ultima.
L'elettore sempre più è stato chiamato a scegliere non chi lo rappresentava, ma chi lo governava, al quale veniva dato per un periodo di tempo determinato un mandato fiduciario sostanzialmente privo di vincoli e controlli. L'intreccio perverso tra questi orientamenti e sistemi elettorali ispirati all'esclusivo principio della governabilità alimenta poi quei fenomeni di mancata partecipazione al voto da parte degli aventi diritto che in alcuni Paesi occidentali ha assunto dimensioni tali da mettere in discussione nei fatti il carattere universale del suffragio che costituisce il fondamento vero delle democrazie moderne.
La rivolta nelle periferie parigine ci parla anche di questo. Dunque, è come se il concreto funzionamento della democrazia reale rischiasse d'invertire il suo corso: da fattore incisivo legato soprattutto all'affermazione del suffragio universale, rischia di diventare, con il restringimento reale della base di partecipazione attiva al voto, fonte di nuove forme di esclusione che investono prevalentemente le nuove generazioni, le vaste aree di marginalità sociale delle metropoli, gli immigrati di più recente e antica data. Nei Paesi sviluppati è l'esercizio stesso della cittadinanza politica ad essere nei fatti seriamente messo in discussione.
Se sono solo in parte vere queste mie sommarie considerazioni, il primo interrogativo che dobbiamo porci di fronte alla vostra revisione della Costituzione del nostro Paese è come essa si colloca di fronte a questi rischi di fondo a cui vanno incontro le democrazie moderne. Mi sembra del tutto evidente che essa enfatizzi e dilati oltre misura questi rischi ed alimenti queste tendenze che ho sommariamente evocato.
Infatti, alla potestà assoluta che la vostra revisione assegna al Primo ministro sul Parlamento, soprattutto attraverso il potere di scioglimento della Camera, corrisponde un progressivo svilimento delle funzioni del Parlamento stesso.
A questo svilimento, in verità, nei fatti abbiamo assistito per tutto il corso di questa legislatura, attraverso le concrete attività legislative, l'assenza di una reale volontà di confrontarsi con le ragioni dell'opposizione, il ricorso al voto di fiducia su testi - come è avvenuto di recente con la finanziaria - mai sottoposti all'esame delle Camere.
La vostra revisione costituzionale sancisce quello che in questi cinque anni è diventata prassi; la soluzione che viene data al superamento dell'attuale bicameralismo perfetto, oltre a rendere sostanzialmente superfluo il ruolo proprio di questo ramo del Parlamento, del Senato della Repubblica, aumenta la discrezionalità del Governo in un iter legislativo che diventa molto macchinoso e complesso, per le attribuzioni che di volta in volta vengono date ad uno dei due rami del Parlamento.
Se si guardano insieme il ruolo assegnato al Parlamento dalla legge costituzionale che stiamo discutendo e la vostra proposta di legge elettorale fintamente proporzionale e neppure limpidamente maggioritaria, che assume in modo contraddittorio il principio di coalizione e quindi il ruolo della leadership e nello stesso tempo dà potestà assoluta alle segreterie dei partiti, comprendiamo facilmente a quale problemi andiamo incontro.
Già altri hanno parlato dei guasti della devolution, il tributo che la destra tutta intera paga alle imposizioni della Lega, alla scomparsa, attraverso di essa, di una pari esigibilità dei diritti fondamentali da parte dei cittadini nel campo della sicurezza, della salute e dell'istruzione soprattutto, della deriva a cui viene condannato il Mezzogiorno.
Voglio toccare questo tema, invece, dal punto di vista degli effetti che la devolution avrà sul concreto esercizio della rappresentanza e della sovranità popolare nel nostro Paese, che viene come smontato, nelle sue funzioni essenziali relative al sistema di diritti legati allo Stato sociale, con il rischio di perdere, rispetto alle istituzioni, quella rappresentazione di sé che lo rende espressione permanente dell'interesse generale.
Le istanze sociali saranno insomma rappresentate, più che sotto forma di interessi generali, da lobbies territoriali contrapposte; di conseguenza, le istituzioni rischieranno di diventare sempre più autoreferenziali.
Il ricorso al referendum per cancellare questa legge istituzionale per noi non è, dunque, una scelta di parte, ma un'azione che guarda agli interessi dell'Italia; insomma, vorrei dire che è un dovere nazionale.
Il dibattito costituzionale ha bisogno in Italia di chiudere questa sciagurata parentesi, rappresentata dalla vostra riforma, e ritrovare le basi di un dialogo tra tutte le parti politiche al fine di raggiungere l'obiettivo di aggiornare l'ordinamento del nostro Stato con scelte che siano effettivamente all'altezza dei tempi.
Vedo un filo rosso che lega i criteri che hanno animato questa riforma e il modo in cui si è arrivati ad approvarla con l'azione unilaterale della vostra stessa parte politica, che ha portato al fallimento della Commissione bicamerale, presieduta dall'onorevole Massimo D'Alema. Vi parla uno che di quella esperienza non è stato mai particolarmente entusiasta, essendo poco persuaso dell'impianto semi-presidenzialista che animava la cultura costituzionale che in quel momento si veniva ad affermare.
In quell'esperienza, però, vi era sicuramente la consapevolezza che, se una revisione della Costituzione deve collocarsi nel solco della ricerca di risposte positive a quei dilemmi cruciali della democrazia contemporanea cui ho accennato all'inizio, essa non può essere fatta da una parte sola e soprattutto non può essere fatta dalla vostra parte. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Donadi. Ne ha facoltà.
 
DONADI (Misto-IdV). Signor Presidente, colleghi senatori, oggi quest'Assemblea si dovrebbe teoricamente (tra breve spiegherò perché, a mio avviso, "teoricamente") apprestare a scrivere una pagina della storia del Parlamento italiano che dovrebbe meritare di essere ricordata per segnare un momento di profonda discontinuità, nel bene o nel male, rispetto a quella che fino ad oggi è stata la storia costituzionale del nostro Paese.
In un momento così importante, però, oggi sono seduti nei banchi della maggioranza solo otto o nove parlamentari. Negli ultimi mesi non è stato mai aperto un vero confronto nel Paese, non si è mai cercato un confronto con le altre forze parlamentari che siedono in quest'Aula o alla Camera dei deputati.
Dando vita a questo modello di riforma costituzionale, ancor più di quanto si sia vissuto nell'esperienza della presente legislatura, si è proseguito il progressivo depauperamento del ruolo del Parlamento, ormai completamente delegato ad altri luoghi ed istituzioni e addirittura, come è accaduto nel caso della riforma costituzionale oggi in esame, alle decisioni di alcuni saggi - visto che tali sono stati definiti - assunte in qualche baita alpina.
Evidentemente il parlamentarismo è sembrato ancora eccessivo alla maggioranza, se è vero che quella che si profila come una riforma della legge costituzionale, nel disegnare una figura di Presidente del Consiglio onnipotente tale da poter ricattare la propria maggioranza e poter imporre le proprie esclusive scelte o interessi al Presidente della Repubblica, non sente di aver bisogno di questa pur esigua e ridotta libertà di autodeterminazione, di scelta e di indirizzo politico.
D'altra parte, forse ciò non deve neanche sorprendere più di tanto, se è vero che della tensione morale e della partecipazione che una maggioranza dovrebbe avere nel momento in cui si appresta a riscrivere 51 articoli della Costituzione (se escludiamo la Parte I che è immodificabile, relativa ai diritti e alla tutela dell'essere umano in quanto tale, di fatto stiamo riscrivendo l'intera Costituzione) le file tristemente vuote dei banchi della maggioranza sono un elemento chiaro ed indicativo.
È la stessa totale apatia che abbiamo vissuto nei momenti non meno tristi, infelici della prima approvazione, alla Camera dei deputati, della legge elettorale. In un contesto nel quale stiamo qui oggi, di fatto, privando il Parlamento del proprio ruolo e della propria autonomia, si è voluta togliere anche ai cittadini l'autonomia di scegliere tra più candidati i propri rappresentanti, attraverso una legge di riforma del sistema elettorale che di fatto introduce nel nostro Paese la più incredibile e autoreferenziale partitocrazia che mai si sia potuta immaginare.
Alla fine, quindi, non c'è da stupirsi più di tanto se quel disegno complessivo di riforma della Costituzione, che altro non è se non il frutto di un reciproco meretricio di interessi politico-elettorali tra le varie forze che compongono oggi la maggioranza, è un disegno che scardina gli equilibri e avvilisce i ruoli di alcuni tra i più fondamentali organi istituzionali dello Stato.
Penso al Presidente della Repubblica, ridotto a un ruolo di semplice notaio di decisioni altrui; penso a una Corte costituzionale sempre più pericolosamente soggetta all'influenza e al ruolo, anche numericamente crescente, degli esponenti di nomina politica; penso alla scelta dell'attuale maggioranza di passare da un bicameralismo perfetto a un bicameralismo perfettamente confuso, se è vero che non è nemmeno possibile riuscire, in modo definito, a comprendere quali saranno, dopo l'approvazione di questa riforma, le competenze della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica o, ancora, delle Regioni, laddove si profilano, in modo chiaro (già prima è stato ricordato), continui e interminabili conflitti tra i poteri dello Stato, che andranno tutti a intasare i compiti della Corte costituzionale.
Vi è poi la nuova formulazione dell'articolo 88 della Costituzione, che di fatto rappresenta, in modo plastico, la definizione della confusione politica e di modello costituzionale che questa maggioranza ci propone, laddove addirittura la possibilità, in caso di dimissioni o di sfiducia del Presidente del Consiglio, di proseguire la legislatura non solo è subordinata al consenso e al voto favorevole della stessa maggioranza che lo ha nominato a suo tempo, ma anche al fatto che questa maggioranza dichiari di voler continuare ad attuare un programma.
Negli anni può essere cambiato il mondo, il Paese può essere passato da una fase di recessione a una fase di crescita o viceversa, ma la maggioranza deve incomprensibilmente restare vincolata a un programma approvato anni prima.
Ci troviamo di fronte alla figura di un Premier che è già stato definito un dittatore, che può imporre la propria volontà, la propria linea politica all'intero Parlamento, tanto più se sostenuto da una anche esigua pattuglia parlamentare, con la minaccia di un continuo ricorso alla scioglimento delle Camere e a nuove elezioni.
Dicevo all'inizio del mio intervento che tutto ciò dovrebbe far pensare che oggi quella che ci si appresta ad approvare, nella ignavia più assoluta dell'attuale maggioranza, in questo Parlamento che si richiude in sé stesso (ma neanche tanto, visto che oggi qui chi questa riforma costituzionale deve approvare non si degna nemmeno di essere presente per ascoltare, almeno all'ultimo momento, le argomentazioni di chi forse oggi rappresenta una maggioranza elettorale nel Paese), è solo astrattamente una riforma storica, in una data memorabile, della Costituzione italiana.
Infatti, la realtà vera, quella che l'attuale maggioranza non ha il coraggio di dire con chiarezza fuori di qui ai cittadini italiani, è che non si sta approvando altro che una legge che dovrà essere, nel giro di pochi mesi, sottoposta ad un referendum popolare; una legge che si limita, quindi, ad essere espressione di quello che è stato l'unico modo che i Governi di centro-destra per cinque anni hanno conosciuto per governare il nostro Paese: il governo attraverso gli spot, le pubblicità, le semplici e reciproche concessioni dell'una forza all'altra.
Non a caso ci ritroviamo qui oggi a votare la devolution e non avremmo potuto votare altro che la devolution. Fino a quando questa legge non sarà approvata, non sarà infatti possibile votare la legge elettorale e probabilmente nemmeno la finanziaria, perché altrimenti qualche forza uscirebbe dal Governo.
Questa maggioranza non ha il coraggio di dire agli italiani che il Governo, che oggi, ancora per pochi mesi, in quest'Aula rappresenta forse una maggioranza (dico forse perché solo gli interessi mi pare la tengano unita), non avrà la forza domani di sostenere questa legge.
Credo che, in animo loro, molti dei senatori che oggi la voteranno, in realtà, non la condividano, non la approvino minimamente e quindi si augurino, tutto sommato, che il Paese, i cittadini italiani dicano a gran voce con il referendum che i valori della devolution leghista, che elimina i vincoli di solidarietà nei settori più sensibili, più importanti e strategici del Paese, dove si deve far sentire con forza la solidarietà di tutti verso tutti (i settori della scuola pubblica, della sanità, della sicurezza), non sono valori che questo Paese è disposto a negoziare con nessuno, tanto meno con questa Lega. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Gubert. Ne ha facoltà.
 
GUBERT (UDC). Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevoli rappresentanti del Governo, già nei precedenti esami del disegno di legge costituzionale avevo espresso la mia contrarietà a una parte sostanziale della filosofia politica che ispira la riforma. Inutile è stato lo sforzo di presentare emendamenti. Ora, inemendabile nel senso voluto il disegno di legge, non resta che la valutazione complessiva.
Sono trascorsi undici anni da quando sono entrato in Parlamento: pensavo di essere partecipe dell'organo democraticamente eletto per esercitare il potere legislativo. Di fatto si è trattato di un potere di ratifica formale di decisioni di carattere legislativo assunte fuori del Parlamento. Lo strumento delle leggi delega, con criteri generici predefiniti dal Governo; lo strumento dei decreti, dei quali la dichiarazione di necessità e urgenza è sovente solo il tributo formale, ma nella realtà fittizio, per ottemperare ai requisiti previsti dalla Costituzione; lo strumento dei maxiemendamenti, sui quali è posta la questione di fiducia e che riducono il ruolo del Parlamento a dire un sì o un no al Governo, anche su leggi di grande importanza; il giudizio di costituzionalità su iniziative legislative governative, sempre piegato alle ragioni di parte, svuotano il potere reale del Parlamento; se vi è un deficit da correggere, quindi, è la carenza di democrazia parlamentare.
Invece il disegno di legge di riforma opera in senso opposto: rafforza l'Esecutivo, il capo del Governo, dandogli non solo potere di nomina e di revoca dei Ministri (chi sarebbe stato il Ministro della giustizia nel I Governo Berlusconi del 1994 se allora fossero state operanti le norme ora proposte?), ma ponendolo anche nelle condizioni di poter far sciogliere la Camera dei deputati qualora si dimostri recalcitrante a seguire i suoi voleri.
Viene meno quell'autonomia del potere legislativo dall'Esecutivo che è uno dei cardini del moderno Stato democratico. È, sì, previsto il meccanismo, in certi casi, di qualcosa che assomiglia alla sfiducia costruttiva, ma la sua attivazione è resa oltremodo improbabile dai requisiti posti: solo un Capo del Governo divenuto per tutti palesemente inetto perderebbe la fedeltà di un manipolo di deputati in grado di far mancare il sostegno della maggioranza assoluta, composta solo da componenti della precedente maggioranza, a qualsiasi proposta di Capo di Governo alternativo.
Bastava garantire la continuità della maggioranza della maggioranza per evitare agli elettori l'imbroglio del ribaltone (se di vero imbroglio si tratta e non di adattamento a una situazione imprevista o difficilmente affrontabile in modo diverso, come nel caso della Grande coalizione in Germania), ma non si è voluto: avrebbe dato troppo potere agli eletti del popolo, al Parlamento!
Viene sminuito fortemente, a vantaggio dei poteri del capo del Governo, anche il potere di garanzia del Presidente della Repubblica, cui viene tolto il potere di rinvio alle Camere delle leggi.
Si è obiettato che la riforma aumenta il tasso di democrazia, poiché mette nelle mani del popolo la scelta del Capo del Governo, prima condizionata dal voto del Parlamento e dal ruolo del Presidente della Repubblica. Purtroppo, per troppi la democrazia si misura solo al momento dell'elezione del Capo.
La complessità sociale e politica di un sistema viene ridotta a un plebiscito nei confronti di un Capo, un sì o un no. Poi il Capo, per cinque anni, ha di fatto ogni potere e i molti eletti nel Parlamento possono contrastarlo solo se sono disposti a perdere il loro ruolo di eletti. No, la democrazia si misura lungo l'intero arco della legislatura e la democrazia dei molti è migliore della democrazia dell'uno.
La democrazia deve anche essere capace di decidere, ma ciò deve realizzarsi contemperando i punti di vista, facendosi carico della complessità, nella ricerca del bene comune. Se per essere "decidente" la democrazia si riduce ad eleggere un Capo ogni cinque anni, al quale il Parlamento deve essere servente, essa diventa una democrazia povera, assai manipolabile, assai esposta a perseguire interessi particolari.
Dobbiamo riformare per far crescere il tasso di democraticità del processo di assunzione delle decisioni che riguardano la collettività; non basta la democraticità nella scelta di chi prende le decisioni. In ogni caso è più democratico un sistema dove le decisioni sono affidate ai molti rappresentanti anziché all'unico rappresentante. Purtroppo, invece, questo disegno di legge va in direzione opposta.
Qualcuno potrebbe dire che la riforma federalista, chiamata «devolution», era nei patti elettorali. È vero, era uno dei punti forti del patto con gli italiani, ma quel patto si era tradotto nel disegno di legge costituzionale Bossi, approvato in questo Senato e poi lasciato arenare per introdurne i contenuti nel disegno di legge all'esame. Avevo votato a favore di quel disegno di legge e ancora lo farei. Il guaio è che quei contenuti di devolution sono ora accompagnati da altre norme che vanno per lo più in direzione opposta a quella della crescita dell'autonomia delle Regioni.
Fanno eccezione, in senso positivo, le norme che prevedono limiti alla possibilità del Parlamento di cambiare gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale in contrasto con le loro valutazioni, ma per il resto si afferma una logica centralista. Non sono tanto alcune correzioni nella ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni a fare problema, anche se esse vanno tutte nella direzione di rafforzare le competenze dello Stato a scapito di quelle delle Regioni. A fare problema è soprattutto l'introduzione del controllo politico nazionale sulla legislazione regionale, in nome della tutela dell'interesse nazionale.
Il Parlamento nazionale potrà annullare leggi regionali. Se il giudizio parlamentare sulla lesione di un interesse nazionale ha la stessa fondatezza di quello sulla costituzionalità di una proposta di legge o sui requisiti di necessità e urgenza di un decreto, ossia una mera motivazione politica, c'è veramente da preoccuparsi per l'autonomia.
Altro che riforma federalista! È una riforma centralista, come del resto Alleanza Nazionale dichiara. Si introduce un centralismo più forte di quello antecedente alla riforma del 2001, sulla quale, colmo dell'ironia, il centro-destra aveva chiesto un referendum in considerazione del fatto che era ritenuta troppo poco federalista! Sinceramente non mi piace la lingua biforcuta: Il nostro linguaggio deve essere chiaro e sincero e portarci ad esprimere dei sì o dei no convinti.
Mentre prima del 2001 il Governo poteva solo rinviare per un riesame una legge o sue parti ai Consigli regionali e sulla successiva loro decisione poteva solo adire la Corte costituzionale, e dopo il 2001 il Governo, a tutela di un interesse nazionale da esso presunto poteva solo adire la Corte costituzionale, con questa riforma il Governo, il suo Capo, può chiedere al Parlamento, nel quale vi è - obbediente alla Camera - una sua maggioranza parlamentare, ma, dati i meccanismi elettivi, obbediente anche in Senato, di annullare una legge regionale.
Vi è un altro arretramento sensibile dell'autonomia, in termini di abolizione della possibilità di una Regione di negoziare con lo Stato una particolare e più forte autonomia. È un'innovazione forte della riforma del 2001; essa veniva incontro alle esigenze di particolare autonomia di Regioni a forte identità, a contatto stretto con Regioni ad autonomia speciale: è il caso del Veneto, ma potrebbe essere anche quello della Lombardia o di altre Regioni ancora.
La distinzione fra Regioni ad autonomia speciale e Regioni ad autonomia ordinaria si stemperava. È strano che la Regione Veneto imprechi contro le vicine Regioni ad autonomia speciale e non abbia fatto nulla per affermare una sua possibile specialità. I parlamentari veneti e lombardi che voteranno a favore di questa riforma lo faranno per togliere ogni possibilità dinamica alla loro autonomia. Da autonomista, nei loro panni, non lo farei.
Non si può poi tacere, a proposito di federalismo, su un altro contenuto della riforma: l'introduzione del cosiddetto Senato federale. Nel mio percorso parlamentare le modalità di elezione (in particolare i tempi cadenzati in concomitanza con le elezioni regionali) sono state migliorate, ma non si può dire che si sia fatto un reale passo in avanti in direzione federalista, anzi! Finora i senatori sono stati eletti su base regionale, come prescrive l'attuale Costituzione. Essi, quindi, rappresentano le popolazioni delle singole Regioni. Come tali, essi hanno il medesimo potere dei deputati, possono dare o negare la fiducia al Governo, votare sui bilanci e sulle leggi finanziarie e su tutte le leggi dello Stato.
Con il disegno di legge all'esame essi continuano ad essere eletti direttamente su base regionale e quindi rappresentano le popolazioni delle Regioni. Però hanno molti meno poteri di quelli attuali, nel senso che non possono dare la sfiducia al Governo, non votano le leggi di bilancio, su molte leggi non possono dire nulla, su altre, riferite ai princìpi ai quali deve attenersi la legislazione regionale, hanno priorità, ma anche per le leggi sulle quali è prioritaria la competenza del Senato, il Capo del Governo può chiedere di spossessare di competenza il Senato per darla in via prioritaria alla Camera, a lui legata da un rapporto di fiducia.
In conclusione, i rappresentanti eletti dalle popolazioni delle Regioni nel Senato cosiddetto federale vengono a perdere i principali poteri che attualmente hanno in un Senato non chiamato federale. È difficile capire come questo sia un passo in avanti rispetto al federalismo. Se i rapporti fra Regioni e Stato fossero regolati dal principio di sussidiarietà, sarebbe logico che fossero gli enti che si federano per creare lo Stato, affinché ad essi esso sia di sussidio, a definire le scelte fondamentali dello Stato.
Poiché lo Stato non è solo federazione di Regioni, ma è anche espressione politica della Nazione, è logico che le sue scelte fondamentali siano definite anche dai rappresentanti diretti del popolo che costituisce la Nazione.
Si possono prevedere processi di assunzione di decisioni nelle quali una decisione è presa da una sola Camera qualora l'altra o una sua parte significativa non reclami un suo proprio esame, in modo da sveltire le procedure legislative, effettivamente ora lente. Ma si è andati ben oltre la necessaria ricerca di evitare inutili perdite di tempo.
In questa riforma manca una rappresentanza degli enti federati (salvo in modo marginale e senza diritto di voto, pochi rappresentanti di Regioni e enti locali) e per di più si riducono di molto i poteri attuali dei rappresentanti delle popolazioni regionali.
È una beffa, malamente mascherata dal nome di Senato federale e dal momento dell'elezione dei senatori. Il vero, unico, risultato è una quasi eliminazione del bicameralismo a vantaggio del potere del Capo del Governo che, in nome della realizzazione del suo programma, può ricondurre alla Camera dei Deputati le decisioni che contano, sapendo che se i deputati non decidono come egli vuole, può provocare lo scioglimento della Camera stessa.
Il mio dissenso riguarda anche altri aspetti minori della riforma, ma per essi rimando agli emendamenti a suo tempo presentati e respinti. Avrei potuto anche soprassedere, in omaggio a un rapporto che, all'atto delle elezioni del 2001, mi lega alla maggioranza. Ma sui due aspetti considerati, il tasso di democraticità e il tasso di rispetto del principio di sussidiarietà verticale, la distanza, la contraddizione tra il disegno di legge all'esame e i valori politici nei quali credo, non solo ispirati al pensiero sociale cristiano, ma maturati in una vita di studioso della società e di partecipe della sua vita politica, sono tali da impormi di confermare il mio voto contrario, nella speranza che sia, poi, il popolo italiano a non far compiere passi indietro nel modo di far vivere nella Costituzione tali valori, come purtroppo ora la maggioranza di centro-destra fa. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U, DS-U e Misto-IdV).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Napolitano. Ne ha facoltà.
 
NAPOLITANO (DS-U). Lei non si stupirà, signor Presidente, se pur essendo stato da così breve tempo chiamato a far parte di quest'Assemblea, prendo oggi la parola. Ho in effetti ritenuto di non potermi sottrarre alla responsabilità di un giudizio motivato su una legge di natura specialissima, qual è quella ora sottoposta al nostro ultimo esame, di revisione complessiva e radicale dell'ordinamento della Repubblica.
Tanto più che, se non sono stato finora partecipe del contrastato iter di questa legge, ho, in periodi precedenti, svolto un ruolo attivo nel lungo processo di elaborazione e discussione di idee e di proposte di riforma costituzionale che si è svolto nei due rami del Parlamento almeno a partire dalla fine degli anni Settanta.
Perché vedete, e vorrei sottolinearlo, sarebbe del tutto infondato il sostenere o il lasciar intendere che nel passato il Parlamento sia rimasto chiuso in un atteggiamento di pura conservazione, di statica e retorica difesa della Costituzione del 1948.
Ben prima che negli anni 1993-1994 intervenisse una vera e propria cesura, una rottura di continuità nel nostro sistema politico, ben prima di allora, tra i partiti storici della Repubblica nata nel 1946, era venuta maturando l'esigenza di un ripensamento e di un adeguamento del quadro istituzionale.
Nel 1982, un primo "inventario" di proposte di riforma venne redatto dalle Commissioni affari costituzionali della Camera e del Senato. Nel 1983 fu istituita, come è noto, un'ampia e rappresentativa Commissione bicamerale di studio sulle riforme istituzionali, presieduta dall'onorevole Bozzi, che presentò nel 1985 un quadro assai ricco di considerazioni e indicazioni concrete, rimaste purtroppo senza seguito.
Vennero poi anni di stagnazione del confronto e dell'iniziativa sui temi di una possibile revisione della Costituzione, anche se non mancarono leggi ordinarie di notevole significato istituzionale, come, nel 1988, quella sull'ordinamento della Presidenza del Consiglio o come, nel 1990, quella sull'ordinamento delle autonomie locali.
Si giunse così, all'inizio della XI Legislatura, in una condizione di grave ritardo dinanzi a esigenze oggettive e a sollecitazioni dell'opinione pubblica ormai non più dilazionabili e quindi si impose una scelta che per primo il presidente della Repubblica appena eletto, Oscar Luigi Scalfaro, invitò "fermamente" il Parlamento a compiere: la nomina, che col compianto presidente Spadolini subito promuovemmo, di una Commissione bicamerale non più solo di studio, ma con poteri di iniziativa legislativa, con funzioni redigenti e referenti, che fosse in grado di sottoporre a entrambe le Assemblee un progetto compiuto di riforma della Parte II della Costituzione.
La Commissione, presieduta prima da Ciriaco De Mita e poi da Nilde Iotti, riuscì a presentare un organico, non esaustivo ma, condiviso progetto, nel gennaio 1994, (relatore per la forma di Stato Silvano Labriola e per la forma di governo Franco Bassanini). Il progetto cadde con lo scioglimento, di lì a poco, di Camera e Senato.
Ricordo tutto ciò anche perché il senatore Francesco D'Onofrio, nella sua relazione del gennaio 2004, volle richiamare i lavori sia della Commissione De Mita-Iotti sia della successiva Commissione D'Alema, sostenendo che la proposta di riforma presentata dell'attuale Governo dovesse intendersi semplicemente come conclusione di un percorso.
Tale affermazione sarebbe da apprezzare per la sua modestia se non contrastasse con la realtà dell'effettiva ispirazione della proposta, ancora oggi al nostro esame, ispirazione tutt'affatto diversa da quelle che sorreggevano i progetti precedenti e segnatamente quello del gennaio 1994.
Qualche giorno fa ho avuto modo, in occasione della cerimonia di omaggio dedicata all'onorevole Labriola appena scomparso, di mettere in evidenza come la sua relazione di oltre 11 anni fosse audacemente innovativa e nello stesso tempo ispirata a grande equilibrio e responsabilità istituzionale.
Ebbene, con quell'impostazione e con le modifiche che vennero di conseguenza prospettate, risultano coerenti in realtà le proposte di riforma non della maggioranza, ma della minoranza, comprese quelle che escludono la formulazione, nell'articolo 117 della Costituzione, di un elenco di potestà legislative sia concorrenti sia esclusive delle Regioni, accanto alla specificazione delle materie affidate alla competenza dello Stato e postulano possibilità di iniziativa dello Stato federale nell'interesse nazionale, anziché un richiamo sanzionatorio a quell'interesse, ove appaia violato.
Per questo ed altri aspetti - come si sa - l'attuale schieramento di minoranza ha già proposto, con il disegno di legge presentato dai senatori Villone e Bassanini nel settembre 2003, modifiche rilevanti della stessa riforma del Titolo V che esso aveva, da posizioni di maggioranza, varato in modo non sufficientemente meditato.
In effetti, se si legge ancora oggi e si considera obiettivamente il testo presentato, sempre nel gennaio 2004, dai relatori di minoranza, si può constatare come ad una critica puntuale e severa del progetto governativo si accompagnasse un insieme di proposte tale da configurare un vero e proprio progetto alternativo di riforma.
Il Governo e la maggioranza che lo sorregge - a mio avviso - avrebbero dovuto apprezzare il fatto che lo schieramento di centro-sinistra non ha sostenuto che tutte le esigenze di revisione costituzionale, affiorate nel lungo processo da me richiamato e culminato nella Commissione bicamerale D'Alema, fossero da ritenersi ormai superate.
In particolare, pur essendosi significativamente consolidate - attraverso il passaggio al sistema elettorale maggioritario e la prassi di una competizione politica bipolare - la posizione del Governo in Parlamento, la governabilità del Paese e la stabilità dell'azione di Governo, l'attuale opposizione ha continuato e continua a presentare proposte volte a sancire in sede costituzionale tale evoluzione e a rafforzare i poteri del Primo Ministro rispetto alle formulazioni della Carta del 1948.
E' dunque l'attuale opposizione che si è preoccupata e si preoccupa di concludere, sulla base di un'ulteriore e coerente maturazione, il percorso che venne bloccato nel 1998, non occorre qui ricordare come e per responsabilità di chi.
Sono parte della conclusione di quel percorso le proposte della relazione di minoranza relative alla composizione e alle attribuzioni del nuovo Senato della Repubblica, ma anche tutte quelle riguardanti un sostanziale adeguamento del sistema delle garanzie e dello statuto dell'opposizione all'avvento e all'abuso di un meccanismo maggioritario.
 
Presidenza del presidente PERA (ore 17,25)
 
(Segue NAPOLITANO). Quel che anch'io giudico inaccettabile è, invece, il voler dilatare in modo abnorme i poteri del Primo Ministro, secondo uno schema che non trova l'eguale in altri modelli costituzionali europei e, più in generale, lo sfuggire ad ogni vincolo di pesi e contrappesi, di equilibri istituzionali, di limiti e di regole da condividere.
Quel che anch'io giudico inaccettabile è una soluzione priva di ogni razionalità del problema del Senato, con imprevedibili conseguenze sulla linearità ed efficacia del procedimento legislativo; una alterazione della fisionomia unitaria della Corte costituzionale, o, ancor più, un indebolimento dell'istituzione suprema di garanzia, la Presidenza della Repubblica, di cui tutti avremmo dovuto apprezzare l'inestimabile valore in questi anni di più duro scontro politico.
E allora, signor Presidente, onorevoli colleghi, il contrasto che ha preso corpo in Parlamento da due anni a questa parte e che si proporrà agli elettori chiamati a pronunciarsi prossimamente nel referendum confermativo non è tra passato e futuro, tra conservazione e innovazione, come si vorrebbe far credere, ma tra due antitetiche versioni della riforma dell'ordinamento della Repubblica: la prima, dominata da una logica di estrema personalizzazione della politica e del potere e da un deteriore compromesso tra calcoli di parte, a prezzo di una disarticolazione del tessuto istituzionale; la seconda, rispondente ad un'idea di coerente ed efficace riassetto dei poteri e degli equilibri istituzionali nel rispetto di fondamentali principi e valori democratici.
La rottura che c'è stata rispetto al metodo della paziente ricerca di una larga intesa, il ricorso alla forza dei numeri della sola maggioranza per l'approvazione di una riforma non più parziale, come nel 2001, ma globale della Parte II della Costituzione, fanno oggi apparire problematica e ardua, in prospettiva, la ripresa di un cammino costruttivo sul terreno costituzionale; un cammino che bisognerà pur riprendere, nelle forme che risulteranno possibili e più efficaci, una volta che si sia con il referendum sgombrato il campo dalla legge che ha provocato un così radicale conflitto.
Mi asterrò dal rivolgere alle forze di Governo poco realistici appelli alla riflessione, ma non posso fare a meno di esprimere la mia convinzione che la strada indicata qui dall'attuale minoranza corrisponde all'interesse di entrambi gli schieramenti politici, nel loro prevedibile alternarsi in posizioni di maggioranza e di opposizione. Essa corrisponde all'interesse di una moderna e responsabile evoluzione del nostro sistema democratico e anche, non da ultimo, alla ricostruzione di un clima, che è purtroppo venuto meno, di più misurato, impegnato e fecondo confronto in Parlamento: un clima che è condizione per l'esercizio, con autorevolezza, del ruolo insostituibile di questa nostra istituzione. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U, Misto-RC, Misto-Com e Misto-Pop-Udeur. Molte congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Sodano Tommaso. Ne ha facoltà.
 
SODANO Tommaso (Misto-RC). Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, colleghi, il valore del patto fondativo di un Paese è stato a più riprese sottolineato dai più illustri costituzionalisti.
La conquista di valori, di princìpi, di norme in un processo storico che ha visto lotte, guerre, conflitti per arginare e, si spera, estinguere la volontà di potenza che tanto segna la politica, è cristallizzata in forma non ultima e definitiva nelle Costituzioni. Esse sono un fondo di ragione che determina gli argomenti pubblicamente ammissibili. In base ad essi le istituzioni della democrazia costituzionale possono funzionare come mezzi fallibili, tramite cui i pubblici interessi possono essere identificati nella pratica.
Ci piace sottolineare come la Carta fondativa di una Nazione nasca non da contrattazioni sull'attualità politica, ma dalla storia di un Paese, dal sangue delle sue genti, dalla necessità di trovare delle linee di principio, delle garanzie che assicurino un adeguato e giusto svolgimento della vita politica e sociale di un Paese. Chi ha scritto la Costituzione non aveva certo la necessità di accontentare i capricci di qualche esponente politico, come ci pare accada oggi. Chi ha pensato la Costituzione del '48 aveva lo sguardo rivolto al futuro della Nazione, non certo al proprio personale futuro politico.
Di fronte all'importanza del testo costitutivo di una Nazione si può anche pensare che esista la necessità di una revisione, di un'attualizzazione di alcuni suoi aspetti, ma il clima in cui questo avviene dovrebbe essere di collaborazione fra le varie parti politiche del Paese, di costante confronto con gli esperti della materia, senza contare che sarebbe necessaria, come d'altronde prescrive l'articolo 138 della Costituzione stessa, la precisa circoscrizione delle materie su cui legiferare.
Invece quello che è accaduto per il progetto di riforma della Parte II della Costituzione, il clima in cui esso è nato ed in cui si è svolta la discussione è stato radicalmente opposto. Il testo è stato oggetto di discussioni, all'interno di una logica politica, anzi politicista, che prefigura, ancora una volta, una logica di scambio all'interno delle forze politiche della maggioranza. Questa riforma si è caratterizzata così fin dall'inizio.
Un progetto di riforma, quindi, che non guardava ad un interesse generale e ad un'esigenza vera del Paese e ad un'eventuale attualizzazione di qualche aspetto della Costituzione, ma, al contrario, guardava ad interessi, sensibilità ed a sollecitazioni particolari provenienti dalle diverse forze politiche presenti all'interno della Casa delle Libertà.
Con la Costituzione non si scherza, Rifondazione comunista è già stata contraria alla riforma del Titolo V approvata di gran fretta nella scorsa legislatura e, pur pensando che quella norma vada corretta, quella dell'attuale maggioranza è una vera e propria riscrittura delle regole. In realtà nel nostro Paese si sta verificando una pericolosa traslazione del «potere di revisione» in «potere costituente»! Non ci si limita a rivedere un singolo tema della Costituzione ma la si vuole stravolgere in toto.
Il disegno di legge costituzionale del Governo lede - a nostro avviso - in profondità l'articolo 138 della Costituzione in quanto non interviene su un singolo articolo, un istituto specifico, ma sull'intera II Parte, così da contraddire lo spirito e la lettera della norma che regola la revisione: qui l'insieme delle norme, che vanno dal Parlamento al Presidente della Repubblica, alla giurisdizione ordinaria e costituzionale, alla funzione legislativa, alla disciplina di Regioni, Comuni e Province, viene travolto.
Troppo numerosi sarebbero i punti della vostra proposta su cui soffermarsi a discutere in quanto decisamente pericolosi per il mantenimento di un assetto democratico nel nostro Paese, ma su alcuni vale la pena spendere delle parole in più.
L'aspetto più delicato della riforma è quello che coinvolge l'equilibrio e l'assetto dei poteri che caratterizzano la forma di governo. Fondamentale è il cosiddetto Premierato con investitura diretta del Primo Ministro, espressione, questa, che ne esplicita i caratteri essenziali e la sua primazia - segnalata, appunto, dal nome di Primo ministro - e la sua ordinaria permanenza in carica, a scanso di ribaltoni o altro, per l'intera legislatura.
Siamo di fronte ad una pessima personalizzazione del potere, che nel disegno Berlusconi si precisa come Premier assoluto, onnipotente che «conforma e controlla la sua maggioranza», si rovesciano i termini della relazione democratico-costituzionale per cui il popolo esercita la sovranità, «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Al contrario, la democrazia d'investitura legittimerebbe un «sovrano» che può tutto, perché eletto direttamente dal popolo e solo a questo dunque dovrebbe rispondere. Essa è l'opposto della democrazia costituzionale, che limita i poteri, pubblici e privati, e rende indisponibili a essi i princìpi e le norme fondamentali.
Con la vostra proposta consegnate nelle mani di un Primo Ministro plenipotenziario la funzione di governo del Presidente degli USA, i poteri di scioglimento del Premier britannico, la funzione «legislativa» del governo francese con il «voto in blocco». Un vero e proprio «Premierato assoluto» che si concretizza non prevedendo la «fiducia iniziale al Governo», fornendo al solo Primo ministro la responsabilità di scioglimento della Camera.
Ma, come al solito, la maggioranza ha voluto farci dono anche del paradosso, che in questo caso si raggiunge prevedendo la possibilità di sfiducia da parte della Camera, con conseguenti dimissioni del Premier ed obbligo di scioglimento della stessa. Come dire «muoia Sansone con tutti i Filistei»! Il ricatto che eserciterà quello che ormai possiamo definire un «Premier-monarca» è evidente.
Nel panorama costituzionale degli ordinamenti democratici il modello proposto non ha eguali. In questa prospettiva, chi potrà esercitare una sia pur minima forma di controllo sull'attività del Premier monarca? Sicuramente non il Parlamento, costantemente sottoposto al ricatto dello scioglimento, ma nemmeno il Presidente della Repubblica, che perde le sue funzioni di organo super partes. I suoi poteri vengono distorti, limitati e soprattutto rigidamente enumerati nell'articolo 26 della vostra proposta, così da impedire quel ruolo di arbitro, quell'ambito di discrezionalità che consente ora al Presidente della Repubblica di essere un regolatore della complessiva vita istituzionale, di garantire in prima istanza la Costituzione, di bilanciare i diversi poteri.
Nei rapporti tra Governo e Parlamento, secondo la Costituzione vigente, il Presidente della Repubblica opera come «commissario delle crisi»: il suo potere di scioglimento è garanzia della «sovranità» del Parlamento tramite la fiducia e dell'indipendenza dell'Esecutivo.
La maggioranza sembra prodigarsi in un lavoro minuzioso, di cesello, teso da un lato a scardinare qualsiasi meccanismo di bilanciamento dei poteri presente nella nostra Costituzione, dall'altro ad aiutare l'attuale maggioranza in improbabili equilibrismi che mirano a risolvere i propri problemi interni.
E' questo il caso della cosiddetta devolution. Appare del tutto evidente che la degenerazione devolutiva operata con il progetto di riforma costituisce un ripiego operato sotto la spinta della Lega nord, che, constatata l'impossibilità di raggiungere il suo obiettivo originario, cioè la secessione, ha convertito la propria strategia nella demolizione dell'ordinamento e della forma di Stato. Non a caso, la devolution è stata prima di tutto un evento mediatico e solo successivamente politico.
Sgombriamo subito il campo da qualsiasi possibile fraintendimento, soprattutto tra le file della maggioranza: il federalismo è nato storicamente per unire, per federare ciò che era diviso, per mettere in relazioni culture, poteri, identità statuali. Il caso italiano si presenta come un processo esattamente opposto, che mira all'espropriazione di funzioni proprie di uno Stato per attribuirle alle Regioni.
Tutte le nuove materie che si vogliono attribuire all'esclusiva competenza delle Regioni incidono negativamente innanzitutto sui diritti sociali. La devoluzione comporterà, in questi casi, una differenziazione in termini di prestazioni garantite dalle diverse Regioni, intaccando principi che sono alla base della nostra tradizione costituzionale, civile e culturale, quali l'eguaglianza e la solidarietà. I rischi sono alti e coinvolgono i più delicati profili relativi alle garanzie ed all'effettività dei diritti, discipline che non possono essere sottratte alla competenza del legislatore nazionale.
Un progetto sbagliato e pericoloso che in più, come ha ripetutamente ammonito il costituzionalista Sartori, rischia di avere un peso economico insostenibile per il nostro Paese. Ancora una volta, la maggioranza, per rincorrere i capricci di una parte, non solo non fa i conti con le necessità del nostro paese, ma manca di prestare attenzione addirittura alla realtà.
Risulta chiaro quindi che, dietro la presunta modifica formale della II parte della Carta costituzionale, si nasconde, in realtà, anche lo smantellamento di molti principi contenuti nella prima parte della Costituzione medesima, che qualificano la natura e l'ispirazione del nostro ordinamento.
Strettamente collegato al progetto federale dello Stato e alla nuova forma di governo è la trasformazione del tradizionale bicameralismo disegnato dalla Costituzione. Il costituente del 1948 configurò un Parlamento posto al centro dell'ordinamento, a garanzia dell'intero sistema di potere, essendo rappresentate in esso tutte le forze politiche democraticamente elette, minoranze comprese. La riforma in atto ne stravolge funzioni e poteri, introducendo, tra l'altro, un contorto iter legislativo.
Il nuovo Parlamento sarà composto da una Camera dei deputati e da un Senato federale. Il progetto dice di ispirarsi al federalismo, ma, nei fatti, il Senato prefigurato dalla riforma ha ben poco di federale, in quanto non rappresenta direttamente le autonomie locali ed i loro interessi, come nei modelli federali classici. Viene eletto a suffragio universale e diretto su base regionale, e dovrebbe avere competenze diverse da quelle della Camera, che resta l'unica Assemblea politica.
Ma il punto di maggiore criticità della tanto auspicata riforma e dell'attuale bicameralismo perfetto è costituito dal nuovo processo di formazione delle leggi. Il testo prevede, infatti, tre distinti tipi di procedimento legislativo che si differenziano tra loro per i diversi ruoli giocati dalle due Camere. Spetterebbe alla Camera legiferare sulle materie di esclusiva competenza statale, mentre al Senato sarebbero assegnate le cosiddette materie concorrenti.
Esiste, infine, un terzo tipo di leggi, come quelle relative alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che riguardano i diritti civili e sociali, oppure la legislazione elettorale locale, su cui le due Camere legiferano alla pari. Se in questa ultima ipotesi, però, le due Assemblee non dovessero trovare un accordo sul testo, entrerebbe in campo una terza Assemblea derivata in cui 60 componenti saranno indicati dai Presidenti delle due Camere. Questa Camera di compensazione avrà il compito di redigere un testo unificato. Una vera "Camera delle Regioni" avrebbe senso solo se esprimesse politicamente le realtà regionali, il che comporta che, nel caso in cui nella maggioranza delle Regioni prevalga un orientamento politico difforme da quello del Governo (come accade oggi in Germania), la maggioranza del Governo debba cercare, almeno su alcuni argomenti, un accordo con l'opposizione.
Se invece entrambe le Camere continuano ad essere espressione della politica nazionale, la diversificazione dei poteri e delle competenze fra di esse si riduce a una non ben giustificata discriminazione tra le due Assemblee e all'introduzione di complicazioni procedurali molto peggiori di quelle che qualcuno oggi lamenta per il bicameralismo vigente.
Questo è infatti l'esito più probabile che discenderebbe dall'attuazione del progetto. Le norme sulle competenze e sul funzionamento delle Camere appaiono incredibilmente farraginose. È facile prevedere che le conseguenze di questo nuovo iter legislativo ricadranno, ancora una volta, sulla Corte costituzionale, la quale si vedrà investita da una valanga di ricorsi volti ad appurare gli eventuali errori in procedendo.
Questo discorso ci introduce all'ultimo punto che intendiamo affrontare, ma che ci sembra ancora una volta esplicativo del lavoro di demolizione di qualsiasi istituto di garanzia democratica del nostro Paese che sta conducendo la maggioranza. Si diceva che le controversie sommergeranno la Corte costituzionale. Vorrei capire, però, cosa sarà la Corte costituzionale dopo questa riforma; cosa farete diventare uno degli organi garanti, non di questo o quell'elettorato, non degli interessi della maggioranza o della minoranza, ma dei princìpi su cui si basa lo Stato italiano.
La Corte costituzionale ha avuto fino ad oggi la funzione di dirimere questioni di sua competenza, applicando solo ed esclusivamente la Costituzione repubblicana; per permetterle di lavorare senza influenze esterne del mondo politico ne è stata pensata una composizione perfettamente equilibrata. La vostra riforma propone di infrangere questo equilibrio. Nei fatti, la vostra proposta ci restituisce una nuova struttura rappresentativa della maggioranza: chi controlla sarà in buona parte espressione di coloro che devono essere controllati. Si tratta di un ennesimo paradosso regalatoci dall'attuale Governo.
Insomma, appare del tutto evidente la pericolosità dei vostri propositi che denunciamo da quando avete presentato questa proposta: stravolgere e mortificare la Costituzione italiana è l'obiettivo primario.
Le revisioni costituzionali acquistano significato nella misura in cui sono stabili e riconosciute, non se inseguono improbabili modernizzazioni dettate da occasionali contingenze politiche. Il patrimonio costituzionale può senz'altro essere adeguato ed aggiornato, ma progressivamente, al mutare delle condizioni sociali, e su obiettivi e regole di convivenza condivise; non è auspicabile, invece, che venga esposto alle indeterminatezze delle strumentali congiunture.
Sotto questa prospettiva, il progetto di revisione costituzionale proposto dal centro-destra si rivela nella sua autentica natura: gli obiettivi di fondo, infatti, non sono tanto quelli di avviare una modernizzazione dell'originario impianto costituzionale, quanto piuttosto quelli di modificarne completamente l'impianto genetico. Da questo punto di vista, abbiamo più volte dichiarato la nostra contrarietà ad interventi di questo tipo, anche quelli proposti da alcuni esponenti del centro-sinistra che, seppur temperandone gli aspetti peggiori, finiscono poi per ricalcare le linee di principio del progetto costituzionale delle destre e riprodurne il suo stesso impianto culturale.
Sul titolo di questo testo di legge è scritto "Modifiche alla Parte II della Costituzione"; è fin troppo evidente, però, che il vostro intento è quello di travolgere in toto la nostra Carta costituzionale, a cominciare dal primo articolo che - lo ricordiamo ai signori della maggioranza - recita: «L'italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Purtroppo quell'aggettivo «democratica» va perdendo sempre più peso grazie all'agire del Governo Berlusconi. (Applausi dal Gruppo Misto-RC, Misto-Com e del senatore Piatti).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore D'Onofrio. Ne ha facoltà.
 
D'ONOFRIO (UDC). Signor Presidente, ho ritenuto opportuno prendere la parola in sede di discussione generale perché preferisco contenere l'intervento di domani in dichiarazione di voto sulle questioni essenziali di ordine politico-costituzionale; non avrei avuto tempo per cercare di spiegare, se è possibile, qualcosa di più di questa grande riforma costituzionale che il Gruppo dell'UDC ritengo voterà con grande compattezza. Si tratta, infatti, di una riforma che noi consideriamo importante e che, da questo punto di vista, riteniamo completata dalla legge elettorale proporzionale e non contrastata, come pure mi è stato dato di sentire in quest'Aula.
Signor Presidente, inizio con una considerazione che può sembrare molto lontana; bisogna, però, partire da lontano per capire di cosa si tratta. Per un lunghissimo periodo, dal 1947 fino a domani, quando si voterà questo testo costituzionale, siamo stati di fronte ad una scelta di fondo: ritenere che la cultura e la Costituzione del 1946-1947 debbano sopravvivere alle ragioni storiche che hanno condotto a quella stessa Costituzione.
Quella Costituzione non fu, come pure mi è stato dato di ascoltare in quest'Aula, oggetto di scambio e di opinioni assolutamente regolari; essa fu un serio, durissimo e forte patto politico, come è normale che sia, perché la Costituzione di un Paese è normalmente un grande patto politico. Quella Costituzione non nacque per caso in Italia tra il 1946 e il 1947, ma nacque all'indomani di una lunga e sanguinosa guerra civile, combattuta tra il 1943 e il 1945 e condotta ad una vittoria conclusiva dai partiti del Comitato di liberazione nazionale.
A quelli dei colleghi che si fregiano del titolo di costituzionalisti (cosa per la quale, ovviamente, non basta aver vinto un concorso a cattedra di diritto costituzionale) suggerirei di leggere con attenzione il libro di Costantino Mortati del 1940 sulla Costituzione in senso materiale: la nostra Costituzione repubblicana è di fatto legata alla cultura dell'arco costituzionale.
Di che cosa si tratta? Di un accordo in base al quale le parti politiche decisive dei Comitati di liberazione nazionale, soprattutto democristiani e comunisti (non solo, ma soprattutto loro) concordano che si può anche essere al Governo in formazioni diverse, ma che non si può essere diversi sulla riforma della Costituzione, la quale, una volta che l'accordo è realizzato in Parlamento tra le grandi forze politiche nella formula dei due terzi delle Assemblee parlamentari, non consente al corpo elettorale di pronunciarsi. Il patto partitocratico del 1947 questo significava e ha significato e su questo accordo di fondo è vissuto dal 1947 in poi.
Non si tratta di un'affermazione casuale, perché un personaggio di grande rilievo politico e costituzionale dell'epoca, cioè l'onorevole Togliatti, disse il 19 febbraio 1947 nell'Assemblea costituente una cosa che è rimasta a segnare l'intera storia politica del nostro Paese, appunto dal 1947 fino ai giorni nostri: non pose il contrasto tra le forze politiche che avevano dato vita alla Costituzione nei termini di un contrasto di alternativa democratica; pose la questione in termini di alternativa di legittimità: legittime erano le forze politiche che avevano concorso al patto costituzionale, illegittime - sottolineo illegittime - le forze politiche che non avevano concorso a tale patto.
E Togliatti lo disse in un momento nel quale si stava preparando, ma non si era ancora giunti, da parte di De Gasperi, alla estromissione dei socialisti e dei comunisti dal Governo. Lo disse quindi all'Assemblea costituente e sanzionò di fatto la nascita, anche nella Repubblica italiana, di quel contrasto sulla legittimazione a decidere sulla Costituzione che ha rappresentato purtroppo una costante negativa della storia politica italiana, come ripetutamente detto in un libro di poco tempo fa, del quale consiglierei la lettura a quelli che non lo avessero fatto, curato da Di Nucci e Galli della Loggia, intitolato «Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell'Italia contemporanea». Di questo si trattava e si è trattato.
Noi non abbiamo potuto discutere di fatto nel merito di una riforma costituzionale perché dall'altra parte, non tutti, ma prevalentemente e in modo decisivo, si contestava la legittimità della proposta costituzionale da parte di chi non aveva concorso alla Costituzione vigente. Questo era il patto costituzionale dell'articolo 138 della Costituzione e questo è il motivo per il quale noi cambiamo tale articolo.
Non si tratta, presidente Napolitano, di un'alternativa tra conservatori e innovatori: si tratta di un'alternativa tra chi vuole mummificare la Costituzione secondo quel patto costituzionale e chi ritiene che quel patto ha avuto un valore storico compiuto, concluso e che, come tale, va ripensato.
In che senso proponiamo un cambiamento? Il cambiamento che proponiamo (e in questo risiede la nostra grande forza democratica rispetto alla proposta alternativa) è che, qualunque maggioranza parlamentare - sottolineo qualunque - non può più impedire che si ricorra al referendum popolare confermativo sulla riforma della Costituzione.
Nel testo costituzionale vigente è scritto che, quando in Parlamento si mettono d'accordo due terzi dei parlamentari, il popolo rimane estraneo alla riforma costituzionale, mentre noi vogliamo che il popolo entri nel dibattito costituzionale, decida esso, sulla base del voto parlamentare, se confermare o meno la decisione parlamentare. Questo è il cambiamento radicale che con questa riforma costituzionale viene proposto e di questo si è trattato nel corso di questi lunghi anni.
Perché dico «questi lunghi anni», signor Presidente e onorevole Ministro? Perché noi abbiamo iniziato a discutere di riforma costituzionale nel 2002, quando la Lega Nord, in particolare il ministro per le riforme Bossi, presentò un disegno di legge soltanto relativo alla devoluzione, non un disegno costituzionale completo. Perché si è andato completando quel disegno costituzionale e in che consiste questo completamento? E perché questa grande riforma costituzionale vede l'intera maggioranza di centro-destra a sostegno di questa riforma costituzionale?
Quel disegno è partito dall'ipotesi di completare l'ordinamento federale della Repubblica e di questo va dato merito a chi ha avuto la forza di porre il problema all'inizio di questa legislatura e mi riferisco in particolare alla Lega Nord.
Rispetto alla domanda che questa poneva di un completamento del disegno federalista della Repubblica, rispetto alla modifica del Titolo V della Costituzione deliberato nell'altra legislatura dall'altra maggioranza, noi come UDC, Forza Italia ed AN abbiamo posto condizioni politiche a quella richiesta: quelle condizioni politiche sono state tutte conseguentemente accolte dal partito della Lega Nord a dimostrazione del fatto che tale Gruppo politico è passato dalla cultura del cartello elettorale alla cultura dell'alleanza politica.
E' ovvio che sulle singole questioni ci possa essere una discussione di merito, su questa o quella parte, ma occorre capire che noi siamo passati con questa riforma costituzionale, dal contesto del cartello elettorale con il quale la Lega Nord aveva iniziato la legislatura, proponendo la questione della devolution, alla logica dell'alleanza politica in tre modi tutti e tre essenzialmente rilevanti.
È stata posta la necessità di una forma di Governo che garantisca il divieto di ribaltone; abbiamo ribadito che la volontà popolare, una volta manifestatasi eleggendo un componente del Parlamento, non può essere disattesa con la concorrenza alla formazione di un altro Governo.
Egli rimane libero di determinarsi come vuole sulle leggi, e di determinarsi politicamente come vuole passando anche da uno schieramento all'altro, ma non può concorrere a formare la maggioranza di Governo dell'altro schieramento.
Altro che violazione della rappresentanza dell'intera nazione: c'è la riaffermazione forte del principio di rappresentanza della nazione. L'elettore si esprime sulla maggioranza di Governo, non su una persona. Ho detto ripetutamente che non vi è la sola elezione del Presidente del Consiglio, non vi è l'iper-personalizzazione della forma di Governo. Si eleggono contestualmente maggioranza di Governo e Presidente del Consiglio: contestualmente essi vivono o contestualmente cadono.
Di questo si tratta, non della subordinazione del Parlamento al Governo ma del rispetto in quanto tale della volontà che il voto popolare esprime eleggendo maggioranza, programma e capo del Governo.
Noi stiamo affermando il principio di volere rispettare la volontà popolare che si esprime formando maggioranze, programmi e Governi. Vogliamo tutto questo oppure no? Vogliamo che il corpo elettorale si esprima sulle riforme costituzionali comunque votate dal Parlamento o no?
Di questo si tratta ed è per questo che chi continua a dire di non volerlo, vuole soltanto la mummificazione del vecchio arco costituzionale.
L'onorevole Togliatti lo diceva nel 1947, ma quella affermazione è rimasta scolpita nel corso degli anni e fino ad oggi non è risultata ferma; è una lettura molto utile per chiunque volesse partecipare a questo dibattito non solo su argomenti di dettaglio ma sulla questione di fondo. Diceva il Presidente Togliatti: "Soltanto una maggioranza che corrisponda a questo blocco" - rappresentato dal CLN - "è una maggioranza democratica, legittima, e oltre che possibile, vitale e direi necessaria".
La questione posta nel 1947 da Togliatti è stata riproposta nel 1964 quando i due poli, il polo del Nord ed il polo del Sud, proposero una riforma costituzionale.
Fu scritto nel 1994 nel libro, che ora posso non citare ma che è "Il futuro della Costituzione" a cura di Zagrebelsky ed altri, che quella maggioranza eletta nel 1994 era formata da partiti che non avevano concorso alla Costituzione del 1947 e non potevano proporre la riforma costituzionale. Parlo del 1994; quando nel 1996, con legge costituzionale, si stabilì (con il nuovo articolo 138) che si poteva modificare con legge costituzionale la II parte della Costituzione, vi furono illustri colleghi costituzionalisti che dissero che non si poteva usare il potere di revisione costituzionale rispetto al patto costitutivo originario.
Di questo si trattava e di questo si tratta. Questo è l'oggetto del dibattito davanti a noi, non è la questione di un procedimento legislativo più o meno farraginoso, di una forma di Governo sulla quale si può essere più o meno d'accordo.
Siamo di fronte alla questione di fondo, ribadita nell'altra Camera dai colleghi Adornato e Gasparri nei confronti di chi sostiene non di contestare la riforma, bensì il proponente della riforma. Questa è la questione di fondo: si contesta il proponente. In realtà non si sta discutendo soltanto dei contenuti ma anche del proponente.
Questa riforma si colloca nel solco di questa Costituzione, pur modificando l'arco costituzionale in quello che io definirei il patto costituzionale tra una qualunque maggioranza parlamentare ed il voto popolare. Questa è la nostra proposta. Alla vecchia cultura dell'arco costituzionale proponiamo in alternativa la cultura del patto costituzionale. Di questo è chiamato a decidere il corpo elettorale italiano, ma non solo nel referendum finale. Lo deciderà anche al momento in cui si terranno le prossime elezioni politiche. È del tutto evidente che questa materia sarà considerata in modo particolare nel corso del dibattito politico prossimo. Ci mancherebbe altro.
Chiederemo agli elettori in modo chiaro e preciso di dirci se vogliono che la maggioranza che essi eleggono abbia anche una capacità di proposta costituzionale o no. Di questo si tratta ed ecco perché la materia del referendum, una volta assunta una decisione in proposito, costituirà comunque materia decisiva anche per le prossime elezioni. La domanda da porsi è se si è dentro il solco della Costituzione del 1947, cambiando l'arco costituzionale in patto, o no?
Anch'io voglio leggere la Costituzione del 1947 come ha fatto il collega Sodano Tommaso poco fa. Secondo l'articolo 1: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Questa riforma dà al popolo più o meno poteri? Mi sembra di tutta evidenza che dà più poteri. Quando il popolo decide del programma, della maggioranza e del Capo del Governo ha più poteri di quanti non ne abbia oggi. È quindi certamente nel solco dell'articolo 1 della Costituzione. Questo nel nostro testo costituzionale è scritto in modo molto chiaro.
L'articolo 2 della Costituzione mi sta molto a cuore, signor Presidente, e credo dovrebbe stare molto a cuore non solo ai cattolici ma anche ai molti liberali di questo Parlamento, e non solo dello schieramento di centro-destra. Secondo l'articolo 2: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».
Ebbene, signor Presidente, l'articolo 2, nei lunghi anni di governo democristiano, non siamo stati capaci di attuarlo fino in fondo perché è prevalsa la cultura del partito-Stato, la cultura secondo cui pubblico vuol dire statale, non quella secondo cui il sociale alternativo allo statale può essere preferito. Noi per la prima volta in questa riforma costituzionale scriviamo, all'articolo 40, che il sociale non è necessariamente statale. Non diciamo più società meno Stato, ma solo più società meno statalismo. Sono due cose diverse.
Si vuole ciò o no, come lettura della Costituzione vigente? La Costituzione vigente è intrisa di una lettura potenzialmente socialista e di uguaglianza dei punti di arrivo, di una lettura possibilmente liberale dell'uguaglianza dei punti di partenza e certamente di una cultura della solidarietà e della sussidiarietà di provenienza cattolica. La nostra formulazione è del tutto coerente con questa impostazione. Lo si vuole o no?
Nel 1977 ebbe luogo un importante dibattito che ho più volte ricordato, tra l'allora vescovo di Ivrea, monsignor Bettazzi, e l'allora segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, nel quale il primo sosteneva la necessità di battersi per una pluralità delle istituzioni, mentre il secondo sosteneva, coerentemente con il suo punto di vista, la pluralità nelle istituzioni.
Purtroppo, siamo stati per quarantacinque anni legati a quella cultura della pluralità nelle istituzioni, in cui si dice che le istituzioni promuovono le formazioni sociali, l'associazionismo e l'individuo. Noi invece scriviamo «riconoscono» le formazioni sociali e l'individuo. È un'alternativa radicale al modello statocentrico, non una centralità statale rispetto alle Regioni, ma alla cultura dello statalismo. Quello che ho appena indicato è un punto fondamentale.
Un discorso analogo può essere fatto anche per l'articolo 5 della Costituzione vigente secondo cui: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali». Chi garantisce l'unità e l'indivisibilità della Repubblica? Il Capo dello Stato e in questa riforma costituzionale lo si spiega. Chi garantisce l'unità e l'indivisibilità della Repubblica? Il potere di riconoscere l'interesse nazionale come limite comunque estremo al potere dell'autonomia legislativa anche esclusiva delle Regioni. Lo abbiamo scritto in questa riforma ma non era indicato nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione approvata dal centro-sinistra nella scorsa legislatura. Credo che siano punti fondamentali.
Il federalismo verso il quale ci muoviamo, e che non è realizzato - non ci si deve scordare che questo è un primo significativo passo politico verso una riforma federalista dello Stato - si vedrà realizzato quando si potrà parlare di federalismo fiscale nella prossima legislatura. In questa riforma costituzionale viene ribadito il principio nel quale si compongono l'autonomia legislativa anche esclusiva della Regione - la famosa questione della devoluzione - con l'unità della Repubblica.
Quindi, anche in questo senso, la riforma costituzionale proposta, signor presidente Napolitano, completa la Costituzione vigente, e la completa in un senso che non era stato possibile completare fino ad ora. Certo, la completa in termini che non sono graditi all'altra parte politica. Su questo, devo dire che capisco le ragioni della resistenza, ma si tratta di capire se tali ragioni consentono di attuare la Costituzione anche in questo modo o no.
Noi non stiamo stravolgendo la Costituzione; stiamo attuando la Costituzione in una delle due possibilità che essa prevede. Nella forma della sovranità popolare che determina i programmi, la maggioranza parlamentare e il Presidente, nella forma del riconoscimento delle formazioni sociali e nella forma della potestà legislativa esclusiva delle Regioni. Questo è un modo di attuare la Costituzione.
Non dico che quello adottato fino ad ora era un modo di non attuare la Costituzione, dico che era un altro modo, un modo statocentrico, statolatrico, nel quale prevaleva lo Stato contro il privato. È chiaro: è un altro modo. Questa è l'alternativa bipolare della quale si parla.
Occorre capire che c'è anche una cultura di alternativa bipolare nella lettura della Costituzione, non c'è solo un bipolarismo da giocattolo, nel quale si giochicchia soltanto sulle leggi marginali. C'è un bipolarismo anche di cultura costituzionale, altroché!
La cultura costituzionale da noi proposta indica una volontà bipolare di attuare la Costituzione compiutamente nel senso della sovranità popolare, del riconoscimento del privato e del riconoscimento dell'autonomia regionale dentro l'unità della Repubblica, non contro di essa.
Ho sentito dire che questa riforma costituzionale è una sorta di pegno che si paga alla Lega Nord. Su questo occorre essere chiari fino in fondo e domani, in sede di dichiarazioni di voto, lo ribadirò ancora una volta, da meridionale quale sono e quale mi sento.
La Lega Nord ha avuto il merito strategico di porre la questione della riforma dello Stato in termini politici all'inizio di questa legislatura e non in termini verbali. Questa proposta della Lega Nord è andata completandosi, come ho detto poc'anzi, con una seria di connessioni politiche nel corso dei tre anni, a cominciare ovviamente dall'incontro, molto importante e che fu percepito da tutti come tale, a Lorenzago.
Fu a Lorenzago che fu detto da chi vi parla in questo momento: "siamo qui per discutere ognuno di una parte che gli sta a cuore, o siamo a discutere di un progetto costituzionale nel quale si riconosce l'intera maggioranza politica, che è cosa diversa dal mettere ognuno la propria bandierina?". La risposta fu: "andiamo verso un patto politico di maggioranza".
La riforma che presentiamo è il cemento politico di questa maggioranza, perché non si presenta soltanto più con il volto della richiesta della Lega della devoluzione, bensì con il volto complessivo nel quale la devoluzione diventa parte della sovranità nazionale, nel quale la forma di Governo diventa parte della sovranità popolare, nel quale il primato della società civile diventa parte dell'equilibrio pubblico nuovo.
Queste sono le tre questioni che hanno fatto diventare la riforma, nel corso di questi tre anni, non più la stessa. Domani non voteremo il testo votato nel dicembre 2002: allora votammo il testo della devoluzione e basta; domani, se il Senato voterà il testo della riforma, voterà una riforma che prevede l'avvio del federalismo attraverso la devoluzione, la forma di Governo con il primato popolare, la forma di Stato di tipo federale e, da questo punto di vista, anche la fine di quel bicameralismo abbastanza anomalo che, vorrei ricordare ai colleghi del centro-sinistra, non fu voluto dalla Costituente come doppione dell'una o dell'altra Camera.
Il Costituente scelse una soluzione eccentrica, ma non voleva che le due Camere fossero l'una identica all'altra; voleva che il Senato fosse a base regionale, mentre la Camera fosse a base nazionale; voleva che il Senato durasse sei anni e la Camera cinque; voleva ovviamente che potessero esprimere maggioranze politiche diverse. Dov'è l'anomalia?
L'anomalia avviene nel 1953, quando si scioglie il Senato perché si fa la legge maggioritaria alla Camera e si vadano a rileggere le critiche mosse al presidente della Repubblica dell'epoca, Einaudi, quando sciolse il Senato dopo cinque anni mentre aveva durata di sei anni!
Fu sciolto il Senato nel 1958 per farlo durare cinque anni e fu modificata la Costituzione nel 1963, dicendo che il Senato dura cinque anni come la Camera. Allora, nasce il bicameralismo perfetto anomalo.
Con questa riforma finisce di vivere il bicameralismo anomalo e si torna all'origine della Costituzione in modo diverso: il Senato a base regionale e quindi federale, e alla Camera sarà la base politica il principio di maggioranza.
La legge elettorale proporzionale è dentro questa riforma o è contro di essa? Ma mi chiedo se avete letto l'articolo 30 della legge costituzionale? Oppure si fanno affermazioni senza leggere quali sono i termini delle questioni? Do lettura dell'articolo 30 soltanto perché qualche volta ho l'impressione che si facciano affermazioni che non corrispondono a quel che si è letto (sono contrario a queste forme di dettaglio, ma questo non è un dettaglio).
L'articolo 30 (sono contrario alle formule di dettaglio, ma questa non lo è) della riforma costituzionale afferma che «la legge disciplina l'elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo ministro».
La legge proporzionale è basata sul principio che chi ha più voti riceve un premio di maggioranza, esattamente quello che prevede l'articolo 30, il cui testo prevede altresì che «la candidatura alla carica di Primo ministro» - ci vuole veramente una riforma costituzionale - «avviene mediante collegamento con i candidati, ovvero con una o più liste di candidati all'elezione della Camera dei deputati». Eleggeremo una Camera dei deputati con le liste di candidati, quindi non capisco quale contrarietà vi sia. Non è detto che sia obbligatorio, poteva anche essere prevista una legge elettorale maggioritaria, a uno o due turni, ma quella proporzionale è una delle leggi elettorali compatibili con questa riforma costituzionale. Si può gradire o no, si può dire che piace o meno, ma non si può dire che è contraria alla riforma costituzionale.
Un'ultima considerazione, signor Presidente, riguarda la Corte costituzionale. Vorrei onestamente che i colleghi non si facessero prendere dal culto dell'ipocrisia. La Corte costituzionale attualmente in carica, non quella prevista dalla riforma, si compone di cinque giudici costituzionali nominati dalle magistrature superiori, cinque nominati dal Parlamento in seduta comune e cinque dal Capo dello Stato. Non credo che il Capo dello Stato li sorteggi, non lo ha mai fatto; temo persino che abbia considerato la provenienza politica dei giudici. Questo è del tutto evidente quando nomina giudici costituzionali persone che sono state Ministri della Repubblica; non mi risulta che i Ministri della Repubblica siano totalmente privi di appartenenza politica, anzi normalmente appartengono ad uno schieramento politico.
Tra i giudici costituzionali vi sono alcuni che sono stati Ministri della Repubblica, non è una cosa scandalosa. Ma non diciamo che diventano sette i giudici costituzionali eletti dalla maggioranza di Governo. In realtà diventano tre, mentre oggi quelli eletti in seduta comune dai parlamentari che sono espressione della maggioranza sono cinque. Quindi, da cinque si passa a tre: si tratta di una riduzione. Gli altri quattro non sono eletti dalla maggioranza di Governo; rimane ferma la riforma costituzionale, in base alla quale i giudici sono eletti a maggioranza di due terzi o dei tre quinti dei componenti del Parlamento in seduta comune. Da questo punto di vista la garanzia è totale.
Dove sta scritto che il Senato federale è composto dalle forze politiche della maggioranza di Governo? Diciamo le cose come stanno: la Corte costituzionale attualmente in carica è fortemente intrisa di valori politici ed è giusto che sia così. Cinque giudici costituzionali su quindici sono eletti dal Parlamento in seduta comune e normalmente sono scelte persone che appartengono ad uno schieramento politico; cinque sono nominati dal Capo dello Stato e normalmente egli tiene conto dei loro orientamenti politici. Quindi dieci giudici su quindici sono figli diretti o indiretti dello schieramento politico.
Nella nuova formulazione, invece, tre giudici sono nominati dalla Camera, quattro dal Senato federale e quattro dal Presidente della Repubblica. Dov'è questo snaturamento delle funzioni della Corte costituzionale? Ho dovuto ascoltare in questi due giorni, ancora una volta, dopo averle giustamente e doverosamente sentite nei mesi precedenti, cose assolutamente incomprensibili rispetto a quanto è accaduto. Sono lieto soltanto che, se domani - come mi auguro - il Senato voterà questa riforma, il dibattito che ci sarà per il referendum popolare, ci consentirà per la prima volta di spiegare con attenzione di che cosa si tratta.
Noi vogliamo il referendum, come proposta costituzionale generale, di certo non lo subiamo; il referendum diventa uno strumento normale con il quale si votano le riforme costituzionali, quindi è del tutto normale che si svolga il referendum su questo argomento.
Da meridionale, ritengo che questa scudisciata per il Sud sarà molto favorevole, perché l'orgoglio del Sud vincerà anche rispetto a questa riforma costituzionale. (Applausi dai Gruppi UDC, FI, LP e del senatore Pellicini).
 
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la senatrice Dentamaro. Ne ha facoltà.
 
DENTAMARO (Misto-Pop-Udeur). Signor Presidente, provo grande rammarico nel pensare che proprio il Senato metterà il definitivo suggello allo scempio istituzionale che la maggioranza sta perpetrando in questo quinquennio, prima con i suoi comportamenti all'interno delle istituzioni, poi con l'attività legislativa a coronamento di questa riforma della Carta fondamentale.
Uno scempio che non ha risparmiato nessuna delle istituzioni repubblicane e ha colpito in particolare e più profondamente i presidi più alti che la Costituzione pose a garanzia del principio democratico, dei diritti di libertà e della coesione sociale, i tre pilastri sui quali dovrebbe poggiare, nello spirito dei Padri costituenti, la convivenza civile degli italiani.
Si è cominciato con il Parlamento, depotenziandone ruolo e funzioni mediante l'uso distorto e l'abuso sistematico degli strumenti disponibili: dai decreti legislativi, troppi e troppo spesso viziati da eccesso di delega, oltre che politicamente scorretti per aver sottratto completamente al Parlamento materie delicatissime, alle forzature clamorose dei Regolamenti parlamentari, alla brutta prassi dei maxiemendamenti nei quali si lasciano scivolare, malcelati, i peggiori obbrobri, al continuo ricorso al voto di fiducia, la spia più drammatica della debolezza di un Governo costretto ad essere autoritario con la propria maggioranza, tanto ampia quanto sbandata e rinunciataria a supportarlo dignitosamente nel confronto parlamentare e, tuttavia, prona nel balbettare ogni volta un "sì".
In questi quattro anni abbiamo visto la prefigurazione del Parlamento disegnato ed ulteriormente peggiorato nella odierna riforma costituzionale: una Camera dei deputati ostaggio del Primo Ministro (dove anche la denominazione riflette, accanto ad una pacchiana esterofilia, il superamento di quel principio di collegialità, con un primus inter pares, che a noi piace tanto di più) e anche del manipolo dei suoi fedelissimi pretoriani, unici deputati davvero di serie A, un gruppetto marginale (nell'accezione del linguaggio economico, vale a dire dall'elevatissima utilità marginale), potenzialmente ristrettissimo, dal quale potrà dipendere la sopravvivenza o meno del Parlamento. Ci saranno poi i deputati di serie B, dai quali potrà dipendere, all'interno della maggioranza uscita dalle urne, il cambio del Primo ministro con il meccanismo della sfiducia costruttiva. Infine, i deputati di serie C, quelli di opposizione, che dovranno forse ringraziare se sarà lasciato loro diritto di parola.
Sarebbe stato più dignitoso se la maggioranza avesse avuto il coraggio di andare fino in fondo e, anziché menar vanto della demagogica riduzione del numero, avesse più semplicemente soppresso il Parlamento: per come è ridotto in questa riforma, è davvero una ipocrisia costituzionale ed un inutile costo, non della democrazia, sia chiaro, ma della demagogia.
Il rapporto Governo-Parlamento, tra l'altro, è concepito avendo chiaramente sullo sfondo la legge elettorale maggioritaria e ad essa, sia pur malamente e con mille torsioni, è adeguata. Con l'ultima trovata del sistema proporzionale si è chiesto il Presidente della 1a Commissione, relatore di entrambi i provvedimenti, come si possa conciliare questo vero e proprio vincolo di mandato, istituito dalla riforma costituzionale, con la fragilità estrema del vincolo di coalizione derivante da un collegamento appena appena dichiarato di una lista di partito ad un candidato Premier.
Passiamo al Senato, sul quale è difficile anche rintracciare un filo logico: né carne né pesce, né rappresentanza territoriale né rapporto fiduciario con il Governo; invece, un rapporto equivoco, oscuro, con i territori e con le istituzioni regionali, affidato ad una caotica contestualità di elezione, ad una odiosa restrizione dell'elettorato passivo (anche qui non è dato capire la coerenza con il nuovo sistema elettorale) e ad una sorta di diritto, neanche di tribuna, ma di partecipazione senza diritto di voto dei rappresentanti regionali e locali.
Altrettanto indecifrabile e quindi foriero di impasse istituzionale è il rapporto con il Primo Ministro, che del Senato non ha la fiducia ma ne è condizionato su scelte fondamentali per l'indirizzo politico nazionale e può comunque vanificarne il voto in ogni momento.
Il procedimento legislativo non esito a definirlo manicomiale. Non vorrei essere d'ora in poi nemmeno nei panni dei poveri studenti di diritto costituzionale.
C'è una istituzione che ancora non siete riusciti ad imbarbarire e nella quale gli italiani ripongono piena fiducia: ebbene, questa riforma riesce ad appannare e a compromettere anche il ruolo del Presidente della Repubblica. Qualcuno ricorda sicuramente il Capo dello Stato "taglianastri", così sarcasticamente definito in alcuni passaggi della Bicamerale D'Alema.
Con questa riforma non siamo lontani da quella figura: al Quirinale sono conferiti marginali poteri di nomina di cosiddette autorità indipendenti (alle quali, nel frattempo, il ministro Tremonti ha provveduto solerte a tagliare i fondi, tanto per garantirne e rafforzarne l'indipendenza), ma lo si è privato per converso della vera e fondamentale funzione di garanzia istituzionale: quella di assicurare continuità e flessibilità del sistema nelle situazioni di impasse della politica.
Attraversando la strada dal Quirinale al Palazzo della Consulta, lo scenario non è più rassicurante. Anche la Corte costituzionale vede alterato quell'equilibrio delicatissimo tra scelta parlamentare, magistratuale e presidenziale che i Padri costituenti hanno concepito e che per cinquant'anni, piaccia o no, ha assicurato la coerenza tra la produzione ordinaria del Parlamento e la Carta fondamentale. Si altera quell'equilibrio, naturalmente, in favore della politica, quella politica che certo non sta dando il meglio di sé in questi anni e nella quale i cittadini sempre meno si riconoscono e ripongono fiducia.
Anche questo presidio, quindi, si indebolisce. Il giudice delle leggi subisce sorte analoga a quella degli altri giudici, completandosi così l'opera sistematica di demolizione della magistratura e delle sue possibilità di operare a presidio dei diritti, delle libertà e dell'uguaglianza di tutti; quell'opera iniziata con la sequela delle leggi ad personam, proseguita con la brutta riforma dell'ordinamento giudiziario, sostenuta dai tagli di risorse e dai mancati interventi sull'organizzazione degli apparati, sugli strumenti, sulla giustizia civile.
Ho lasciato per ultima e non per caso la parte relativa all'ordinamento della Repubblica, quella che la corruzione anche linguistica della Casa delle Libertà ci ha abituati a chiamare con la disdicevole parola «devolution». Esistono in Europa esempi felici, virtuosi di devoluzione, ma sono fondati su precise ragioni di carattere storico, etnico, talvolta persino linguistico, non sulla scelta miope ed anacronistica dell'egoismo territoriale che si traduce alla superficie in frammentazione istituzionale, al fondo in rottura della coesione sociale. Riconoscere una Catalogna non ha nulla a che fare con l'inventare venti Catalogne!
La vostra devolution significa una cosa sola: ogni Regione avrà il proprio modello di sanità, di scuola, di polizia locale, comprensivo della quantità e qualità delle prestazioni, dei requisiti per l'accesso alle stesse, delle norme per il reclutamento del personale. Ogni Regione si darà il modello di sanità, di scuola, di polizia che sarà in grado di finanziare e questo sottrarrà risorse alla perequazione. L'Italia ne risulterà più profondamente divisa. Sarà fratturata tra Nord e Sud, tra Regioni ricche e Regioni povere, i cittadini italiani non saranno più tutti uguali nella fruizione di diritti fondamentali.
Questa è rottura dell'unità nazionale; è una forma di secessione vera, la più grave; la secessione economica, quella dei diritti e delle garanzie sociali. A nulla serve l'antidoto che un pezzo di maggioranza ha voluto iniettare in questo sistema perverso nella logica di scambio mercantile, di mercimonio politico tra pezzi di Costituzione che ha contrassegnato dall'inizio e per intero il processo di revisione voluto dalla Casa delle libertà; l'antidoto cioè dell'interesse nazionale. Una formula astratta, sicuramente inefficace, ad incidere sulla concretezza degli effetti prodotti dal potere organizzativo, comunque affidata alla decisione di una maggioranza politica e quindi inidonea a garantire alcunché; comunque foriera di interventi traumatici ed eccezionali che non servono a risolvere la questione di fondo: la rottura del principio di universalità dei diritti, l'inversione del rapporto tra regola la regola dell'universalità e dell'uguaglianza, ed eccezione.
È la I Parte della Costituzione che esce a pezzi da questa riforma. Semmai essa dovesse arrivare a compimento, l'Italia, oltre a ritrovarsi con istituzioni più fragili e squilibrate, meno garantite e meno stabili, si ritroverebbe assai meno democratica e soprattutto non sarebbe più una. Ma io sono convinta che questo non accadrà. Lo impediranno le cittadine ed i cittadini di questo Paese con l'esercizio libero e democratico del voto referendario. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. E iscritto a parlare il senatore D'Amico. Ne ha facoltà.
 
D'AMICO (Mar-DL-U). La ringrazio, signor Presidente, e le chiedo scusa. Molti di noi hanno preso la discussione un po' alla lontana; anch'io, senza farla lunga, farò altrettanto. Non c'è dubbio che nel dopoguerra abbiamo conosciuto una democrazia bloccata: anche volendo accogliere una definizione limitata di democrazia, quella secondo la quale democrazia è la possibilità per i cittadini di cambiare il Governo senza spargimenti di sangue, quella non era una democrazia compiuta.
Furono gli italiani che, con il referendum del 1991 e soprattutto con il referendum del 1993, hanno imposto ad un sistema politico recalcitrante la regola dura dell'alternanza. Per la prima volta nel 2001 è successo che si è determinato un ricambio di Governo e di maggioranza per effetto del libero voto degli italiani; non era mai successo, non solo in questo dopoguerra, ma nella storia dell'Italia unita. Restava da adeguare al nuovo impianto della legge elettorale maggioritaria, al nuovo impianto bipolare del sistema politico, il sistema istituzionale.
Vorrei ricordare, in particolare al presidente D'Onofrio, che la proposta della maggioranza nasceva dall'esplicito riconoscimento dell'esigenza di adeguare il sistema istituzionale all'impianto maggioritario e bipolare del sistema italiano. Ricordo perfettamente che allora lo stesso relatore D'Onofrio disse in Commissione che, se la maggioranza voleva andare avanti sulla via della riforma in senso proporzionale della legge elettorale, sarebbe stato necessario riscrivere questa riforma.
L'esito è paradossale poiché ci troviamo di fronte ad una riforma fatta con uno scopo che oggi viene travolto dalla decisione - a mio parere clamorosamente sbagliata - della maggioranza di ritornare ad un impianto proporzionale della legge elettorale. Ne discuteremo. Voglio solo anticipare che considero inaccettabile che una riforma elettorale non solo contraddica l'espressa volontà degli elettori del 1993 ma, così come essa è concepita, renda impossibile domani agli elettori di pronunciarsi di nuovo. Ho anche presentato un emendamento per rendere possibile la sottoposizione di questa legge elettorale al referendum.
Spero che, non oggi ma in futuro, sia consentito agli elettori di pronunciarsi su quella riforma. Se direte no, noi spiegheremo agli elettori che non volete che essi si pronuncino. Come dicevo, è una proposta di riforma schizofrenica, nata per adeguare l'assetto istituzionale al maggioritario bipolare, che si accompagna all'abrogazione del maggioritario, con effetti paradossali sulla forma di Governo.
La questione decisiva, relativa alla possibilità o meno che venga concesso al Premier di disciplinare la propria maggioranza riconoscendogli un potere di scioglimento della Camera politica, è una questione sulla quale ci siamo misurati molte volte in quest'Aula. In generale, non sono contrario al fatto che al Premier venga concesso un potere sostanziale di scioglimento della Camera politica.
Voglio ricordare in quest'Aula - riprendendo la discussione che facemmo - che sicuramente questo potere è previsto per il Premier della Gran Bretagna; è palese per tutti che ce l'ha il titolare dell'indirizzo politico nel caso francese (il Presidente della Repubblica ne ha fatto recentemente uso); in questa sede erano stati espressi forti dubbi se l'avesse anche il cancelliere tedesco, ma i fatti ci hanno confermato che ce l'ha; è evidente a tutti che lo stesso potere è previsto in Spagna, non solo in astratto, visto che è stato concretamente utilizzato dall'allora premier Aznar.
La domanda a questo punto è: con la proposta che, purtroppo, questa Camera si appresta ad approvare in via definitiva, il potere di scioglimento il Premier italiano ce l'ha o non ce l'ha? La risposta che emerge da un'analisi del testo è affermativa, ma solo ad alcune condizioni.
Analizziamo allora, dal punto di vista logico, la condizione alla quale il potere di scioglimento è subordinato. Esprimendola in termini logici, la condizione è che, rispetto all'ipotesi di scioglimento, concordi con il Premier un numero di parlamentari almeno pari alla differenza tra il numero complessivo di parlamentari del suo polo e la maggioranza assoluta della Camera dei deputati, che ha il potere di concedere e negare la fiducia. Questa condizione è assolutamente folle! Basta spiegarla per comprendere quanto sia folle.
È folle per due motivi, il primo dei quali è che si tratta di un numero variabile e, in larga misura, casuale. Inoltre, questa condizione è tanto più restrittiva quanto più consistente è stata la vittoria del Premier e della sua maggioranza: anche questo punto è francamente folle. Il Premier può esercitare il potere di scioglimento se è d'accordo con lui un certo numero, variabile, di parlamentari; tuttavia questa condizione è tanto più restrittiva quanto più grande è stata la sua vittoria. Qualcuno dovrebbe spiegarmi sul terreno logico il senso di una condizione così posta!
Ricordo che con la riforma elettorale che vi apprestate a votare questo numero di parlamentari è abbastanza contenuto. Infatti, come è noto, la riforma elettorale sostanzialmente riduce il vantaggio che avrebbe una maggioranza di voti in termini di seggi in Parlamento rispetto al sistema attuale. Quel numero, però, non è soltanto la condizione alla quale è sottoposto il potere di scioglimento del Premier, ma è anche il numero minimo di deputati al quale noi attribuiamo un potere di scioglimento. Ciò vuol dire che, con la proposta oggi in esame, se un certo numero di deputati, almeno pari a questa differenza, decidesse comunque di procedere allo scioglimento, avrebbe in mano il potere di farlo.
Ho detto che per effetto della riforma che vi apprestate a votare questo numero diventa particolarmente piccolo. Ciò vuol dire che il potere di condizionamento - e possiamo dire anche di ricatto - delle forze più piccole si accresce con il congiunto operare della riforma elettorale e di quella costituzionale. Il potere di condizionamento - in questo caso, la minaccia di scioglimento - esercitabile da piccoli Gruppi parlamentari o da piccoli gruppi di parlamentari si accresce: governabilità e stabilità di Governo vanno a farsi friggere, e con essi i problemi del Paese. In particolare, il congiunto operare delle due riforme riduce drasticamente la capacità del Governo democratico di fare fronte ai problemi del Paese.
Senatore D'Onofrio, c'erano molte proposte alternative rispetto al potere di scioglimento, e non necessariamente conservatrici. Personalmente avevo presentato una proposta semplice, cioè che fosse possibile attribuire. in via generale e sostanziale. il potere di scioglimento al Premier e che le Camere avessero la possibilità di evitare lo scioglimento eleggendo un altro Premier, ma che in qual caso si andasse velocemente a votare. In tal modo, sostanzialmente si sarebbe costituzionalizzato quanto è avvenuto tre o quattro volte nella storia della Gran Bretagna e, da ultimo, con la sostituzione in corsa dell'allora Premier, signora Thatcher.
C'erano varie proposte, ma si è scelta una strada folle, che è il risultato di complicate mediazioni politiche all'interno della maggioranza; essa, però, purtroppo va contro gli interessi del Paese e, in particolare, contro la capacità di dare al Paese un Governo stabile, efficace, efficiente e forte.
Ricordo che ogni degenerazione della democrazia verso posizioni autoritarie, di cui noi abbiamo purtroppo memoria, nasce sempre da Governi democratici deboli. Non vi è un caso di Governo democratico forte che sia degenerato in sistemi autoritari; abbiamo invece, purtroppo, numerosi esempi di Governi deboli che hanno conosciuto degenerazioni verso sistemi autoritari. La debolezza del Governo democratico è il vero pericolo per una democrazia; non lo è mai la sua forza.
Veniamo all'altro terreno, sul quale vi sono carenze veramente gravissime. Mi riferisco al cosiddetto terreno delle garanzie. L'assenza di una seria disciplina delle incompatibilità e delle ineleggibilità è un problema evidente, che io non credo sia strettamente collegato alla questione personale del Presidente del Consiglio, ma c'è un problema serio in ogni democrazia per una disciplina severa del regime delle incompatibilità e delle ineleggibilità.
Vi è poi un'altra questione, anche quella un po' paradossale. La migliore dottrina concorda sul fatto che i costituenti del 1946-1947 esagerarono con gli interna corporis. Ciò vuol dire che, di fronte al tentativo di ricostruire la forza del Parlamento, che era stata compressa drasticamente e tragicamente nel ventennio fascista, esagerarono nella direzione degli interna corporis. Un esempio evidente, sul quale tutti sono d'accordo, è che non è possibile immaginare che la verifica dei titoli di legittimazione dei componenti di una Camera siano nella mano della maggioranza pro tempore di quella Camera. Questo si presta ad abusi dei quali, purtroppo, temo cominciamo a vedere degli esempi.
Tanto più rimane in piedi la regola, di per sé sbagliata, che la maggioranza di una Camera abbia la possibilità di giudicare dei titoli di legittimazione di coloro che ne fanno parte, tanto più è probabile che si producano degenerazioni. Su questo terreno esiste un accordo generale della dottrina, eppure neanche questo è stato fatto: la possibilità di ricorrere alla Corte costituzionale avverso le decisioni di una delle Camere riguardo alla legittimazione dei propri componenti.
Poi abbiamo conosciuto (il Presidente ne ha piena coscienza) in questa legislatura spiacevolissime polemiche relative alla regolarità del procedimento legislativo. Temo che queste polemiche possano crescere nel futuro, chiunque governi, e sono polemiche pericolose per la democrazia, perché sostanzialmente investono la legittimità della legge.
Da questo punto di vista avevamo formulato più proposte; alcune prevedono il ricorso alla Corte costituzionale della minoranza parlamentare sulle ipotizzate violazioni delle norme anche regolamentari sul processo legislativo. Una norma di questo genere avrebbe svelenito il clima e forse avrebbe aiutato il funzionamento migliore delle Assemblee legislative.
Avevamo proposto, inoltre, non già un ricorso generale della minoranza alla Corte costituzionale per vizi di costituzionalità della legge, ma una soluzione più limitata, cioè la possibilità che anche la minoranza parlamentare potesse ricorrere alla Corte per violazione della Costituzione da parte di leggi sull'organizzazione dello Stato e della pubblica amministrazione. Esiste cioè un'area riservata alla legge, quella relativa all'organizzazione dello Stato e della pubblica amministrazione, che per sua natura è difficile possa essere sottoposta a controllo di legittimità della Corte, perché è difficile che il problema di legittimità possa essere sollevato in via incidentale nel corso di un procedimento.
Vi è poi il punto decisivo, quello relativo al capo dell'opposizione. La soluzione che adottate è assolutamente insufficiente. Nei regimi parlamentari moderni del bipolarismo dell'alternanza esistono o possono esistere più minoranze; esiste un'opposizione, cioè il possibile Governo di domani, che pensa sé stessa, appunto, come possibile Governo di domani e che è l'effettiva alternativa che hanno i cittadini per mandare a casa il Governo che in quel momento li governa, se pensano che quel Governo non sia adeguato alle necessità del Paese.
Allora se questo è, nei regimi moderni del bipolarismo dell'alternanza, il ruolo dell'opposizione, il ruolo del suo capo non può essere disegnato nei Regolamenti parlamentari, perché non è un ruolo esclusivamente parlamentare, è un ruolo istituzionale. E poi, se vogliamo difendere questo fragile bipolarismo italiano, abbiamo bisogno di strumenti che aiutino la coesione della maggioranza (ho provato a dire la mia sul potere di scioglimento), ma abbiamo bisogno soprattutto di strumenti che aiutino la coesione dell'opposizione, perché se l'opposizione si spappola, si frammenta, l'alternativa non c'è più, e quindi la possibilità concreta per i cittadini di determinare il ricambio non c'è più.
L'istituzionalizzazione del capo dell'opposizione è uno strumento da utilizzare proprio a questo fine: per aiutare la coesione dell'opposizione. Il che vuol dire rendere possibile un'alternativa concreta di governo per i cittadini.
Circa il complesso federalismo-bicameralismo, per dirla in forma tecnica, sostanzialmente la riforma federale trasforma tutta la legislazione in legislazione concorrente. La sostanza è questa. Si può argomentare che questa è l'unica strada possibile in un Paese moderno e complesso; tuttavia, di fronte all'enorme estensione dell'area della legislazione concorrente serve una vera Camera delle Regioni. La soluzione che è stata concepita - quella di sostanziale coincidenza temporale dell'elezione dei componenti del Senato con l'elezione delle amministrazioni regionali - rischia di essere addirittura controproducente.
Non do affatto per scontato che questo determini la regionalizzazione delle elezioni del Senato perché c'è un altro esito possibile e, forse, probabile: la sostanziale nazionalizzazione delle elezioni regionali. Quando si voterà per una Regione, l'oggetto della contesa, la posta in palio, sarà in sostanza la possibilità di cambiare la maggioranza in una delle due Camere nazionali, non già la scelta chi è più adatto a governare quella singola Regione. L'effetto può essere paradossale.
Vi è la strana possibilità, che è stata concepita affinché il Governo possa superare il voto del Senato. Come immaginiamo che evolva questa possibilità? L'evoluzione più probabile è quella più auspicabile in termini relativi, cioè che il Senato si trasformi sul piano sostanziale in Camera morta. Ogni volta che si apre un conflitto rispetto alla maggioranza politica - dato che la dichiarazione di aderenza del singolo tema al programma di Governo è, appunto, una dichiarazione, anche considerando come sono fatti in particolare i programmi di governo in Italia - l'obiezione del Senato verrebbe sistematicamente superata: è sostanzialmente la trasformazione del Senato in Camera muerta.
Trovo un po' paradossale che quest'Aula voti così, con tanta leggerezza, una proposta il cui esito più probabile è quello di trasformare se stessa in Camera muerta e, tuttavia, le alternative sono ancora peggiori perché, se non sarà così, potremmo avere la paralisi. Vista la differenziazione estrema dei meccanismi di elezione - osservo peraltro che già quello che verrà introdotto con la legge elettorale che vi apprestate a votare, prima che entri in vigore quello previsto da questa riforma costituzionale, comporta la possibilità che non ci siano le stesse maggioranze nelle due Camere - si determinerebbe, in assenza dell'effettiva operatività dello strumento di superamento che voi immaginate nella riforma costituzionale, la paralisi dell' attività di governo. Lo spettro weimariano incombe sulla Repubblica.
Una seconda alternativa è il coinvolgimento del Presidente della Repubblica nella polemica politica. E' questo singolo atto rilevante ai fini della realizzazione del programma di governo? Si tratta di una decisione squisitamente politica.
Mi appresto a concludere, signor Presidente. Purtroppo gli inviti alla ragionevolezza che vi giungono dall'opposizione e dagli studiosi e gli inviti impliciti che giungono dall'esperienza del resto del mondo sviluppato temo cadranno nel vuoto. Purtroppo questa maggioranza si conferma inadeguata a governare il Paese, ma anche a guidare la riforma istituzionale del Paese. Ci penseranno gli italiani con le elezioni e con il prossimo referendum! (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U, DS-U e Misto-Com).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Marino. Ne ha facoltà.
 
MARINO (Misto-Com). Signor Presidente, proprio qualche minuto fa sono stati rievocati gli anni Quaranta, dal 1946 al 1948, e indubbiamente non c'è il clima, non c'è la coscienza di allora, non è più la stagione dei 75, dei Padri costituenti, di Mortati, di Calamandrei, di Terracini. Non c'è più la coscienza di tenere insieme i tre princìpi richiamati dal senatore D'Onofrio, quello della solidarietà cristiana, quello dell'uguaglianza, proprio delle sinistre, e quello della libertà e dei diritti civili, espressione delle forze azioniste e liberali, che, in sostanza, costituiscono ancora la dimensione moderna dell'unità nazionale.
Si realizzò allora un sincretismo istituzionale ed ideale insieme, contro il sovversivismo dall'alto ma anche dal basso, intendendosi con quest'ultimo il gretto individualismo, le chiusure corporative e nazionalistiche.
 
Presidenza del vice presidente FISICHELLA (ore 18,40)
 
(Segue MARINO). Quando si è realizzata nel corso della nostra storia la convergenza delle forze democratiche e progressiste che si sono ispirate a questi princìpi, la nostra Repubblica è andata avanti e ha superato anche i momenti più difficili e i nodi più spinosi.
Noi Comunisti Italiani riteniamo che oggi più di prima occorra difendere e rafforzare quei princìpi, rafforzare dunque la Repubblica parlamentare, perché riteniamo vi sia l'esigenza di rovesciare la tendenza a restringere gli spazi di democrazia, di lottare contro le derive plebiscitarie per riaffermare il primato della partecipazione dei cittadini attraverso il Parlamento e la democrazia rappresentativa, ma anche attraverso le tante società intermedie, a partire dal sindacato dei lavoratori.
La democrazia non può esaurirsi nelle elezioni, ma deve trovare realizzazione anche nel rispetto dell'opposizione e nella valorizzazione delle Assemblee rappresentative e delle formazioni sociali in cui il cittadino svolge la sua personalità.
Qualcuno ha parlato di queste riforme costituzionali come riforme incostituzionali ed è stata anche ricordata la sentenza della Corte costituzionale del 1988, laddove si dice espressamente che le leggi di revisione non possono contenere norme in contrasto con i princìpi fondamentali dell'ordinamento costituzionale.
A nostro avviso, in questi anni sono stati portati attacchi gravi anche alla stessa Parte I della Costituzione, con le scelte di politica internazionale, con la partecipazione ad un'occupazione militare recente di un Paese straniero aggredito senza un casus belli e contro la Carta delle Nazioni Unite e dello stesso diritto internazionale, scelte che hanno violato quel principio di ripudio della guerra sancito all'articolo 11 della Costituzione.
Gli attacchi alla Parte I sono venuti anche con la legislazione ordinaria in materia di fisco, contro il principio della capacità contributiva e della progressività delle imposte, in materia di lavoro, di sanità, di scuola, contro i princìpi della pari dignità sociale, in materia di giustizia, infrangendo princìpi costituzionali e conducendo una lotta contro la magistratura anziché, in maniera coerente e costante, contro la criminalità organizzata e anche con queste cosiddette riforme costituzionali e con la devoluzione, tutte norme che non possono non incidere sulla Parte prima della Costituzione.
Le nostre critiche vanno poi anche al metodo. Sono stati modificati più di 50 articoli, con norme aggiuntive e tante disposizioni transitorie. Viene però utilizzato in proposito l'articolo 138 della Costituzione che, secondo la giurisprudenza costituzionale, come è noto, non può modificare i princìpi fondamentali. Ci troviamo di fronte ad una grave forzatura, se non ad un vero e proprio abuso, perché l'articolo 138 non è volto ad una riscrittura totale, ma parziale del testo, per affrontare aspetti specifici.
Lo stesso referendum confermativo viene ridotto a un prendere o lasciare. Quando si abusa dell'articolo 138 della Costituzione, anche il referendum confermativo viene depotenziato, costringendo ad accettare o a rigettare in toto il testo.
E questo testo, voglia o non voglia il senatore D'Onofrio, è il frutto di un do ut des: chi ha avuto la legge elettorale, chi la devoluzione, chi il premierato forte, chi si è accontentato delle parole "interesse nazionale", ingoiando però la devoluzione che è in contrasto con la coesione nazionale.
Il testo è il risultato inevitabile di una logica spartitoria e di una lunga mediazione tra posizioni contrastanti all'interno del centro-destra. Soprattutto è stato rifiutato il confronto. C'è stato unilateralismo anche nella riscrittura: non si sono volute scrivere regole comuni in funzione di un interesse generale e superiore.
Noi Comunisti Italiani riteniamo necessari aggiustamenti alla riforma del Titolo V approvato in passato, ma la maggioranza attuale si è sottratta anche al confronto sulle modifiche da apportare al Titolo V che, comunque, è stato frutto di una lunga negoziazione. Infatti, la Conferenza Stato-Regioni e i Presidenti delle Regioni avevano espresso il loro consenso, ma bisogna avere anche il coraggio di ammettere che quel metodo è criticabile; quindi, perché ripeterlo?
Noi allora esprimemmo contrarietà e riserve sino alla fine su alcuni aspetti della riforma del Titolo V, a partire dall'articolo 114, che afferma che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato, mettendo lo Stato sullo stesso piano, confondendo lo Stato-ordinamento con lo Stato-apparato.
Esprimemmo critiche anche rispetto all'elezione diretta dei Presidenti delle Regioni con tutte le norme di contorno, comprese quelle relative allo scioglimento dei Consigli regionali, che ha comportato, a nostro avviso, lo svuotamento del ruolo delle Assemblee elettive e degli stessi partiti. E nei contenuti, in relazione all'articolo 117 nella nuova formulazione, noi siamo per un regionalismo cooperativo e solidale.
Queste cosiddette riforme alterano l'equilibrio tra i poteri, e quindi lo stesso funzionamento della democrazia. Siamo di fronte ad uno stravolgimento degli equilibri e dei princìpi della Carta costituzionale in vigore dal 1° gennaio 1948. Siamo di fronte a sbreghi consistenti, ad attacchi alla I parte, anche perché esalta il sistema di pesi e contrappesi.
La Costituzione italiana, infatti,è un tutto armonico, c'è un equilibrio tra la I e la II parte e, oltre agli elementi di democrazia progressiva e avanzata che ho ricordato, sia pure sinteticamente, la Carta costituzionale attuale è il risultato di un patto per bilanciare i poteri, patto ispirato quasi ad una tecnica di limitazione dei poteri. Di qui, allora, la previsione di garanzie e contrappesi. Anche in questo la nostra Carta costituzionale è molto avanzata perché non è ispirata ad un'ideologia decisionista.
Ebbene, noi lanciamo un allarme istituzionale e sociale, perché riteniamo che la Costituzione sia complessivamente a rischio. Queste controriforme indeboliscono tutti gli organi che hanno posto limiti all'arroganza nell'azione del Governo di centro-destra. Parlo degli istituti di garanzia, a partire dal Presidente della Repubblica fino alla stessa Corte costituzionale.
Sono stati ritenuti sgarbi le leggi rinviate o dichiarate parzialmente incostituzionali e il Parlamento in questi anni è stato ritenuto solo un intralcio. Ma soprattutto lanciamo un allarme sociale: che significato ha, in concreto, una legislazione esclusiva delle Regioni in materia di sanità e di assistenza e di sicurezza, quando si sa che ci sono Regioni più sviluppate e altre meno (è proprio di stamattina una recente indagine sull'analfabetismo di ritorno), quando la legislazione esclusiva non riguarda solamente l'organizzazione sanitaria, ma la stessa assistenza sanitaria, come recita la norma, e non riguarda solo l'organizzazione scolastica, ma anche i contenuti, i programmi scolastici e formativi?
Noi, dal vecchio Stato corporativo e attraverso i diversi enti, siamo passati da forme di assistenza corporativa della sanità al Servizio sanitario nazionale. E così pure nella conquista della scuola media dell'obbligo, con il superamento di una vecchia divisione di classe.
Questa devoluzione, lo voglia o non lo voglia il senatore D'Onofrio, è stata scritta sotto il ricatto della Lega e non corrisponde affatto agli interessi nazionali sui quali si sofferma Alleanza Nazionale. Stravolge il principio di uguaglianza, è contro l'unità e l'indivisibilità della Nazione, contro i principi espressi agli articoli 3, 4 e 5 della nostra Costituzione e contro il principio dell'universalità dei diritti, in quanto, differenziando la tutela sociale dei cittadini a seconda delle Regioni di appartenenza, costituisce un gravissimo attacco al principio di uguaglianza e solidarietà.
Non esiste un modello simile in nessun altro Paese o in nessun altro Stato federale. Voglio ricordare che gli stessi Stati Uniti d'America hanno dei programmi federali per la sanità.
Il regionalismo è fatto per esaltare i diritti di libertà e la dignità della persona, come scrive Gramsci; invece questa devoluzione amplierà il divario tra Nord e Sud. È ipocrita parlare di rafforzamento dei poteri locali, mentre ancora con la finanziaria appena approvata dal Senato si è avuta l'ultima raffica di tagli alle Regioni e agli enti locali, che incide negativamente sui bilanci delle famiglie più deboli; per non citare l'esemplare sentenza della Corte costituzionale in ordine alla finanziaria del 2004.
L'allarme è anche istituzionale. Vi è una concentrazione di poteri nelle mani del Primo ministro senza alcun contrappeso, tant'è che il presidente Elia non ha esitato a parlare di premierato assoluto. Il Primo ministro trova la sua legittimazione sostanzialmente nella elezione diretta, non più quindi nella fiducia espressa dal Parlamento; ha la responsabilità dello scioglimento della Camera, qualora fosse sfiduciato dalla stessa.
Vi è poi la norma su una finta sfiducia costruttiva, secondo cui la sostituzione del Primo ministro avviene solo se viene approvata una mozione di sfiducia con indicazione di nuovo Primo ministro da parte dei deputati appartenenti alla sua maggioranza, cosa assolutamente irrealizzabile. Il Primo ministro è dominus del processo legislativo, dispone della sua maggioranza, determina - così dice la norma - la politica generale del Governo, il che non ha nulla a che fare con il principio di collegialità del Governo.
Oggi qual è l'esigenza prioritaria? È quella di assegnare ulteriori poteri al Capo del Governo? Non ne ha già abbastanza? Non è forse, invece, quella di recuperare la partecipazione, stante anche la crescente sfiducia dei cittadini e la disaffezione per le istituzioni previste dalla nostra Carta costituzionale?
Occorre individuare un modello di riferimento? Negli Stati Uniti d'America c'è indubbiamente un Presidente forte, ma c'è anche un Parlamento forte. In questo caso, invece, ove queste norme dovessero veramente trovare attuazione, noi avremmo un Primo ministro assoluto, ma un Parlamento indebolito per la moltitudine di decreti-legge, per i tanti voti di fiducia, per le leggi delega, per le authority, ma anche in ragione dello stesso sindacato ispettivo. Voglio in proposito ricordare che spesso alle interrogazioni non si fornisce risposta, oppure si risponde a distanza di mesi se non di anni, quando ormai hanno perso assolutamente di senso.
Si registra uno svuotamento dei poteri e delle prerogative del Presidente della Repubblica, che non rappresenta più l'unità nazionale, ma la Nazione; non autorizza più la presentazione dei disegni di legge governativi. Scompare, quindi, una norma di garanzia contro il rischio di infrangere i principi fondamentali, che evita l'uso del potere per fini illegittimi. Il Presidente della Repubblica perde il potere di scioglimento del Parlamento, sottrattogli dal Primo ministro. Insomma, dall'equilibrio dei poteri si passa ad un vero e proprio squilibrio tra i poteri.
La Camera dei deputati è assoggettata al Primo ministro sotto il ricatto dello scioglimento, ove la maggioranza non voglia approvare i provvedimenti legislativi; il Parlamento diventa un ostaggio, perde la sua centralità nell'impianto istituzionale voluto dai Padri costituenti: questo è sovversivismo dall'alto! Il Parlamento è ridotto a un votificio.
È inutile negarlo: viene rotto anche l'attuale equilibrio per quanto riguarda la Corte costituzionale, che diventa inevitabilmente più politicizzata con l'aumento in percentuale dei giudici di nomina parlamentare.
Qualche parola sul Senato cosiddetto federale. Noi Comunisti Italiani siamo sempre stati contrari al bicameralismo perfetto; ancor prima di questa discussione, abbiamo sottolineato che occorre il monocameralismo, con la conseguente riduzione del numero complessivo dei parlamentari, perché non sussistono più le ragioni storiche che spinsero, usciti dalla dittatura, ad avere una seconda Camera - la Camera del ripensamento, come la definiva Terracini - considerato che l'80 per cento della legislazione in materia economica, ma non solo, è ormai di derivazione europea ed è in questa nuova dimensione, nonché in relazione alla stessa legislazione regionale, che andava affrontato seriamente il problema del superamento del bicameralismo perfetto.
Scendendo nel merito delle norme che riguardano il Senato cosiddetto federale, la cui elezione, contestualmente a quelle regionali, avverrà nel 2011, così come delineato dalla riforma, esso non è realmente rappresentativo dei territori, delle autonomie, non è né regionale, né federale, ma è un colossale pasticcio.
Si tratta di un bicameralismo ambiguo, che prefigura percorsi legislativi di difficile comprensione, farraginosi e complicati: tre percorsi legislativi pasticciati, a seconda delle materie, per cui in qualche caso sarà la Camera a decidere per ultima, in qualche altro caso sarà il Senato in via definitiva.
Di fronte ad un disegno di legge contenente norme diverse, si dovrebbe forse disfare il testo normativo in itinere a seconda delle diverse competenze tra Camera e Senato? Insomma, un pasticcio con una perla: una norma assurda per cui, ove il Primo ministro decida che una legge fa parte del programma di Governo, quel testo viene esaminato dalla Camera cambiando la competenza costituzionale.
Riteniamo che la portata complessiva delle norme al nostro esame aprirà inevitabilmente un ampio contenzioso e conseguenti ricorsi alla Corte costituzionale.
Si tratta di un pasticcio quasi da dimenticare: riteniamo che il referendum popolare cancellerà questo obbrobrio giuridico-costituzionale. Saremo molto presenti nei Comitati di difesa dell'attuale Costituzione, che non debbono essere formati solo da giuristi perché la questione delle garanzie democratiche non riguarda solo gli addetti ai lavori; in essi devono operare le organizzazioni sindacali, quelle di categoria, le istituzioni culturali, gli intellettuali, i collettivi, insomma tutti i rappresentanti intermedi della società, perché noi Comunisti Italiani riteniamo che non si possa cancellare così la storia che ha dato origine alla legge fondamentale della Repubblica!
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Vitali. Ne ha facoltà.
 
VITALI (DS-U). Signor Presidente, colleghe senatrici, colleghi senatori, il senatore D'Onofrio nel suo intervento ha citato Costantino Mortati, il principio della Costituzione materiale da lui richiamato e anche la logica dell'arco costituzionale, figlia ed insieme connaturata alla Costituzione del 1948 e alla lunga stagione che quella Carta ha garantito ed assicurato al Paese, una stagione di democrazia e di salvaguardia dei diritti fondamentali, di libertà e di espressione politica.
Occorre ricordare che l'arco costituzionale è stato superato nel momento in cui fu superata la ragione politica e storica che diede vita a quella logica, cioè la democrazia bloccata. Prima con la caduta del muro di Berlino, poi con le leggi elettorali maggioritarie a partire dal 1993, vi sono maggioranze che si alternano alla guida del Paese e questo introduce, rispetto a ciò che i Padri costituenti ipotizzavano, cioè il mantenimento di una legge elettorale proporzionale, una novità sostanziale.
Il secondo elemento, quello della Costituzione materiale, è certamente da valutare ma, tra i princìpi della Costituzione materiale che hanno retto la Costituzione del '48, vi è stato quello per cui la medesima Costituzione non poteva essere modificata; si conveniva non potesse essere modificata solo sulla base di una maggioranza politica ma che qualora dovesse essere modificata, aveva bisogno appunto di un largo consenso. Da qui l'istituzione, a partire dagli anni Ottanta, delle diverse Commissioni bicamerali che giustamente il senatore Napolitano ha ricordato nel corso del suo intervento.
Ebbene, questa logica, cioè quella della Costituzione che viene modificata solo a larga maggioranza, è stata formalmente interrotta nel corso della precedente legislatura, ma tengo a questo avverbio formalmente. Come abbiamo ricordato nel corso di questo dibattito quella modifica era figlia della Commissione bicamerale della precedente legislatura ed anche di una richiesta, di una volontà che veniva coralmente ed unanimemente da tutto il fronte delle autonomie, delle Regioni e degli enti locali.
In realtà, quella consuetudine è stata modificata nella sostanza solo e per la prima volta in questa legislatura ed è stata modificata a partire da ciò che mai la Costituzione materiale, che finora ha retto le sorti della Repubblica, e neanche lo spirito della Costituzione del '48 avrebbero potuto immaginare o consentire, cioè il mercanteggiamento sulla Costituzione della Repubblica italiana perché questo è stato Lorenzago, senatore D'Onofrio; altro che spirito costituente! Lorenzago è nato dopo che il Senato della Repubblica aveva già votato la proposta di devolution, voluta dalla Lega Nord.
A questo si è aggiunto il Premierato, voluto da Forza Italia, e poi ancora il cosiddetto interesse nazionale voluto da Alleanza Nazionale e, infine, una legge elettorale in senso proporzionale, inizialmente voluta dall'UDC, e poi a quanto pare sposata con entusiasmo da tutta la maggioranza perché è una sorta di ancora di salvezza rispetto ad una legislatura, la prossima, nella quale voi pensate di non avere la maggioranza. Pertanto, avete ritenuto di creare le condizioni di totale ingovernabilità ed instabilità del nostro sistema politico.
Questa rottura ha dato luogo ad una modifica costituzionale globale che affronta tutti i principali temi dell'ordinamento della Repubblica: dai poteri del Capo dello Stato al ruolo del Presidente del Consiglio alla Corte costituzionale, al tema dei poteri delle autonomie locali e delle Regioni e lo avete fatto con la sola maggioranza vostra e per di più contro il parere di tutta la cultura costituzionalista italiana, di tutte le Regioni, di tutte le autonomie locali.
Per parte nostra ci appelleremo al popolo, chiederemo un referendum di abrogazione di questo stravolgimento della Costituzione democratica del nostro Paese, ma la cosa importante che ha detto anche oggi Romano Prodi, nel momento in cui è stata resa pubblica una proposta che sarà all'attenzione dei Gruppi politici dell'Unione per la formazione del programma elettorale, è che proporremo come prima misura che si modifichi il quorum necessario per le modifiche costituzionali. È vero e giusto che le modifiche costituzionali si devono fare solo a larga maggioranza.
Quindi, anche il precedente della scorsa legislatura, quello del Titolo V deve essere superato ed è necessario scrivere in Costituzione che non è più sufficiente la sola maggioranza assoluta, ma ne occorre una qualificata per modificare la Costituzione stessa. Dopodiché si potranno forse affrontare serenamente i veri problemi di aggiornamento della nostra Carta costituzionale, che sono molto diversi da quelli da voi proposti.
Interverrò in conclusione solo su un punto rispetto al complesso delle questioni su cui sono già intervenuti i colleghi del mio Gruppo e dell'opposizione. Parlo della devolution. Lunedì, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità del decreto taglia-spese del 2004. Ora, a parte che il Presidente del Consiglio ed il Ministro dell'economia con la solita arroganza hanno detto che la finanziaria va avanti ugualmente, che non se ne parla e che il parere espresso non avrà effetti, in realtà, la pronuncia della Corte costituzionale dovrebbe innanzitutto richiamare alla vostra attenzione il fatto che questo Governo, di cui appunto fanno parte forze che propongono addirittura una modifica della Costituzione italiana, è stato il più centralista della storia di questa Repubblica. Altro che devolution!
Questo Governo ha costantemente ignorato le Regioni e le autonomie locali, ha legiferato - come dice la Corte costituzionale in questa sentenza - in modo invadente rispetto alle loro competenze e, per di più, non ha dato attuazione al fondamento, al principio di ogni federalismo solidale e cooperativo, quale è quello che è scritto nella nostra Costituzione, cioè il federalismo fiscale.
L'articolo 119 della Costituzione non è stato minimamente esaminato da parte vostra. Avete dato mandato ad un'alta Commissione per il federalismo fiscale, presieduta dal professor Vitaletti, di fare proposte; quando questa Commissione ha concluso i suoi lavori e ha fatto delle proposte, non le avete neanche inviate al Parlamento, come era doveroso fare, non ne avete tenuto minimamente conto, neanche nella predisposizione della legge finanziaria per il 2006.
In più, la cosiddetta devolution, che voi proponete, tradisce i princìpi del federalismo solidale, perché non c'è dubbio che, introducendo legislazioni esclusive in materie così delicate, quali scuola, sanità, polizia amministrativa locale, si lede il principio dell'unitarietà dei diritti su tutto il territorio nazionale, scritto nella prima parte della nostra Costituzione.
E ancora, attraverso l'elencazione, nel secondo comma dell'articolo 117 delle materie oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato, nel terzo comma delle materie oggetto di potestà legislativa concorrente, nel quarto comma di quelle oggetto di potestà di legislativa esclusiva da parte delle Regioni, introducete una pericolosa confusione, segnalata nel corso di questa discussione, ma alla quale non è stata data nessuna risposta.
Come è possibile considerare la tutela della salute tra le materie di competenza esclusiva dello Stato su cui legifera la Camera politica con l'ultima parola e, contemporaneamente, prevedere l'organizzazione sanitaria tra le materie di legislazione esclusiva delle Regioni?
Non c'è dubbio che non sarà possibile distinguere tra queste due materie; nasceranno, a quel punto sì, conflitti continui e laceranti tra il sistema delle Regioni e delle autonomie e lo Stato centrale, su cui interverrà lo stesso Parlamento con il meccanismo dell'interesse nazionale, che è un meccanismo abnorme in quanto regolato politicamente.
Credo che ci siano abbastanza motivi per ritenere insensata questa modifica e per chiedere al popolo italiano di azzerarla, attraverso il referendum, per poi passare ad una discussione seria sulle modifiche, anche costituzionali, necessarie per rendere più aggiornato e più moderno il nostro sistema istituzionale. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e Misto Com).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Castellani, che - lo ricordo - ha a disposizione sei minuti. Ne ha facoltà.
 
CASTELLANI (Mar-DL-U). Signor Presidente, mi avevano detto che avrei avuto più tempo a disposizione, a seguito della rinuncia di alcuni colleghi della maggioranza.
 
PRESIDENTE. Intanto inizi, poi vedremo.
 
CASTELLANI (Mar-DL-U). Signor Presidente, onorevoli rappresentanti del Governo, credo che una riforma costituzionale ampia, come questa, dovrebbe nascere in un clima diverso, un clima che preveda un concorso ed un consenso di ampi strati della società, che preveda soluzioni condivise da un'ampia maggioranza del Parlamento, che preveda la condivisione della maggioranza degli addetti ai lavori, cioè dei costituzionalisti, dei professori di diritto delle nostre università, che preveda anche un diffuso clima di speranze e obiettivi condivisi da lasciare al futuro del nostro Paese.
Credo che di questo si tratti - mi riferisco all'intervento del collega D'Onofrio - non già di far rivivere un patto costituzionale oramai storicamente superato, ma che, nello spirito, dovrebbe essere certamente rivisitato, perché prevedeva quantomeno la necessità di una larga condivisione delle scelte adottate.
Nulla di tutto questo c'è oggi. Non c'è questo clima, ma c'è una forte contrapposizione. Addirittura siamo arrivati al voto finale di questo ramo del Parlamento anche se, all'inizio della procedura, autorevoli esponenti della maggioranza ci hanno detto che il percorso iniziava, ma certamente non si sarebbe concluso perché si sarebbe perso nei corridoi del Parlamento. Quindi, chi abbiamo visto oggi difendere la riforma per fedeltà alla coalizione di centro-destra, già allora non ci credeva ed anzi minimizzava la portata della procedura.
Ci troviamo all'atto finale perché, alla fine, la Lega ha trascinato la maggioranza, che si è vista costretta a pagare questa cambiale per tenere in vita un Governo agonizzante: questa è la verità, piaccia o non piaccia! Questo è il clima in cui ci si accinge a varare una riforma, che invece è largamente non condivisa. Mi auguro che ciò verrà dimostrato dagli elettori quando saranno chiamati al referendum confermativo.
Entrando nel merito, la riforma pone sostanzialmente tre questioni: il problema della cosiddetta devolution, quello della forma di Governo e quello del superamento del bicameralismo. Intendo soffermarmi brevemente su tutte e tre le questioni.

La devolution dovrebbe essere il vero fatto innovativo, ma per innovare quanto meno bisognava prevedere la sostituzione della novella del Titolo V approvata nel 2001; invece, con un metodo certamente non coerente, la devolution non innova, ma si innesta sul Titolo V ed aggiunge materie esclusive per le Regioni quando il Titolo V prevede le materie esclusive per le Regioni con il metodo residuale.
Quindi, su un impianto che definisce soltanto le competenze esclusive per residualità, si innestano materie esclusive di competenza regionale su questioni che, invece, sono fondamentali. Mi riferisco all'assistenza ed organizzazione sanitaria, all'organizzazione e alla gestione degli istituti scolastici e di formazione, alla definizione di parte dei programmi, alla Polizia amministrativa regionale e locale.
Vorrei capire come si concilia la potestà legislativa esclusiva dello Stato nelle stesse materie. Infatti, così come novellato, il Titolo V della Costituzione assegna allo Stato competenza esclusiva sulla tutela della salute, sulle norme generali relative all'istruzione, sull'ordine pubblico e sicurezza.
Signor Presidente, noto che lampeggia la luce rossa del mio microfono, ma non ho ancora terminato l'intervento e non mi bastano neanche due minuti per concluderlo. Mi era stato detto che avrei potuto parlare di più!
 
PRESIDENTE. Vada pure avanti, senatore Castellani.
 
CASTELLANI (Mar-DL-U). Signor Presidente, le ripeto che due minuti non mi bastano.
 
PRESIDENTE. Lei vada avanti.
 
CASTELLANI (Mar-DL-U). Tutto ciò comporta l'acuirsi di conflitti, il rischio di una vera rottura della solidarietà nazionale.
Oggi si parla molto di Patria e di Patrie e se ne parla in rapporto allo Stato. Infatti, nel momento in cui viviamo una forte internazionalizzazione dei nostri problemi, si parla di molte Patrie che, però, possano avere una composizione in un unico Stato. Il vero federalismo, infatti, sta proprio nel prevedere la coesione di molte Patrie e di molte identità all'interno di uno Stato.
Con questo progetto invece,rischiamo di avere molte Patrie e molti Stati, rischiamo quindi una rottura forte della solidarietà nazionale, dello Stato-Nazione come l'abbiamo vissuto fino adesso.
Per quanto riguarda la forma di governo, si prevede il cosiddetto Premierato forte, si pone il rapporto tra elezione dei rappresentanti e scelta del Premier attraverso una sostanziale elezione diretta, sminuendo il ruolo del Presidente della Repubblica.
Si dice che, in questo disegno, a un Governo forte corrisponde un Parlamento forte: questo non è vero, il rapporto che viene ipotizzato è tutto a svantaggio del Parlamento. Come si può controllare, stimolare il Governo, quando il Parlamento, la Camera politica è sotto il ricatto dello scioglimento da parte del Premier?
Qui viene in luce una diversa concezione della democrazia, viene in rilievo una concezione meramente formale della democrazia, che è quella del pensiero liberale. In molti si riconducono a Popper quando dice che sta nella scelta del Governo, o meglio nel suo cambiamento, il valore essenziale della democrazia. Io credo che oggi questo non basti, che non basti più questa visione meramente formale della democrazia concentrata tutta sulla formalità delle elezioni, che pure è essenziale; non basta perché, tra un'elezione e l'altra, la democrazia deve diventare partecipazione, momento di controllo e di stimolo continuo, quotidiano, non già ogni cinque anni. Non basta la delega, occorre che vi sia il momento forte del controllo e della partecipazione che, nelle democrazie di oggi, si realizza soprattutto attraverso un Parlamento forte, oltre che attraverso l'autonomia della società civile.
Ma come può il Parlamento esercitare questo suo ruolo se è sotto ricatto, se non può liberamente esercitare questo ruolo in una dialettica tra Esecutivo e Parlamento, che è garanzia reciproca di rispetto dei propri ruoli? Per una democrazia della partecipazione non meramente formale, è essenziale il ruolo del Parlamento e la riforma che viene proposta non assicura la libertà del Parlamento e la sua dialettica democratica.
Occorre poi aggiungere, signor Presidente, che tutto questo avviene perché non si è scelto tra presidenzialismo e parlamentarismo. Si è fatto un ibrido, che è il peggio dell'uno e dell'altro, perché il Premier è forte, ma non ci sono i contrappesi (come giustamente veniva ricordato da qualche collega); il Parlamento c'è, ma è sotto ricatto permanente del Premier o di una minoranza di parlamentari della maggioranza che possono impedire la sfiducia costruttiva.
Si introduce un meccanismo con il quale i parlamentari dell'opposizione non hanno alcun ruolo: contano meno degli altri, non perché sono di meno, ma perché sono ricondotti ad un recinto, quello dell'opposizione, che non possono valicare, con un vincolo di mandato, quindi, che non ha precedenti e che impedisce una libera dialettica parlamentare.
Insomma, non si è imboccata la strada vera del presidenzialismo: basti pensare agli Stati Uniti d'America, dove il Presidente non può sciogliere certamente il Parlamento; qui invece si ricorre a una via di mezzo, che nulla prevede in termini di reali garanzie. Dove sta lo statuto dell'opposizione? Che ruolo ha il Presidente della Repubblica, che è ridotto a una funzione meramente notarile?
Vi è poi la questione del superamento del bicameralismo (e cerco di chiudere). Si parla del passaggio da un bicameralismo perfetto a un bicameralismo «imperfetto», rispetto al quale la stessa parola la dice lunga: fare le leggi diventerà una corsa a ostacoli.
Vi è poi l'ultima questione. All'articolo 127 viene introdotto il cosiddetto interesse nazionale, che dovrebbe essere il fiore all'occhiello di Alleanza Nazionale, ma certamente viene introdotto in un contesto molto diverso. L'interesse nazionale può essere richiamato dal Governo senza limiti, e allora perché federalismo? Come può la Lega accettare questa introduzione e veder vanificare i suoi sforzi? È tutto e niente. Dove sono le garanzie per le Regioni che un Governo con una determinata maggioranza non invada le loro competenze e che si applichi il principio dell'interesse nazionale per ragioni politiche? Dove sono queste garanzie? Un Governo… (Il microfono si disattiva automaticamente).
 
PRESIDENTE. Senatore Castellani, sono undici minuti che lei parla, ne aveva sei, mi dica che debbo fare.
 
CASTELLANI (Mar-DL-U). Ne avevo ben di più, signor Presidente, comunque pazienza.
 
PRESIDENTE. Concluda la frase, almeno.
 
CASTELLANI (Mar-DL-U). Avevo almeno quindici minuti.
 
PRESIDENTE. Prego, concluda la frase.
 
CASTELLANI (Mar-DL-U). Dove sono le garanzie e gli strumenti? Non dovrebbero bastare le leggi cornice nelle materie concorrenti a difendere l'interesse nazionale?
La verità è che senza un coerente disegno complessivo, questa riforma è il risultato degli apporti più svariati da parte delle componenti del centro-destra. Ne risulta una specie di vestito d'arlecchino che non sta coerentemente in piedi, ma del resto è proprio questo; questa maggioranza, federalista solo a parole, è la più centralista in assoluto, com'è dimostrato dalla recente sentenza della Corte costituzionale.
Tutto ciò avviene nel disinteresse generale; il senso di estraneità rispetto a questo disegno che si avverte nel Paese lo conferma. Un senso di estraneità che è anche un rifiuto di questa politica e di questa maggioranza e la prossima primavera lo evidenzierà. Mi auguro con tutta la forza necessaria che gli elettori lo sapranno dimostrare. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U).
 
PRESIDENTE. E' iscritto a parlare il senatore Maconi. Ne ha facoltà.
 
MACONI (DS-U). Innanzitutto credo che, come abbiamo già ammesso, abbiamo sbagliato, sul finire della scorsa legislatura, ad approvare la riforma del Titolo V della Costituzione con una stretta maggioranza.
Certo, era una riforma molto più limitata rispetto all'attuale e avevamo non voglio dire giustificazioni, ma attenuanti derivanti dal fatto che c'era stato un lungo lavoro condiviso nella Commissione bicamerale e che in pratica tutte le Regioni erano d'accordo su quelle modifiche. Tuttavia, l'errore ci fu, e il timore di tanti di noi che di quell'errore la futura maggioranza, cioè l'attuale, avrebbe approfittato si è dimostrato purtroppo fondato.
Solo che nemmeno io, signor Presidente, avrei pensato che l'arroganza di questo Governo potesse arrivare fino a questo punto: a modificare ben 45 articoli della Costituzione, avendo praticamente ignorato qualsiasi possibilità di confronto all'interno del Parlamento.
Questo però non mi sorprende perché, leggendo la nuova Costituzione, risulta evidente che è il risultato di faticosi compromessi, di giochi di ricatto intrecciati all'interno della maggioranza. Non si tratta, quindi, di una riforma costituzionale disegnata sulla base degli interessi generali del Paese, ma essa rispecchia le divisioni, gli interessi particolari, gli interessi di parte di ogni singola componente di questa maggioranza. E' quindi una riforma incoerente che provocherà risultati negativi per il funzionamento delle istituzioni del nostro Paese. Questo è evidente se andiamo, sia pure sinteticamente, al merito.
Intanto c'è una rottura degli equilibri istituzionali; i rapporti tra il Presidente del Consiglio e il Parlamento sono squilibrati, a tutto vantaggio del primo. Viene quasi da dire che siamo più in presenza di un rapporto tra consiglio d'amministrazione e amministratore delegato; il Parlamento viene svuotato e marginalizzato, il ruolo del Presidente della Repubblica - è già stato sottolineato - viene svuotato anch'esso e ridotto a una figura di rappresentanza poco più che simbolica.
La Corte costituzionale, forse per una punizione preventiva, è stata anch'essa sottomessa al volere politico; ne risulta, quindi, una rottura dell'equilibrio istituzionale, dove c'è un predominio pressoché unilaterale del potere politico, mentre tutti gli altri poteri che dovrebbero servire da controllo e da controaltare ne sono sminuiti. Questo in virtù di una visione decisionista che vede nelle istituzioni non il luogo del confronto, ma il luogo dove chi vince ha il dritto di prendersi tutto e non di governare, ma quasi di comandare.
In secondo luogo, viene compromesso anche il tessuto unitario e di solidarietà del Paese. Molti colleghi l'hanno ricordato. La devolution, così come è disegnata, non è improntata ad un decentramento e ad un federalismo - se vogliamo usare un termine che abbia connotazione solidale - quale quello che noi avevamo impostato. Emerge invece un egoismo di carattere localistico, nonché la possibilità e il rischio che questioni fondamentali, legate all'organizzazione della sanità, della scuola e della polizia locale, non rispecchino più i princìpi dell'universalità e dell'uguaglianza dei cittadini di fronte all'esercizio di diritti fondamentali, quanto piuttosto divisioni territoriali che rendono i cittadini diversi a seconda della loro appartenenza territoriale.
Si dice anche che viene modificata la Parte II della Costituzione, mentre non viene intaccata la Parte I. In realtà, mettendo mano a queste tre questioni fondamentali, rompendo l'unicità e l'universalità dei servizi e quindi la tutela e la garanzia dei diritti dei cittadini, si mette mano anche a princìpi fondamentali che appartengono alla I parte della Costituzione. Anche per questa strada la riforma della Costituzione si presenta non come un rimaneggiamento o un ritocco, ma come uno stravolgimento che intacca princìpi fondamentali.
Anche rispetto alla questione relativa al privato sociale, lo ricordava il collega D'Onofrio sostenendo che si è esaltato il valore dell'iniziativa privata e si è ridotto lo statalismo, vorrei ricordare che l'articolo 118 della Costituzione fu modificato da noi. Il principio della sussidiarietà, infatti, fu introdotto da noi. La modifica che si introduce nell'attuale testo costituzionale sembra invece rispondere ad un altro principio che non è tanto quello della sussidiarietà quanto quello della visione di uno Stato minimo, che si ritrae dall'esercizio dei diritti fondamentali dei cittadini e che consegna maggiormente all'iniziativa privata la garanzia e la tutela della solidarietà.
È una visione che non può starci bene. Credo che vada invece ribadito, come fondamentale, il primato del ruolo pubblico che certamente si deve integrare con quello della sussidiarietà, ma che non può in alcun modo essere sostituito dall'iniziativa privata. Anche questo contribuirebbe a minare profondamente il principio dell'universalità e dell'uguaglianza dei cittadini.
Signor Presidente, avviandomi alla conclusione, credo che in quest'Aula non vi sia il clima proprio dell'importanza di una riforma costituzionale. I banchi della maggioranza sono vuoti, a testimonianza del fatto che non c'è alcuna volontà di confronto. Qui si aspetta soltanto l'ora finale, il momento del voto, magari in attesa di qualche sceneggiata o dell'arrivo di qualche personaggio ripreso dalla televisione.
Manca lo spirito fondamentale che deve improntare una riforma della Costituzione, quello cioè della discussione, del confronto, della partecipazione e del coinvolgimento. Purtroppo questa discussione avviene anche in un relativo vuoto di attenzione da parte dei cittadini. Credo che sia nostro compito colmare questo vuoto. Ce ne faremo carico in occasione dell'organizzazione e della promozione del referendum che - ne sono sicuro - porterà alla bocciatura di questa riforma della Costituzione.
Infine, credo che vi sarà anche la possibilità di toglierci una piccola soddisfazione. In questo ultimo scorcio di legislatura si stanno predisponendo molte leggi nell'idea di favorire una parte contro gli interessi dell'altra parte presente in Parlamento. Mi riferisco alla legge elettorale, alla riforma della Costituzione, in particolare con il predominio del Premier rispetto al Parlamento.
Ebbene, credo che oltre alla soddisfazione che ci toglieremo con la vittoria nel referendum, un'altra piccola soddisfazione sarà data da una sorta di nemesi legata al fatto che la maggioranza ha pensato a queste leggi per favorire se stessa, mentre gli elettori la smentiranno e, purtroppo per voi, di questi benefici potremo usufruirne noi, considerato che i cittadini utilizzeranno le elezioni della prossima primavera e il referendum per bocciare sia il vostro disegno politico sia quello di riforma costituzionale. (Applausi dal Gruppo DS-U).
 
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la senatrice Baio Dossi. Ne ha facoltà.
 
BAIO DOSSI (Mar-DL-U). Signor Presidente, la riforma costituzionale è giunta al suo vaglio finale e credo che sia fondamentale soffermarci su alcune riflessioni prima di entrare nel merito.
Innanzitutto, stiamo modificando parecchi articoli (cinquanta, e ne vengono aggiunti anche tre), quindi è una modifica radicale. Certo, sono modifiche della II parte della Costituzione, anche se poi cercherò di entrare nel merito almeno di un aspetto, quello sanitario, che mi interessa specificatamente anche per l'argomento che affronto solitamente nei lavori del Senato.
Il provvedimento in esame modifica la II parte della Costituzione ma, di fatto, anche alcuni princìpi fondamentali del patto tra cittadini. Un patto che è tra cittadini e generazioni, e credo che queste due definizioni siano tra le più belle della nostra Costituzione; un patto che però viene impoverito e dimezzato da questa riforma.
Viene sostanzialmente rinnegato lo spirito dei Padri costituenti, ma questo non è un atteggiamento nostalgico, non è che vogliamo mantenere lo status quo, assolutamente.
Voglio ricordare due fatti che hanno caratterizzato il 22 dicembre del 1947, non perché siamo in un'Aula in cui è necessario ricordare la cronaca storica, ma perché la storia e anche quei fatti ci devono insegnare qualcosa.
Innanzitutto, la Costituzione allora è stata approvata con 453 voti favorevoli e 62 contrari; i numeri alcune volte sono importanti, e in questo caso sono importantissimi per dimostrare quanto essa sia stata interpretata, scritta, pensata e poi votata, vuol dire condivisa, dalla maggioranza degli eletti dal popolo.
Voglio però ricordare anche un altro fatto, sperando che in queste ultime ore di dibattito, perché siamo in quarta lettura, si recuperi un po' quello spirito positivo e propositivo che vi è stato allora.
Si legge nelle cronache di quel giorno che il pubblico ha fatto la fila per ore per entrare nel Palazzo di Montecitorio; quando sono state aperte le porte le tribune si sono riempite del popolo, un popolo che aveva dentro di sé tutta la speranza di una Carta in cui si riconosceva. Dopo la votazione il Presidente ha proclamato solennemente: «L'Assemblea approva la Costituzione della Repubblica italiana», e in quell'istante è scattato un momento di festa: è stato fatto suonare l'Inno di Mameli, si è riempita la sala, ha suonato il campanone di Palazzo Montecitorio e, ancora, sono state accese le luci sulla facciata del Palazzo di Montecitorio, proprio per comunicare a coloro che erano rimasti fuori che si era compiuto un momento importante. Un momento, se vogliamo, che ha portato una luce nuova per tutte le donne e gli uomini, e voglio ricordare soprattutto le donne, che avevano votato per la prima volta nel 1946 e che finalmente vedevano una democrazia in cui si potevano riconoscere meglio e di più rispetto al passato.
Si tratta di una cronaca importante, cioè la condivisione della Costituzione sia dentro l'Aula, sia fuori, princìpi che sono stati ricordati, anche se sommariamente, dal collega Castellani. Ma dalla cronaca voglio venire alla Costituzione di oggi, a questa modifica che oggi è alla nostra attenzione, ricordando le parole di uno dei Padri costituenti: Dossetti, un uomo in cui mi riconosco profondamente e il cui pensiero credo sia ancora oggi molto attuale.
Dossetti, che era stato un Padre costituente, afferma - poi lascerò il testo integrale del mio intervento - che sostanzialmente la Costituzione non può e non deve essere letta solo come il frutto di una battaglia antifascista, di un ideale o di un'ideologia antifascista; la Costituzione era qualcosa di più. Del resto, Dossetti ce lo ha detto anche pochi anni fa, poco prima di morire.
Egli, che ha dato tanto a quel testo costituzionale, ha affermato che la Costituzione italiana del 1948 si può ben dire nata da questo crogiolo ardente e universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del post-fascismo, più che dal confronto-scontro di alcune ideologie importanti, ma pur sempre ideologie. Questa Costituzione, che resterà in vigore ancora per alcune ore, porta l'impronta di uno spirito universale e in un certo senso anche transtemporale; è la Costituzione che vive ancora oggi, dopo quasi sessant'anni.
Mi permetto di fare un'osservazione sulla riforma che proponete, con umiltà, perché non sono un'esperta costituzionalista, ma, essendo stata eletta dal popolo, voglio cercare di interpretare la profonda crisi che stiamo vivendo e tentare di offrire un contributo.
Voi che rappresentate la maggioranza del 2001 non avete accolto la nozione storica, ma anche fortemente etica, che ci deriva dal passato. Non avete accolto le nostre proposte, che non sono di parte, ma derivano da un altro pezzo di cultura che c'è dentro questa società e che non può e non deve essere dimenticata, se si vuole riscrivere una parte della nostra Costituzione.
Oltre a questa chiusura, avete messo in evidenza anche un'affermazione; avete voluto affermare con la forza dei numeri una concezione liberistica della democrazia. Peccato, perché questa democrazia è in crisi, e lo riconosciamo tutti. Anche noi, quando siamo stati eletti nel 2001, sapevamo che questa sarebbe stata una legislatura costituente, nel corso della quale sarebbe stato necessario modificare una parte della Costituzione, però non ci saremmo immaginati questo atteggiamento da parte vostra.
Vorrei offrire alcuni spunti di riflessione sul tema di cui mi occupo all'interno del Senato, la sanità. Il progetto che l'attuale maggioranza vuole approvare genera purtroppo molta confusione e non risponde più ai principi fondamentali della I parte della Costituzione. Cercherò di dimostrare questa affermazione.
Nell'articolo 117 si eliminano le materie di competenza concorrente, cioè quelle in cui le Regioni legiferano, ma lo fanno in un quadro di riferimento e di coerenza di cui è garante lo Stato. Dovremmo invece essere garanti noi, cittadini eletti dal popolo. Si eliminano quindi le materie su cui le Regioni dovevano legiferare in base ai principi stabiliti dallo Stato e si trasferisce alle Regioni l'esclusiva competenza in materia di scuola, di sanità e di polizia locale.
Quando si parla di scuola e di sanità non si parla di diritti banali, di piccoli diritti, ma si parla di quei princìpi e di quei valori che ci hanno permesso (richiamando il principio universale e transtemporale cui faceva riferimento Dossetti) di essere testimoni viventi nel mondo grazie alla Carta costituzionale.
Con questa riforma l'assetto sanitario subirà invece un regresso, non solo e non tanto dal punto di vista costituzionale e legislativo, sicuramente importante, ma anche e soprattutto per ciò che concerne il servizio offerto al cittadino nella sua concretezza. Oggi le Regioni hanno forti competenze, nel quadro degli indirizzi generali stabiliti dallo Stato, sulle gestioni delle politiche di cura e di assistenza.
Ho ricordato all'inizio i princìpi fondamentali. C'è un articolo, l'articolo 32, che non viene cancellato, ma resta lettera morta, è come se non esistesse più. Infatti, rischiamo di mettere in atto - lo pavento come rischio, ma può diventare davvero una certezza che può compromettere tutti noi, non come singoli cittadini ma come comunità che deve riconoscersi in questa Carta - 21 spettri di applicazione del diritto alla salute e alla cura e del diritto all'istruzione, due elementi fondamentali del nostro essere cittadini italiani.
Immagino che anche voi abbiate ascoltato i cittadini nelle varie Regioni d'Italia che vi hanno chiesto di tutelare questo diritto, ma anche di armonizzarlo ed uniformarlo, perché il rischio era proprio la mancanza di armonizzazione e di uniformità.
La riforma al nostro esame offre da questo punto di vista una risposta contraddittoria e banale, in quanto è semplicistico delegare alle Regioni poteri assoluti senza considerare princìpi fondamentali come il diritto alla salute e il diritto all'istruzione.
Capisco che c'era bisogno di una riforma dopo quella del 2001, in cui magari non vi siete riconosciuti; c'era bisogno della riforma fiscale, perché non è possibile dare un potere assoluto - come state facendo voi - senza una autonomia dal punto di vista finanziario che è essenziale per garantire i diritti ai cittadini, soprattutto a quelli più deboli. Oggi in Piazza Montecitorio erano presenti tutte le associazioni dei genitori delle persone disabili, che rivendicavano con molta dignità questo diritto, ma elemosinavano di essere ricevuti dalla maggioranza: ma dove sono le autonomie sociali citate nell'articolo 117 della Costituzione?
La riforma è anche contraddittoria perché mette in atto un concetto contorto e non chiaro, dove non si capisce chi deve fare che cosa: lo faranno le Regioni, lo farà lo Stato? Rischiamo di generare confusione su due diritti essenziali.
Una confusione ed una incertezza che non danno risposta alla crisi evidente e consapevole della democrazia, quella di cui tutti siamo testimoni. La democrazia, invece, è colloquio in ogni luogo sociale, un colloquio nella sua istituzione fondamentale, il Parlamento: la responsabilità educativa del Parlamento soverchia di gran lunga quella di ogni altra istituzione, perché rispecchia il pluralismo sociale e culturale della Nazione e non può essere ridotta ad uno stadio dove si affrontano rabbiosamente due squadre di giocatori, peraltro di numero impari. Queste non sono mie parole, ma di una persona che è stata un alto giurista ed anche presidente della Corte costituzionale, Casavola.
A mio parere, serviva almeno un minimo di concetto di limite: di fronte alla crisi della democrazia avremmo dovuto rispondere, magari in modo insufficiente, ma comunque rassicurante per i nostri cittadini.
Concludo ricordando le parole di un uomo, che è stato Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat «Fate che il volto di questa Repubblica sia un volto umano. La democrazia non è soltanto un rapporto fra maggioranza e minoranza, non è soltanto un armonico equilibrio di poteri sotto il presìdio di quello sovrano della Nazione, ma è soprattutto un problema di rapporti fra uomo ed uomo. Dove questi rapporti sono umani, la democrazia esiste, dove sono inumani, essa non è che la maschera di una nuova tirannide e i cittadini non vogliono sopportare un'altra tirannide».
È per questo che ricorreremo al referendum.
Chiedo, infine, di allegare agli atti il testo integrale del mio intervento. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. La Presidenza l'autorizza in tal senso, senatrice Baio Dossi.
È iscritto a parlare il senatore Legnini. Ne ha facoltà.
 
LEGNINI (DS-U). Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, quella che ci accingiamo a concludere è una discussione che dura, in sede parlamentare, da ormai oltre due anni, nel corso della quale ciascuna delle coalizioni e ciascuno dei Gruppi ha avuto modo di esprimere le proprie valutazioni e posizioni, illustrando argomentazioni politiche e di merito di ogni genere.
Non voglio, pertanto, ripetere le motivazioni addotte in ogni fase della discussione da autorevoli colleghi della mia parte politica, che hanno dimostrato con dovizia di argomentazioni giuridico-costituzionali che questa riforma è gravissimamente dannosa per il nostro Paese, perché colpisce al cuore quell'ordinamento statale, quell'organizzazione e bilanciamento dei poteri centrali, regionali e locali che ci hanno consentito di essere fieri della Carta fondamentale del nostro Stato, dei princìpi, dei valori, delle garanzie che, anche nei momenti più duri ed oscuri della storia repubblicana, hanno consentito di preservare il nostro sistema democratico.
E neanche mi illudo, nessuno di noi si illude, che voi vogliate prestare ascolto, dopo anni caratterizzati da sordità assoluta, al nostro grido di dolore per la gravissima ferita che state producendo alla vita democratica del nostro Paese e tanto meno sono, siamo, ingenui da ritenere che appelli di qualsivoglia genere, peraltro efficacemente ripetuti in quest'Aula, possano farvi ravvedere.
Voglio limitarmi ad un compito più modesto, ma per me importante, che è quello di farvi semplicemente osservare che voi, Governo, maggioranza, singoli parlamentari consenzienti su questo non commendevole articolato costituzionale, non potrete vantarvi, non potrete andar fieri del principale esercizio della più alta funzione parlamentare, quella di aggiornare, innovare, adeguare la Carta Costituzionale, presidiata, come è noto, dal procedimento complesso e garantista dettato dai nostri Padri costituenti a tutela della mutevolezza delle maggioranze, del rischio di approssimazione riformatrice, della volontà di attuare colpi di mano, come voi state facendo, all'atto dell'esercizio del potere di modifica della, per me, sacra Costituzione.
Non potrete essere fieri di aver profuso le vostre energie e di aver prestato il vostro voto, perché innanzitutto avete platealmente tradito il primo, in termini di importanza, principio che la Costituzione si incaricò di affermare, e cioè che la sua rigidità non costituiva una declinazione della voglia di conservatorismo, ma un impegno solenne a non toccare, se non in nome del popolo italiano, della volontà del popolo italiano che non può che esprimersi attraverso una larga base parlamentare, i princìpi fondanti del nostro consesso civile, della nostra comunità, che non sono soltanto quelli scanditi nei princìpi fondamentali e nella I parte della Costituzione, che sono stati e sono l'angelo custode, il lievito delle libertà e dei diritti dei cittadini italiani, ma anche quelli contenuti nella II parte della Costituzione.
L'organizzazione della Repubblica prefigurata dal Costituente repubblicano non era una delle tante modalità di assetto dei poteri possibili, ma era la modalità concreta di garantire l'equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, una costruzione che poteva, potrà, essere adeguata al mutato contesto politico nazionale ed internazionale, ma non poteva e non può esser demolita proprio in quelle parti che più furono a cuore dei Costituenti: e cioè quei presidi di garanzia costituzionali felicemente organizzati, quegli argini all'arbitrio del Governo, della maggioranza parlamentare, quegli antipodi ad ogni rischio di prevaricazione di un poter sull'altro, ad ogni tentazione di autoritarismo.
Non potrete andare fieri di questa pessima riforma, perché essa non prefigura affatto, come andate stancamente sostenendo, uno Stato migliore, un'organizzazione dei poteri centrali più efficiente, una distribuzione di potestà legislativa e di funzioni di governo tra centro e periferia più corrispondente agli interessi e alle aspettative dei cittadini.
No! Non potete vantarvi, come inutilmente tentate di fare rimanendo inascoltati dai cittadini italiani, di aver prefigurato, a mezzo della riforma della Costituzione, una democrazia più matura e consapevole, più predisposta all'ascolto della volontà popolare e all'esercizio di un governo più vicino ai bisogni dei cittadini.
No! Voi state facendo mercimonio, il contrario di quella felice sintesi di culture diverse che si determinò nell'Assemblea costituente, mercimonio di princìpi e scelte tra loro contrapposte che non funzioneranno, che renderanno il procedimento legislativo pressoché ingestibile, il conflitto (non la cooperazione) fra Stato e Regioni immanente, che annulleranno quel potere di garanzia ed equilibrio del Capo dello Stato, che affievoliranno quell'indipendenza e autorevolezza del massimo organo di controllo giurisdizionale, quella Corte Costituzionale la cui alta funzione nessuno mai aveva osato attenuare o indebolire.
Voi state tentando di costituire uno Stato più autoritario, rafforzando i poteri centrali dello Stato e delle Regioni. Altro che devoluzione, federalismo, sussidiarietà! I territori, le autonomie locali, le formazioni sociali, i cittadini non avranno più, come oggi, livelli di governo tra loro sovraordinati e dialoganti. No! Avranno due poteri centrali, quello statale e quello regionale, con meno garanzie; due padroni, arbitri del loro destino.
E' proprio brutta questa riforma. E i rischi di autoritarismo e di svilimento del ruolo del Parlamento, che riassume la volontà popolare, sono oggi enfatizzati dal combinato disposto dell'enorme rafforzamento dei poteri del Primo ministro, contenuto nel vostro progetto di riforma costituzionale, e del brutto sistema elettorale che state per imporre al Parlamento e al popolo italiano, sistema che si pone peraltro in aperto contrasto con i princìpi maggioritari di cui avete intriso la nuova organizzazione statale prefigurata in questa riforma.
I partiti scelgono i parlamentari (ai cittadini non sarà più dato neanche decidere chi deve rappresentarli), i partiti (non più il Presidente della Repubblica, non più il Parlamento) scelgono il Primo ministro. Il Primo ministro, se e quando i propri parlamentari non vorranno più obbedire, potrà mandarli a casa, potrà sciogliere il Parlamento. Di conseguenza, una persona, nella migliore delle ipotesi poche persone, saranno i titolari, gli arbitri non solo del Governo, ma anche del Parlamento e della volontà popolare.
A cosa somiglia questo sistema che andate prefigurando? Ad una democrazia moderna, efficiente, dialogante, vicina ai cittadini, o invece ad un regime autoritario? Non potrete certo vantarvi, dovrete arrossire di fronte al popolo italiano e alla storia.
Nei banchi di scuola, nelle università, in ogni luogo di formazione, in ogni istanza di esercizio della democrazia, quando si parlava e si parla di Costituzione, di quella vigente, si respirava e si respira il profumo di quei principi costituzionali che hanno formato la coscienza democratica di diverse generazioni. Noi ci sentiamo orgogliosi di appartenere alla casa costruita dai nostri Padri costituenti. Benedetti i nostri Padri costituenti!
Voi oggi tentate di rovinare, di demolire quella casa cara ai cittadini italiani. Dovremo essere noi, i cittadini italiani, a difenderla da questo attacco per poi poterla più meditatamente ristrutturare e rinnovare. Non ci avete voluto ascoltare. Ora la parola passa al popolo italiano, che è più saggio e consapevole di quanto voi possiate immaginare. (Applausi dal Gruppo DS-U).
 
Presidente. E' iscritta a parlare la senatrice Soliani. Ne ha facoltà.
 
SOLIANI (Mar-DL-U). Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, colleghi senatori, ciò che sta accadendo in queste ore nell'Aula del Senato in realtà è già accaduto. È l'ultimo atto di una storia già scritta. Tuttavia, ciò che sta accadendo ora sarà cancellato tra pochi mesi dal popolo italiano e si aprirà un nuovo ciclo della Repubblica: la primavera democratica dopo l'inverno rigido che il centro-destra ha fatto calare sulla democrazia del nostro Paese.
Questa è l'ultima tappa parlamentare, ma non sarà l'ultima parola sulla Costituzione italiana. L'ultima parola sarà quella dell'unico sovrano, il popolo, che cancellerà questo testo e la maggioranza che, da sola, l'ha scritto e votato. Un popolo che non è, come qualcuno continua a pensare, un semplice spettatore di fronte al proprio destino.
Questo è oggi il luogo, lo spazio politico in cui ci troviamo, tra lo stravolgimento che si sta portando a compimento e l'attesa di un referendum che lo boccerà. Viene in mente il Qoèlet: «C'è un tempo per ogni cosa sotto il sole ». Questa è l'ora in cui si scardina l'architettura democratica dello Stato e si mutano i suoi equilibri; si perde la semplicità e si mina l'efficacia della Carta costituzionale.
L'architettura democratica è sbilanciata, anzi sbilenca, non più in equilibrio, e il disequilibrio dei poteri riduce la libertà, l'espressione dei bisogni e degli interessi, lo spazio della partecipazione, della trasparenza e della mediazione, a cominciare dall'insignificanza del Parlamento e perciò del popolo italiano nei processi decisionali del Paese.
È qui colpito il punto basilare della democrazia, quella nata 2.500 anni fa ad Atene, nel cuore del Mediterraneo. Pericle affermava, secondo il resoconto di Tucidide: «Abbiamo un ordinamento politico che non imita quello dei vicini; lungi dall'imitare altri, siamo noi d'esempio. Il suo nome è democrazia o governo del popolo perché il governo è affidato a molti e non a pochi».
Qui oggi siamo sulla strada dell'oligarchia. La Carta costituzionale perde la sua semplicità, quell'essenzialità che ne assicura la durata. Voi, colleghi della maggioranza, da tempo avete perso il tempo dell'essenziale, cioè l'idea del bene comune.
Qui emerge la verità di un'intera legislatura: l'interesse di pochi, anzi di uno solo, contro l'interesse della democrazia, che è lo spazio di tutti. Nelle mani di uno solo si restringe il potere che chiede, invece, di essere distribuito, effettivamente, tra molti. Questa asimmetria che travolge i princìpi di unità e di uguaglianza lascia il posto alla divisione e al prevalere degli uni sugli altri e indebolisce gli organi di garanzia, in primis il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Non è l'armonia istituzionale, ma è il disordine.
È qui che fallisce anche l'efficacia della Carta costituzionale; le cose funzioneranno assai peggio e non meglio, perché qui regnano sovrane la confusione, la sovrapposizione e la rigidità che genereranno paralisi.
Si parla di devoluzione, ma in realtà intanto si pratica il centralismo. Cito un solo esempio, denunciato ieri a Parma dalla terza Conferenza del bacino del Po: lo schema di decreto legislativo sulle norme in materia ambientale cancella, per quanto riguarda il Po, le autorità di bacino, la partecipazione degli enti e dei soggetti interessati ai processi di governo dell'acqua, la consultazione delle parti sociali, colpendo a morte la rete della governance con le comunità locali.
In questa alterazione dell'impianto costituzionale, la scuola cessa di essere uno dei fondamentali fattori dell'unità nazionale. Non è neppure più chiamata con il suo nome sostanziale: è «organizzazione scolastica», cioè un fatto meramente organizzativo; affidata alle Regioni, non è più una, perché vi sono venti sistemi regionali diversi.
Non vi è più uguaglianza delle opportunità per tutti fin dai primi anni; non vi è più diritto universale all'istruzione. È l'esplosione delle differenze sociali. Mi chiedo dov'era il ministro Moratti? Non è mai stata pronunciata una parola sulla devoluzione della scuola alle Regioni, anzi il Consiglio dei ministri l'ha approvata irresponsabilmente. Un tempo era «cuius regio, eius religio»; ora è «cuius regio, eius educatio», cioè l'istruzione non è più uguale per tutti, ma cambia a seconda della Regione in cui ci si trova.
Colpita nel suo fondamento costituzionale, nella sua missione civile, la scuola vede prosciugata la sua autonomia, cioè la sua libertà. Infatti, sotto il potere di un assessore regionale anche l'autonomia delle istituzioni scolastiche è messa a dura prova.
Resta salva nel testo, grazie ad un emendamento presentato dall'opposizione, l'autonomia delle istituzioni scolastiche. Ben altro respiro avrebbe questa autonomia se fossero forti il contesto dell'unità nazionale ed il dialogo con le Regioni e le autonomie locali: solo in questo contesto, che è quello della solidarietà, sarebbe possibile costruire quel sistema nazionale autonomo delle istituzioni scolastiche che ne assicurerebbe la terzietà rispetto alle altre istituzioni e agli stessi schieramenti politici, cioè ne assicurerebbe libertà e responsabilità.
È in gioco l'idea di comunità autonoma, ma con essa è in gioco l'idea stessa di comunità; se ne è persa la nozione. Si parla di devoluzione e non si rispetta nessuno: non la scuola, che ricordo è comunità di studenti, insegnanti, famiglie, protetta dagli articoli 33 e 34 della Costituzione; non le Regioni e le autonomie locali, ridotte a casse - peraltro magre - da saccheggiare, come ha ben visto la recente sentenza della Corte costituzionale dichiarando l'illegittimità del decreto del 2004 sul contenimento delle spese pubbliche.
Signor Presidente,colleghi senatori, questo testo non è la nuova Costituzione degli italiani. È lo sgorbio di quello che era un disegno delle istituzioni; è la rottura di un patto che ha unito il popolo alle istituzioni e che non è stato - come ha affermato Giuseppe Dossetti - un qualunque compromesso.
Questo è un grande inganno del popolo italiano. È l'apertura di un vaso di Pandora da cui usciranno mostri: il diritto civile travolto dalle diverse legislazioni regionali, il contenzioso moltiplicato, le discriminazioni non solo di genere o di razza, ora anche di Regione.
Questa operazione, maldestra e truffaldina, è soltanto un pasticcio, un coacervo di incompetenza e di cinismo, l'ennesimo scambio all'interno della maggioranza per tentare di sopravvivere.
Quando tutto sarà concluso, non resterà che il ricorso al giudice ultimo di ogni cosa, il popolo italiano. Saranno i cittadini allora a riprendere in mano, dal fango e dalle macerie in cui l'avete trascinata, la bandiera della Costituzione italiana, innalzata sessant'anni fa dalla Resistenza prima e dall'Assemblea costituente poi, quando le donne e gli uomini di quella stagione raccolsero in quel testo ciò che allora restava, nella coscienza dei sopravvissuti dopo la grande tragedia: il senso della dignità dell'uomo e della sua libertà, l'orizzonte della democrazia, della solidarietà senza confini, della pace. Parole e sostanza scritte con il sangue.
Voi tentate di abbattere ora quell'architettura e quel disegno perché già ne avete smarrito il senso, la cultura, la memoria. Tutta questa legislatura lo dimostra, dall'inizio del falso in bilancio a questo sinistro trittico finale: devoluzione, legge elettorale, par condicio, l'una di volta in volta sovrapposta, intrecciata, in contrasto con l'altra.
Vedete, per essere rappresentanti del popolo in Parlamento non basta fare numero: bisogna saperne interpretare storia e prospettiva. Non siete riusciti a farlo né per l'una, né per l'altra. Non state dicendo nulla ai giovani.
Ora il vostro tempo sta scadendo e con voi vorreste che scadesse anche il tempo dell'Italia e della sua Costituzione. Non sarà così. Il vostro tempo si va allontanando, ma un altro tempo si avvicina. E sarà il tempo della ricostruzione nazionale. Se ora è notte, si farà giorno; come dicono in Romagna, «se l'è not, us farà dè». (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U, DS-U, Verdi-Un e Aut. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritta a parlare la senatrice Stanisci. Ne ha facoltà.
 
STANISCI (DS-U). Signor Presidente, fa impressione: da ore la parte destra di quest'Aula è vuota. Simbolico questo disinteresse da parte della maggioranza, che sceglie di non esserci in un momento in cui l'ascolto delle ragioni dell'opposizione e di una buona parte del Paese sarebbe quantomeno doveroso.
Eppure, ciò che si sta discutendo non è una norma qualsiasi di una legge qualsiasi. Oggi, in quest'Aula, stiamo discutendo non di federalismo, ma di devolution, che mira solo a frammentare lo Stato nazionale. La devolution, infatti, prevede la divisione economica, sociale, culturale delle venti Regioni italiane. Con essa si tenta di scrivere la parola fine ai diritti uguali per tutti, alla solidarietà, alla sanità, alla scuola ed alla cultura.
Finisce l'idea di Stato nazionale, perché finiscono le ragioni per cui esso è nato. Ci sono voluti quattro secoli di discussione politica e circa un secolo di guerre risorgimentali per unire i territori italiani ed ora questo Governo, con un colpo di spugna, intende cancellare l'Italia e la sua Costituzione.
Voi della maggioranza - che non siete presenti - siete talmente bravi da compiere in poco tempo una lacerante divisione su un territorio che ha visto Mazzini, Cavour, Garibaldi lottare e soffrire per dare dignità al nome d'Italia. Siete davvero molto bravi!
In un lasso di tempo molto breve avete promosso leggi come la Cirielli, la legge elettorale, la riforma della scuola, che sta destabilizzando il sistema dell'istruzione e dividendo gli studenti in studenti di serie A e di serie B, affidando le sorti dei licei allo Stato e relegando alle Regioni gli istituti professionali.
La Costituzione prevede che l'istruzione sia di competenza dello Stato e già questo, proposto prima della devolution, è un fatto di inaudita gravità, che penalizza tanti giovani, soprattutto nel Mezzogiorno.
Per non parlare di un patrimonio di saperi e di esperienze, rappresentato dagli istituti tecnici e professionali, che si perderebbe, con il conseguente arretramento culturale di molti territori del nostro Paese. Leggi non condivise dai cittadini italiani perché non utili e, anzi, per loro dannose.
 
Presidenza del vice presidente DINI (ore 20)
 
(Segue STANISCI). In questi anni avete fatto esercizio di baratto scambiando le istituzioni, lo Stato e i poteri per tenere insieme una maggioranza il cui cemento è costituito solo dal ricatto. Vi siete divisi le vesti: la devolution alla Lega e la riforma scolastica, la legge elettorale e la Cirielli a Forza Italia. Non è invece chiaro cosa ne viene ad AN. Questa parte dell'eredità non è molto chiara soprattutto se si considera che il simbolo di questo partito è il tricolore, spesso usato a meri fini di propaganda, che dovrebbe parlare di unità nazionale e di Stato unitario. Alleanza nazionale ha regalato il tricolore alla Lega ricevendone in cambio uno straccio verde della Padania, infliggendo un grave vulnus alla Carta costituzionale che rappresenta un patto: il patto tra le forze politiche e lo Stato sovrano.
La modifica di 50 articoli della Costituzione non è merce di scambio. Vengono riscritti in modo pasticciato i rapporti tra Stato e Regioni, vengono riformati tutti gli organi di garanzia, svuotati di poteri essenziali. C'è un rischio per il Paese se non vi fermate: il rischio di una deriva nella quale l'Italia potrebbe annegare. La maggioranza parla sempre di riduzione di spese, di sprechi e di tagli e su questo ha costruito anche la finanziaria del 2006. Chi pagherà ora i costi di questa che viene chiamata devolution?
Al danno riveniente dalla disgregazione delle garanzie di uguaglianza si aggiunge quello del costo che i cittadini sopporterebbero a causa della devolution in un periodo in cui le risorse pubbliche scarseggiano e il sistema produttivo versa in una grave crisi. La maggioranza spesso ha parlato anche del Meridione d'Italia in termini di assistenzialismo, accusando il Sud di essere una palla al piede per lo sviluppo del Paese.
Da meridionale sarei quindi tentata di credere che questo sia uno degli scopi: sganciare definitivamente il Mezzogiorno dall'Italia. Spesso ho sognato, sapendo di sognare, un'Italia ricca, bella e istruita, dal Capo di Leuca ad Udine; un'Italia piena di opportunità, a Brindisi come a Milano, che riesce a garantire cura, formazione, istruzione e sicurezza a tutti i cittadini italiani.
La maggioranza non sa che sta sognando e confondendo il sogno di una grande riforma con questa cosa chiamata "devolution". Se non fosse confusa avrebbe capito che il messaggio inviato dai cittadini italiani il 16 ottobre è: manderemo a casa il centro-destra che sta governando senza più maggioranza e che con le sue scelte manca di rispetto agli italiani, a coloro che lo hanno votato e a coloro che non lo voteranno più.
E' forse giunto il tempo che si incominci a capire che nessuno è padrone dell'Italia. Solo la disperazione può aver spinto la maggioranza a tale grave attacco alla democrazia; un attacco senza futuro per chi lo ho sferrato. A quattro anni dal suo insediamento questo Governo mostra ogni giorno di più l'incapacità di condurre l'Italia verso la modernizzazione e il rilancio. Per il terzo anno consecutivo la crescita economica è inferiore all'1 per cento.
Le famiglie italiane sono in forte difficoltà: non c'è prospettiva per i nostri giovani che tornano ad emigrare come negli anni Cinquanta. L'Italia non riesce a competere con il resto dell'Europa; cresce la spirale dell'illegalità e il Meridione è sempre più debole e solo. Il Governo, anziché occuparsi di come far uscire dalla crisi il nostro Paese investendo su settori trainanti dell'economia, gioca con la Costituzione.
Non si vogliono rafforzare le Regioni, non c'è una seria proposta di federalismo. Si sta cancellando ciò che già esiste: la possibilità di accedere a contributi finalizzati, atti a valorizzare il Mezzogiorno.
Nel 2001, con la riforma del Titolo V della Costituzione, si disponeva la destinazione di risorse aggiuntive e si prevedevano interventi atti a promuovere la coesione e la solidarietà sociale, rimuovendo gli squilibri economici e sociali. Fino al 2001 è stata la solidarietà una costante del legislatore; poi, con l'avvento del centro-destra, è iniziata per il Paese una parabola discendente. Con la devolution si giunge ad un abbandono degli interventi di perequazione, di distribuzione delle risorse
Il Sud d'Italia viene condannato al languore grazie anche ai continui tagli che
derivano dalle finanziarie. Cosa pensano di questo i colleghi meridionali? Dove sono? Quali territori rappresentano? Quale scuola, quale sanità, quale agricoltura, quale società stanno progettando, per la Puglia, la Calabria, la Sicilia, il Molise, la Campania e tutto il resto del Meridione?
Questa che stiamo discutendo è l'involuzione del sistema Italia, perché si sta calpestando il principio cardine dello Stato democratico, cioè la sovranità, la tutela di tutti.
Di fronte ad un Meridione in ginocchio occorre che lo Stato unitario dia una risposta facendo un salto in avanti, non un salto nel buio. Occorre mantenere le garanzie dell'unità nazionale per non allontanare le istituzioni dal Paese, per non mandare il Sud alla deriva nell'indistinto mare Mediterraneo. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e della senatrice De Petris. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Peterlini. Ne ha facoltà.
 
PETERLINI (Aut). Signor Presidente, onorevole signor Ministro, onorevoli colleghi, siamo arrivati alla fase finale di un disegno che intende cambiare il quadro costituzionale del nostro Paese. La domanda d'obbligo che si deve porre in questo momento è sull'opportunità di uno stravolgimento costituzionale e dell'assetto organizzativo della Repubblica.
Il progetto è partito con la spinta propulsiva della Lega Nord per un grande obiettivo che il Gruppo per le Autonomie, che può vantare un'esperienza storica sul tema dell'autogoverno, condivide nei suoi princìpi.
In base alla sua storia, alla sua cultura, e soprattutto in base agli accordi internazionali, l'Alto Adige/Südtirol ed il Trentino godono di un'autonomia speciale e di una tutela delle minoranze linguistiche delle quali i rappresentanti del Governo italiano a livello internazionale giustamente esaltano la qualità ed il carattere, oltre alla capacità di risolvere i problemi di territori di confine e di minoranze etnico-linguistiche.
Spesso siamo invidiati per questa nostra autonomia, che ci ha offerto l'opportunità di gestire il bene pubblico con maggiore efficienza e con un impegno mirato delle risorse a favore dei cittadini della nostra terra. Ne è palese dimostrazione il fatto che recentemente un Comune del Veneto ha addirittura chiesto l'annessione alla Regione Trentino-Alto Adige. La chiave di questo successo però non sta solamente nell'autonomia, ma anche nella capacità di valorizzarla ed attuarla.
Vorrei ricordare in questo contesto che le Regioni a Statuto speciale in Italia sono cinque, le due grandi Isole e le tre Regioni ai confini del Nord. La più ampia autonomia costituzionalmente garantita è quella della Sicilia, perché quest'ultima è diventata Regione a Statuto speciale prima dell'entrata in vigore della Costituzione italiana e pertanto ha potuto usufruire di una specialità assai maggiore di quella del Trentino-Alto Adige/Südtirol e della Valle d'Aosta.
A dispetto del fatto che non in tutte le Regioni speciali sia riuscita la valorizzazione di questa autonomia allo stesso modo, rimane il fatto comune che la gestione autonomistica ha dato al proprio territorio frutti visibili sotto gli occhi di tutti: ospedali che funzionano, scuole a livello europeo, case popolari, lavoro, promozione dell'industria e del turismo.
Ho avuto l'onore per dieci anni di presiedere il consiglio regionale del Trentino- Alto Adige e come tale di partecipare alle riunioni dei Presidenti delle assemblee e dei consigli regionali del nostro Paese. In questo ambito è stato spesso posto il problema della disparità tra le varie Regioni con l'intento di portarle tutte allo stesso livello. Le strade per raggiungere questo obiettivo sono due; una è quella di togliere la specialità alle Regioni autonome riducendo il loro potere, impoverendo le loro competenze e portandole a livello delle Regioni ordinarie.
Non è il momento di soffermarci sulle implicazioni internazionali di questa strada, visto che ciò violerebbe accordi internazionali ai quali l'Italia ha solennemente aderito, ma vorrei evidenziare che questa soluzione darebbe luogo ad un livellamento verso il basso.
L'altra via è quella di valorizzarle tutte e di portarle, passo dopo passo, al livello delle autonomie speciali. Ed è questa la via che suggeriamo a tutti coloro che ci invidiano per il livello raggiunto dalla Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
Ed è questo il motivo per il quale - e lo ripeto - condividiamo la volontà e i nobili princìpi di trasformare l'Italia in uno Stato federale, in cui tutte le Regioni possono godere di una propria autonomia e gestire il bene pubblico in modo efficiente e vicino alla gente.
La Lega Nord di questi nobili princìpi ha fatto il proprio cavallo di battaglia ed in questo intento la sosteniamo e la ringraziamo. Tuttavia, l'impegno di trasformare l'Italia in un moderno Stato federale è stato contrastato all'interno del Governo da forze politiche che perseguono obiettivi completamente opposti.
Il disegno che nel gergo popolare si chiama "devolution" prevede quattro competenze che dovrebbero passare dallo Stato alla competenza esclusiva delle Regioni: l'assistenza e l'organizzazione sanitaria, l'organizzazione scolastica e la gestione degli istituti, i programmi scolastici e formativi di interesse regionale e, infine, la polizia amministrativa regionale e locale.
Sono competenze importanti, che daranno sicuramente alle Regioni la possibilità di migliorare e ampliare il proprio raggio d'azione in questi settori. Tuttavia, non comportano alcuna rivoluzione e destabilizzazione dello Stato, come qualcuno in quest'Aula ha voluto far credere. Anzi, si tratta di competenze di cui le Regioni a Statuto speciale in gran parte già godono e che sono ben delimitate e circoscritte. Sono però, soprattutto, contrappesate da una serie di misure e competenze che ampliano, in completo contrasto con l'obiettivo federalista, il potere dello Stato.
A dimostrazione di ciò, basta guardare le nuove competenze, sempre all'articolo 117, che con questa riforma vengono tolte alle Regioni e riportate nella competenza degli organi centrali dello Stato, come ad esempio la tutela della salute, che viene direttamente ad incidere e limitare la competenza sull'assistenza ed organizzazione sanitaria, la sicurezza del lavoro, le grandi reti strategiche di trasporto e navigazione, l'ordinamento delle comunicazioni, delle professioni e dello sport, la produzione strategica e tante altre. C'è da pensare che la lista delle competenze ricondotte alla sfera dello Stato sia più lunga di quella delle nuove competenze regionali.
Ciò che maggiormente ci preoccupa è il nuovo centralismo, richiesto dalle altre forze di Governo per controbilanciare la devolution, richiesta e ottenuta dalla Lega Nord. Ne sono palese dimostrazione, oltre alle competenze ricondotte alla sfera dello Stato, la figura centrale del cosiddetto Primo Ministro, nonché il potere del Governo di impugnare tutte le leggi regionali davanti al Parlamento in seduta comune, che può annullare le relative leggi o disposizioni.
Per quanto riguarda il primo aspetto, ci preoccupa che lo strapotere affidato al Primo Ministro vada a scapito del Parlamento e della funzione di garanzia del Capo dello Stato. Nel caso di approvazione di una mozione di sfiducia del Parlamento verso il Primo Ministro (cito l'articolo 94), il Presidente della Repubblica decreta lo scioglimento della Camera dei deputati ed indìce le elezioni. Lo stesso si verifica nel caso in cui la mozione di sfiducia sia stata respinta, ma con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni.
Questo cosa significa? Significa, in parole povere, che il Parlamento ogni qualvolta non condivida le impostazioni date dal Primo ministro debba accettare la drammatica conseguenza dello scioglimento e di nuove elezioni. Questo significa, inoltre, diminuire la libertà d'azione del Parlamento, espressione democratica del popolo e del corpo elettorale, sottoponendola alle direttive del Primo ministro.
Apprezziamo, in questo disegno, lo sforzo di trasformare una delle due Camere in una Camera delle Regioni, che dia espressione al nuovo contesto federale costituito dalle Regioni. Ho però già lamentato in quest'Aula che ritengo storicamente sbagliato usare per questo obiettivo il Senato, che trova le sue radici nell'antichità classica romana. Nel rispetto della grande storia del nostro Paese, sarebbe stato molto più opportuno trasformare la Camera dei deputati nella Camera delle Regioni. Il Senato cosiddetto federale, infatti, non sarà l'espressione delle varie assemblee regionali, come succede in Germania, in Austria e in altri Stati effettivamente federali. Esso verrà eletto a suffragio universale diretto e pertanto verrà eletto in modo analogo alla Camera dei deputati.
L'unica connessione con le Regioni rimane il fatto che le elezioni del Senato avverranno contestualmente con l'elezione dei Consigli regionali. Non è pertanto un Bundesrat, secondo i modelli degli Stati nordici. Una bella copia poteva essere una rappresentanza diretta delle Regioni, un rafforzamento della già esistente Conferenza Stato-Regioni, con vere rappresentanze regionali e una vera camera delle Regioni; ma il Senato federale, come lo stiamo costruendo, sarà una brutta copia di questo modello e ne sono dimostrazione soprattutto le sue competenze, il cui nucleo centrale è costituito dalle stesse competenze attribuite alle Regioni nelle materie di competenza concorrente. In altre parole, il Senato federale è condannato a fare leggi quadro per delimitare tali competenze delle Regioni, per fissare i principi direttivi e limitare così le autonomie regionali.
Ci preoccupa, inoltre, uno strumento lasciato alla discrezionalità del Governo e del Parlamento, quello di impugnare e annullare le leggi delle Regioni per il cosiddetto interesse nazionale. Mentre nella Costituzione vigente le leggi regionali e provinciali possono essere impugnate giustamente davanti alla Corte costituzionale, ora si vorrebbe introdurre uno strumento politico, che offre alla maggioranza la possibilità di rinviare ogni legge e disposizione varata dalle assemblee regionali.
Queste sono le nostre principali obiezioni ad una riforma costituzionale che condividiamo nei suoi obiettivi, che tuttavia non si concretizzano in questa riforma. Prendiamo però atto con soddisfazione che il Governo abbia voluto rispettare gli accordi internazionali e l'assetto speciale delle Regioni autonome.
Vorrei cogliere l'occasione per ringraziare soprattutto il Ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione, l'onorevole Roberto Calderoli, che qui ci sta seguendo, per la sua sensibilità verso le rivendicazioni delle Regioni a statuto speciale e verso le nostre preoccupazioni. Prendiamo atto con soddisfazione soprattutto dell'articolo 54 del disegno di legge, che prevede che «Le disposizioni di cui al Capo V della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano, per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite».
Per togliere ogni dubbio interpretativo sull'ampiezza di questa clausola di salvaguardia prevista dalla Costituzione, abbiamo posto sia in quest'Aula, sia per iscritto al Governo la questione di applicabilità del nuovo articolo 45 del disegno di legge, che va a modificare l'articolo 127 della Costituzione e che introduce il ricorso alle Camere per l'annullamento delle leggi regionali. Il Ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione ci ha risposto con lettera datata 20 gennaio 2005 fornendo una chiarificazione importante, che cito testualmente.
Chiedo, signor Presidente, se possibile, di poter allegare agli atti lo scambio di lettere con il ministro Calderoli, affinché diventi parte integrativa degli atti parlamentari.
 
PRESIDENTE. Va bene, senatore Peterlini, consegni il testo alla Presidenza.
 
PETERLINI (Aut). Il Ministro, in risposta ad una mia nota del 15 dicembre 2004, precisa che «in base all'articolo 54 del disegno di legge costituzionale n. 2544, le modificazioni concernenti il Titolo V della Parte II della Costituzione si applicano in via transitoria, ovvero fino all'adeguamento dei rispettivi Statuti, anche alle Regioni speciali per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite». Il Ministro analizza poi la questione «se possa applicarsi alle Regioni speciali la modificazione dell'articolo 127 della Costituzione, introdotta dall'articolo 45 del disegno di legge costituzionale, concernente il procedimento di verifica circa il rispetto dell'interesse nazionale da parte delle leggi regionali».
Conclude, pertanto, il Ministro per le riforme istituzionali: «Ritengo di dover sottolineare come una disposizione del genere - ove riferita alle Regioni speciali in modo incondizionato e senza distinzione di materia - determinerebbe una compressione dell'autonomia già attribuita, in quanto in nessuno degli Statuti di autonomia è previsto un procedimento analogo. È dunque mia opinione che la disposizione recata dell'articolo 54 del disegno di legge costituzionale porti ad escludere l'applicabilità del procedimento relativo all'interesse nazionale alle leggi delle Regioni speciali e delle Province autonome».
Ringrazio il ministro Calderoli per la chiara interpretazione in fase preliminare della prima lettura al Senato, che ci ha portato - lo sottolineo - come rappresentanti delle minoranze linguistiche alla decisione di non presentare emendamenti al riguardo al disegno di legge, non ritenuti opportune e necessari alla luce di questa chiara interpretazione.
Ci è, inoltre, di conforto che, durante la trattazione del relativo articolo nel dibattito nell'Aula del Senato, nonostante la difficoltà di poter accettare per motivi tecnici un nostro ordine del giorno, il presidente della Commissione affari costituzionali del Senato, senatore Andrea Pastore, abbia confermato la chiara interpretazione del Ministro che abbiamo sottoposto in forma di ordine del giorno.
Cito le parole del presidente Pastore dal verbale della seduta n. 770 del 22 marzo 2005: «Credo che nessuno possa dubitare della correttezza dell'interpretazione contenuta nell'ordine del giorno. E' evidente che nessuno può sognarsi di ritenere che norme che si considerano restrittive delle autonomie regionali possano essere applicate anche al campo delle autonomie previste dagli statuti approvati con leggi costituzionali speciali e protetti da accordi internazionali, dove ci sono regimi, procedure, sistemi di controllo, di verifica e di collaborazione assolutamente diversi e fino ad oggi utilmente sperimentati.
Quindi, ritengo di poter confermare che l'interpretazione data dall'ordine del giorno è corretta, ma è corretta proprio sulla base del testo della riforma costituzionale. Laddove si dice che alle Regioni a statuto speciale si riconoscono le maggiori autonomie attribuite dalla riforma costituzionale, è ovvio e lapalissiano che si voglia dire, a contrario, che le norme restrittive non si applicano alle Regioni a Statuto speciale. Quindi, interpretazione letterale, interpretazione logica e buon senso ci portano a questa soluzione».
Ringrazio il presidente Pastore per questa chiara interpretazione, che sarà di ulteriore lume qualora qualcuno - nonostante la chiarezza - dovesse ricorrere ad una limitazione delle competenze delle Regioni e delle Province autonome, annullando le loro rispettive leggi.
Voglio, in conclusione, ricordare le parole del presidente Giulio Andreotti, che ha lanciato un monito in quest'Aula. Egli ricordava la Costituente, ricordava come i Padri della nostra Costituzione formulavano la Costituzione italiana, trovando la mediazione sulle formule, cercando soluzioni condivise da tutti e coinvolgendo tutte le istituzioni e le università. Era una sala di pensiero e di studio.
Riteniamo che una riflessione più approfondita sarebbe utile ed opportuna. Prendiamo atto con favore che sono state rispettate le nostre istanze, ma al tempo stesso ci dispiace che sia stata persa l'occasione di trasformare il nostro Paese in una vera democrazia federale secondo i modelli più avanzati a livello europeo. (Applausi dai Gruppi Aut, DS-U e delle senatrici De Petris e Soliani).
 
PRESIDENTE. Senatore Peterlini, per quanto riguarda lo scambio di lettere cui lei ha fatto riferimento, le preciso che queste non potranno essere allegate al suo intervento, da cui si evincerà un'indicazione in merito a questa corrispondenza, ma rimarranno depositate presso la segreteria dell'Assemblea per la consultazione dei senatori.
 
È iscritta a parlare la senatrice De Petris. Ne ha facoltà.
 
DE PETRIS (Verdi-Un). Signor Presidente, il disagio di chi deve intervenire in quest'Aula deserta è molto forte, una immagine che rappresenta bene la sostanza ed il processo di questa cosiddetta controriforma costituente.
Il collega Peterlini si augurava, a conclusione del suo intervento, di poter arrivare a costruire alla fine nel Paese una moderna democrazia federale. Bene, credo che il processo di riforma avvenuto, prevalentemente della II parte della nostra Costituzione, non abbia nulla a che fare con la costruzione di un moderno processo federalista.
Il federalismo di Trentin, di Cattaneo, che in questo Paese ha avuto una produzione teorica di grandissimo livello, quel federalismo che poteva anche con successo tentare, nelle spinte risorgimentali, di trovare una possibilità di costruzione di uno Stato più unito e più moderno, non ha davvero nulla a che fare con il cosiddetto processo riformatore, con questa devolution-involution.
Personalmente comincio ormai, se non fosse appunto per il rispetto teorico nei confronti dei teorici padri fondatori del federalismo, a provare un forte disagio all'utilizzo di questa parola. È significativo che la fase finale di questo processo di controriforma avvenga all'indomani del pronunciamento della Consulta sul cosiddetto provvedimento taglia-spese nei confronti delle Regioni e delle autonomie locali. È forse un segno del destino.
Quel pronunciamento fotografa una realtà molto diversa, quella di un centralismo nuovo e rinnovato e molto forte, che davvero non ha nulla a che vedere con l'idea di federalismo.
Ma forse siamo noi ad esserci sbagliati; in realtà, forse, la vostra idea di federalismo, a partire dai cosiddetti saggi riuniti in una baita a Lorenzago (non dimentichiamo come è iniziato tutto questo grande percorso), era esattamente legata a quella che ormai possiamo definire non devolution ma involution perché sancisce competenze esclusive nella sanità, nella scuola, nella polizia regionale e locale, e ha evidentemente a cuore non l'idea di uno sviluppo armonico, come ha il federalismo in un sistema di democrazia federale, ma solo quella di spostare e di devolvere, di dividere tra le Regioni forti e le Regioni più deboli. Smontare è forse davvero la traduzione della spinta secessionista della Lega; è questa la vera traduzione in termini di riforma costituzionale.
Tutto questo sta avvenendo con una manomissione forte, non solo della II parte della Costituzione; come noi abbiamo continuato a sostenere, ed è così, nei fatti si mettono in discussione alcuni princìpi fondanti della I parte della Costituzione, il patto condiviso, su cui si fonda il rapporto dei cittadini con lo Stato.
È evidente a tutti che nel momento in cui si dà potestà esclusiva alle Regioni sulla scuola e sulla sanità non si fa altro - è, da questo punto di vista, assolutamente inoppugnabile - nei fatti che confliggere con la competenza, per esempio del Parlamento, nella determinazione dei livelli essenziali di assistenza, e quindi con il perseguimento degli obiettivi indicati dagli articoli 2 e 3 della Costituzione. Si mette dunque in discussione il principio di uguaglianza. Credo che questa sia la parte che maggiormente lede la nostra Costituzione.
In tutti questi mesi di dibattito, voi avete sostenuto che la riforma del Titolo V della Costituzione ha prodotto molti problemi. Ma la risposta quale è stata? Si è cercato di eliminare questi problemi, di intervenire per modificare e per rimuovere anche quelli che si sono verificati dopo la modifica del Titolo V della Costituzione? Come sapete, ci sarebbe stata la nostra disponibilità a migliorare questo sistema, ad introdurre i necessari aggiustamenti; invece no, in realtà di questa parte non vi siete occupati più di tanto. Avete voluto mettere mano ampiamente al sistema stesso.
Ora mi chiedo e vi chiedo se si può intervenire in modo così profondo e disarticolante sulla forma dello Stato - ripeto, sulla forma dello Stato- sui suoi organi, sul sistema dei pesi e dei contrappesi, sulla sostanza stessa della democrazia, senza alcun rapporto ed un reale collegamento con i bisogni e le esigenze dei cittadini.
Lo spirito costituente che ha caratterizzato la storia di tutti Paesi democratici, sicuramente di tutti i Paesi europei, certamente non ha mai aleggiato in quest'Aula, ma forse era ingenuo da parte nostra pensare che si potesse ricreare lo spirito ed il clima dei Padri e delle Madri costituenti che hanno dato a questo Paese una Costituzione che per noi continua ad essere una delle più avanzate a livello europeo ed internazionale.
Torno a ripetere: si può intervenire in modo così profondo e disarticolante, senza un collegamento con un clima, con una spinta nel Paese? No, tutto questo è avvenuto per un patto, per uno scambio: bisognava modificare, aggiustare, dare alla Lega quello che aveva imposto e richiesto fin dall'accordo elettorale, mitigare le sue spinte secessioniste. Anche in questi giorni stiamo vedendo come questo passaggio finale è il frutto solo e unicamente di accordi e di scambi.
Sapete perfettamente che senza quest'ultima lettura in Parlamento sulla controriforma non passerà la legge elettorale, perché appunto avete finito di "sistemare il sistema" attraverso la proposta di legge elettorale che stiamo discutendo in questo momento in 1a Commissione.
Quindi, cosa c'è di nobile, qual è lo spirito veramente riformatore in ciò che si sta consumando in questo passaggio finale? Credo che la storia della Costituzione europea, nonché l'esito di alcuni referendum, lo dico anche al ministro Calderoli, dovrebbe insegnarvi molte cose.
Quando si mette mano ad una riforma costituzionale, alla riscrittura di un patto senza alcun collegamento con i cittadini, questi ultimi la rimandano al mittente ed è quanto accadrà tra breve con questo disegno di controriforma, con questa involution, come noi la definiamo.
In questo caso, il Governo e la maggioranza si sono fatti costituenti, facendo i conti solo al proprio interno e costruendo pesi e contrappesi, non nel senso di pesi democratici tra i vari organi dello Stato, ma degli accordi giunti fino all'atto finale, che è - appunto - quello della legge elettorale. Ad ognuno il suo: ad Alleanza Nazionale avete dato il contentino dell'interesse nazionale; la Lega è la spinta a questo bel processo di controriforma costituzionale; Forza Italia ha ottenuto in cambio la riscrittura pesante dell'assetto degli organi dello Stato, soprattutto del Premierato, che rischia di comportare (ripeto, però, che il pericolo non ci sarà, perché i cittadini sapranno respingere al mittente la cosiddetta riforma costituzionale) una deriva plebiscitaria per come è stato concepito ed organizzato. Si propone, infatti, un Premier che tiene in ostaggio la sua maggioranza, che non viene soltanto da essa indicato, ma che è il dominus all'interno della sua stessa maggioranza.
Inoltre, il Senato federale è stato ridotto ad avere una sorta di competenze eventuali, neanche residuali. Non so cosa dire, poi, rispetto a quello che è stato fatto della sua composizione. Non è neanche un Senato delle Regioni perché i rappresentanti delle Regioni partecipano, ma non hanno diritto di voto.
Insomma, avete fatto un misto, che abbiamo definito transgenico, perché l'ibrido sarebbe stato un prodotto naturale, invece, avete fatto una serie di manomissioni ed anche alcune scelte dal punto di vista del profilo istituzionale assolutamente ibride.
Certamente la parte più inquietante di tutto l'impianto è rappresentato dalla messa in discussione dei princìpi supremi della nostra Costituzione, che - ribadisco - è il nostro patto condiviso: è il patto sociale, culturale e politico che ci lega insieme e che oggi voi volete manomettere. I cittadini, però, sono legati alla nostra Costituzione e rispediranno al mittente, con il referendum, questo prodotto transgenico, di involution e di tentativo di rottura dell'unità nazionale e del sistema Paese italiano. (Applausi dal Gruppo DS-U e del senatore Peterlini).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Piatti. Ne ha facoltà.
 
PIATTI (DS-U). Signor Presidente, molti senatori intervenuti hanno già messo in evidenza i rilievi principali dell'opposizione alle modifiche costituzionali definite «devolution».
Essi riguardano anzitutto la supremazia e la stabilità della Costituzione, cioè il fatto che le eventuali modifiche non debbano essere alla mercé della maggioranza. Ciò non avviene in alcun Stato democratico, dove modifiche costituzionali sono avvenute (pensiamo agli Stati Uniti) sempre nella più ampia condivisione politica.
Non vogliamo eludere che da molti anni, con le Commissioni bicamerali, non sono riusciti i tentativi di aggiornare ed innovare la parte ordinamentale per adeguarla ai cambiamenti del Paese. Tale processo, però, ha messo in evidenza il fatto che tutte le forze politiche riconoscevano l'esigenza di tale adeguamento e questi orientamenti consegnavano al Parlamento l'esigenza, certo difficile, di trovare una nuova sintesi.
Questo lavoro non è stato nemmeno tentato, perché la maggioranza ha rivendicato il diritto a fare da sola. È stato ed è un errore enorme, perché in questi anni il sistema istituzionale italiano non è rimasto fermo, immobile.
Come sappiamo, infatti, gli anni Novanta hanno segnato profondi cambiamenti a Costituzione invariata: nel 1993, sotto la spinta referendaria, si è realizzata la riforma elettorale, passando dal sistema proporzionale a quello attuale, orientato in senso parlamentare maggioritario, offrendo la possibilità agli elettori di scegliere direttamente la maggioranza di Governo, senza deleghe in bianco ai partiti (e non è casuale la controriforma che viene oggi proposta).
Sempre negli anni Novanta, è stato poi profondamente cambiato il sistema delle autonomie locali, prima i Comuni e poi le Regioni, con l'elezione diretta del sindaco e del presidente della Regione, determinando un nuovo rapporto fra responsabilità tecnica e indirizzo politico e istituzionale. Sempre gli anni 1996-1997 hanno visto la nascita di nuove leggi che hanno cambiato e innovato la forma di Stato: ricordiamo tutti, le leggi Bassanini, che hanno contribuito notevolmente a determinare più responsabilità nella pubblica amministrazione, più trasparenza, distinzioni di funzioni e, soprattutto, l'avvio di un processo di grande riorganizzazione e di decentramento amministrativo per funzioni, attribuendo poteri enormi agli enti locali, in base al principio di sussidiarietà.
Dev'essere rilevato che tale processo, che aveva contribuito anche al contenimento della spesa pubblica, è stato negli ultimi anni interrotto: la maggioranza ha perseguito la logica dei tetti di spesa, che, criticati oggi dalla Consulta, sono invece la plastica affermazione dello status quo nella pubblica amministrazione, che richiede invece un lavoro di continua riorganizzazione capace di valorizzare nuove tecnologie e risorse umane. E non è casuale che la spesa pubblica, soprattutto quella dei Ministeri, riprenda a salire.
Faccio questi esempi per dire che è falsa la rappresentazione di un'opposizione ferma, che non vuole cambiare, tanto che la necessità di modifiche costituzionali è stata «annunciata» dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, confermata dal risultato del referendum. C'erano perciò tutte le condizioni per completare questo lavoro e questa transizione, sapendo però che modifiche radicali nella parte ordinamentale dovevano essere coerenti con i princìpi della prima parte della Costituzione. Il testo votato dalla Camera e alla nostra attenzione produce invece una rottura con il lavoro avviato negli anni precedenti.
Sulla forma di governo è stato detto che avremo un Presidente del Consiglio dotato dei poteri sia del Presidente degli Stati uniti, sia del Premier britannico, che giustifica la definizione di «dittatura della maggioranza», poiché un rafforzamento dell'Esecutivo, che nessuno disconosce, e una sua maggiore stabilità dovevano convivere con un bilanciamento dei poteri di garanzia, come avviene in tutti i Paesi democratici.
Sulla forma di Stato si poteva lavorare per fare del Senato la Camera rappresentativa delle autonomie locali. Si sceglie invece una strada confusa e pericolosa, con la composizione del Senato riconducibile a personale politico che abbia avuto un'esperienza nelle istituzioni locali, che rischia di accentuare la dimensione localistica.
La suddivisione di nuove competenze alle Regioni (mi riferisco alle modifiche all'articolo 117) appare poi farraginosa, sia perché inutile, se non si dà attuazione all'autonomia finanziaria regionale e locale, sia perché i rapporti Stato-Regioni richiedono cooperazione e collaborazione e non l'illusione di una separazione rigida delle competenze, che sarà foriera di nuovi conflitti.
Volete devolvere poteri agli enti locali, alle Regioni? I contenziosi aperti con gli enti locali sulla finanziaria, i processi di neocentralismo che abbiamo sentito aperti in alcuni Ministeri, dalla scuola all'agricoltura, vanno, ci sembra, in senso opposto.
In sostanza (ho concluso, signor Presidente), una riforma-manifesto, che accontenta per un «pezzo», per una parte le forze di maggioranza. I punti ancora aperti sono evidenti: il ruolo del Senato, l'autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali, le garanzie per le opposizioni.
Il compromesso raggiunto fra premierato incontrollato e devoluzione di attribuzioni (senza risorse finanziarie) non faranno una riforma. La riflessione che accompagnerà il referendum, oltre a cancellare queste norme, dovrà rimettere sui binari corretti il processo riformatore, e senza scorciatoie, anche per le opposizioni.
Il processo riformatore dovrà anzitutto considerare che una società complessa, ricca di conflitti, che sono sotto i nostri occhi, con una società civile fortemente organizzata e autonomie funzionali che arricchiscono il nostro pluralismo, non potrà essere «governata» da nessuna semplificazione autoritaria. Abbiamo visto in questi anni quali danni ha provocato il «decisionismo». La decisione e le differenze sono essenziali nella vita delle istituzioni, ma tentare di eludere la complessità delle decisioni è esercizio vano.
Qui serve la coerenza con la prima parte della Costituzione. E poi permettetemi di rilevarlo, se c'è una parola e una cultura politica centralista è quella della devoluzione che raffigura uno Stato centrale che non cambia, ma devolve, forse, qualche potere. Il contrario del federalismo che è mutamento solidale di tutti i livelli istituzionali e anche e soprattutto riorganizzazione della pubblica amministrazione. (Applausi dal Gruppo DS?U e dei senatori De Petris e Peterlini).
 
PRESIDENTE. E' iscritto a parlare il senatore Fasolino. Ne ha facoltà.
 
FASOLINO (FI). Signor Presidente, onorevoli colleghi, non sono un costituzionalista né un giurista, quindi ho seguito l'iter di questa importante legge dello Stato e oggi il dibattito in Aula da un osservatorio che definirei privilegiato, perché è l'osservatorio quasi dell'uomo della strada. Come l'uomo della strada vede questa legge dopo tutto quanto è stato detto contro di essa dal centro-sinistra, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, i dibattiti istituzionali e i convegni. Una legge, come è stata dipinta, che mina l'unità nazionale, e penalizza soprattutto le Regioni deboli del Paese, ovvero le Regioni meridionali.
In questa giornata è stato anche detto - quasi come se si fosse attentato alla sacralità della Costituzione - che né il Senato né la Camera dei deputati possono mettere mano ad una modifica della Costituzione ad ogni piè sospinto, ad ogni legislatura. I colleghi del centro?sinistra hanno dimenticato che solo nel 2001 hanno approvato un testo di modifica del Titolo V della Costituzione e che dal 1963 ad oggi sono state numerosissime le modifiche della Carta costituzionale perché la Costituzione, secondo il mio parere, va intesa non come un edificio scheletrico e immobile, inamovibile nel corso degli anni, ma come un edificio che si deve coniugare alla società nella quale viene ad operare attraverso le leggi di sua emanazione.
Certamente i pilastri fondanti della Costituzione debbono rimanere inalterati; certamente i principi di dritto al lavoro, di democrazia e di libertà debbono sempre accompagnare il cammino della Costituzione, pur nelle variazioni che di volta in volta si intende suggerire. Però, è necessario che le Costituzione sia aperta alla società, alle mutevoli esigenze di essa, alle montanti richieste di cambiamento che vengono dalla popolazione. Del resto, oggi noi siamo in Europa e la Costituzione si deve adeguare ai mutamenti che la compagine europea realizza.
Volendo analizzare i punti fondamentali del discorso, partirei dal concetto di Premierato, dal concetto di Primo ministro.
Il centro?sinistra si è accanito contro questa visione del Primo Ministro, legato indissolubilmente al mandato elettorale, con una maggioranza che deve costantemente rapportarsi a tale mandato e che non può essere impinguata dal trasformismo, dai transfughi, che sono la negazione della democrazia.
Quindi, un principio altissimo, secondo cui il popolo è costantemente sovrano e rappresentato da un Parlamento coevo con l'impostazione politica che lo ha generato e non con il Parlamento dei trasformisti che, fin dall'altro secolo e nel corso di tutto il secolo appena passato, tanto male hanno fatto al nostro Paese. Gli eletti nel Mezzogiorno d'Italia venivano infatti sistematicamente adescati dalle potenze industriali e finivano per portare avanti una politica contraria agli interessi della loro terra. Quindi, un Premierato forte, come si addice ad una democrazia moderna.
L'altro punto di attacco è il ruolo, la funzione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Cari colleghi, è possibile che ancora oggi si pensi che un bicameralismo perfetto sia in grado di risolvere i mali del nostro Paese e di essere strumento per adeguarsi in maniera funzionale e rapida ai bisogni che la società esprime?
Per l'esperienza che ho potuto fare nel corso di questa mia prima legislatura, ho notato che molte leggi hanno vissuto un iter particolarmente estenuante, con continui passaggi da un ramo all'altro del Parlamento. È possibile accettare che uno Stato moderno, che deve dare risposte rapide ed efficaci, corrisponda ai bisogni della società con tale lentezza?
Quindi, è stato giusto portare avanti la separazione delle funzioni, tra l'altro, restituendo al Senato la sua primigenia funzione di Camera delle Regioni che, fino ad oggi, si era consumata soltanto attraverso il meccanismo elettorale in base al quale i senatori venivano eletti nella circoscrizione regionale di appartenenza.
Oggi il Senato diventa protagonista di un rapporto con la parte più dinamica, attiva e propositiva del Paese: le Regioni. Nessuno può infatti negare che le Regioni hanno soppiantato molti degli apparati statali antichi, producendo contestualmente un'attività sia legislativa, nell'ambito di competenza, sia deliberativa, che oggi è da considerare preminente nel Paese. Resta il fatto che una tipologia di Regione come quella attuale resta disancorata dal livello centrale. La si può considerare una Regione funzionante e corrispondente agli interessi generali?
Amici della sinistra, anche se molto brevemente, vi voglio raccontare la storia di Napoli e della Regione Campania. È una Regione in cui l'assistenzialismo e la desuetudine dai concetti giusti e basilari di etica politica, il ricorso sistematico alle convenzioni, sia da parte delle strutture commissariali, sia da parte della giunta regionale, è stato costantemente seguito, una Regione che praticamente esercita un regime di assistenza sanitaria rispetto al quale non c'è spazio per i poli di eccellenza ma solo per una miriade, una moltiplicazione di strutture sanitarie uguali a se stesse, ripetitive nell'ambito dello stesso territorio, che hanno notevolmente appesantito il discorso sanitario a livello regionale. Ebbene, lo Stato come si pone rispetto a questo spreco? Pagando a piè di lista le esuberanze della Regione Campania.
Noi invece immaginiamo una Regione nella quale le azioni regionali siano in continuo e stretto contatto con quelle di una Camera nazionale, come appunto il Senato, che ne possa ammortizzare o ammorbidire gli effetti, che possa dare e realizzare certi indirizzi.
Quindi, paradossalmente, è una tipologia di Regione come quella oggi esistente, svincolata da ogni rapporto con lo Stato, che concreta una fattispecie amministrativa e legislativa eccentrica e fuorviante mentre quella che noi immaginiamo, legata al Senato delle Regioni, rappresenta un modo attraverso il quale un organismo periferico si può mettere in simbiosi con quelli centrali dello Stato.
Sempre riguardo al Senato e alla Camera dei deputati: se ne parla poco, ma noi abbiamo per la prima volta proposto, dopo tanti anni, una riduzione del numero dei deputati e dei senatori. E non è questo un meccanismo virtuoso?
E sempre a proposito del Senato e quindi delle Regioni, vorrei chiedere ai rappresentanti del centro-sinistra: oggi, l'organizzazione sanitaria chi la fa? Il Ministro della salute o l'Assessore regionale alla sanità? E perché il Ministro si chiama "Ministro della salute"? Perché, dopo la vostra riforma, nel 2001, quando il Governo Berlusconi si è insediato, non c'era la possibilità di avere il Ministero della sanità, tant'è vero che il Governo si è dovuto inventare con un decreto l'istituzione del Ministero della salute. L'organizzazione sanitaria autonoma delle Regioni, quindi, è una scoperta fatta dal centro-sinistra nel disegno di legge, poi diventato legge di modifica del Titolo V della Costituzione, approvato nel 2001.
Ma non ci doliamo di questo. Riteniamo che sia la Regione a dover organizzare il proprio lavoro e il proprio sistema; però, riteniamo anche che finalmente lo Stato non debba più pagare a piè di lista le esuberanze della Regione; riteniamo anche che ci siano delle responsabilità e, personalmente, ritengo che gli amministratori regionali che si rendano artefici di dissesti debbano essere immediatamente rimossi, e che, se e quando lo Stato interviene attraverso la salvaguardia del cosiddetto interesse nazionale, lo debba fare marcando chiaramente le responsabilità personali e dell'istituto regionale.
Avviandomi alla conclusione desidero anche dire: vedete, è questa la Regione che non si innesta nel tessuto democratico del Paese; la Regione nostra, invece, dialoga con il livello nazionale. E sempre a proposito del livello nazionale, come mai nel vostro disegno di legge l'interesse nazionale non era previsto? Come mai abbiamo dovuto prevederlo noi? Come mai siamo arrivati al punto in cui è questa legge nostra, che voi dichiarate e denunziate come destruente degli interessi nazionali, quella che sta ripristinando l'interesse nazionale?
Ma scusate, l'organizzazione scolastica a chi appartiene, oggi che la legge di modifica della Costituzione che stiamo portando avanti non c'è? A chi è affidata? È affidata alle Regioni per mano della vostra stessa legge. E perché allora andate nelle piazze a dire che vogliamo che l'assistenza scolastica si regionalizzi per depauperare la Campania, le Puglie, la Calabria, la Sicilia, il Mezzogiorno? Perché questa finzione, che continua a livello popolare e si perpetua anche nelle nostre Aule, nelle Aule del Senato e della Camera dei deputati?
E così, di polizia amministrativa regionale non siamo stati noi i primi a parlarne! Ve l'ho detto: ho riguardato questo aspetto con gli occhi dell'uomo della strada. All'inizio ero preoccupato, anch'io, come uomo del Mezzogiorno.
Ero preoccupato perché potevo ritenere che ci fosse un vulnus in atto nei confronti della mia Regione, la Campania, ma guardando bene la vostra riforma costituzionale del 2001, mi rendo conto che gli interessi della Regione Campania vengono difesi da questa riforma e non dalla vostra. Del resto, nell'interesse nazionale, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali è stata una conquista di questa maggioranza.
Diamo atto alla Lega di aver voluto portare il discorso fino in fondo, però vogliamo anche dare atto agli altri partner della Casa delle Libertà, Alleanza Nazionale e Forza Italia, di aver irrobustito e migliorato il disegno di legge in esame e di aver voluto condividere fino in fondo il cammino di una legge che reputo la più importante della legislatura, che la caratterizza. Per noi questa riforma è il banco di prova di una maggioranza che non solo realizza i propri programmi, ma pone le basi per una riedizione di un Governo di centro-destra dopo le elezioni del 2006. (Applausi dal Gruppo FI. Congratulazioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Caddeo. Ne ha facoltà.
 
CADDEO (DS-U). Signor Presidente, onorevoli colleghi, avremo quindi una nuova Costituzione. Con un voto a maggioranza si delineano gli assetti futuri dell'Italia, i suoi valori fondamentali, le finalità da perseguire. Ma l'analisi sottesa della realtà nazionale è fondata? Le soluzioni prospettate rispondono alle esigenze di sviluppo di uno dei Paesi più industrializzati del mondo?
Il Paese è in crisi, invecchia. Non conosce per ora gli incendi delle banlieue francesi né i frutti avvelenati del multiculturalismo inglese, ma la mobilità sociale è bloccata. Impoverisce il ceto medio e va in frantumi la coesione sociale. Il tutto è ingigantito dai rischi crescenti di declino.
A questi problemi date una risposta autoritaria, destrutturante degli assetti istituzionali, sociali e della stessa identità nazionale. A capo di tutto mettete un Presidente del consiglio titolare di poteri esorbitanti, capace di soggiogare la Camera politica, costretta a dare a comando una fiducia sotto il ricatto dello scioglimento.
Il potere legislativo perde così la sua autonomia, una delle prime conquiste del costituzionalismo, la divisione tra potere esecutivo e potere legislativo subisce una profonda lesione.
La regolamentazione dei rapporti tra i due poteri regredirà a forme premoderne, senza escludere l'azzardo delle congiure di piccoli gruppi interni alla maggioranza.
Al Senato viene assegnato un ruolo marginale. Avrà competenze di iniziativa legislativa sull'operato delle Regioni, ma se si ostinerà a fare di testa sua, vedrà il capo del Governo sottrargli gli argomenti in discussione per affidarli all'ubbidiente approvazione della Camera.
La ripartizione del potere di iniziativa legislativa tra Camera e Senato appare la più illogica, casuale, e foriera di conflitti. I contrasti all'interno del potere legislativo, quelli sempre più acuti tra Regioni e Stato centrale, faranno dell'Italia il luogo della divisione, della lentezza delle decisioni, terra di conquista delle realtà più dinamiche dell'economia mondiale.
Voi costruite un'Italia autoritaria ma fragile, figlia di una classe dirigente debole, che rinuncerà a competere sullo scenario mondiale. Dal declino dell'Italia si può uscire, invece, percorrendo un'altra strada con uno sforzo convergente di tutte le forze vive, capace di produrre unità d'intenti. Questa è infatti la premessa per rientrare dal colossale debito pubblico e per promuovere intense e durature politiche di accumulazione d'innovazione, di nuove conoscenze, di moderne infrastrutture materiali ed immateriali.
Se si avesse una simile ambizione, si dovrebbe costruire una Repubblica ben strutturata, forte del consenso, della partecipazione della realtà territoriale e di un'equilibrata coesione sociale.
La nuova Carta fondamentale non risponde però a questi obiettivi, mira soprattutto ad approfondire la devoluzione di poteri e di risorse finanziarie verso le realtà più ricche del Paese, in mano cioè a coalizioni distributive regionali che non vedono, né possono inquadrare la missione di guidare la Nazione nel mare in tempesta della competizione globale.
Una classe dirigente di corte vedute, frutto della giustapposizione di localismi, partorisce una Carta ingiallita prima ancora di inverdire; e ciò avviene soprattutto perché vuole approfondire oltre ogni misura la divisione, già irrazionale di per sé, tra competenze esclusive statali e regionali contenute nell'articolo 117.
Proseguite su una strada indicata come sbagliata dalla Corte costituzionale, la quale ha affermato che tale divisione non può esistere, che molte di quelle competenze sono e devono essere considerate concorrenti, cioè sotto la responsabilità della collaborazione tra lo Stato e le Regioni.
È la stessa impostazione ribadita dall'Unione Europea che imposta una concezione concorrente ancora più larga, che traccia la strada della collaborazione tra i livelli istituzionali per garantire il buon esito dell'intervento pubblico e soprattutto dell'attuazione dei diritti delle persone.
Ma perché questo incaponimento cieco e distruttivo? Per approfondire l'utilizzo dell'articolo 119, del sistema di finanziamento delle competenze regionali, delle politiche pubbliche, dello Stato sociale con la sola capacità fiscale dei territori regionali. L'intervento della perequazione risulta in effetti solo eventuale, affidato a leggi ordinarie esposte a mutevoli rapporti di forza. L'Italia diventerà così l'Eden dell'ingiustizia, della diseguaglianza, sempre più esposta però all'esplosione di virulenti conflitti su base territoriale, sociale, alla destabilizzazione e a rischi crescenti di declino.
A presidio di questa costruzione c'è l'autoritarismo, un Senato privo di poteri reali, ma capace di formidabili pressioni per politiche disgregatrici. Qualche giorno fa un attento osservatore politico segnalava come il Senato, con il premio di maggioranza regionale della nuova legge elettorale, rischia di avere una maggioranza fragilissima ma condizionata da poche Regioni. Avete respinto l'idea di Senato federale paritetico ed ora chi è più forte e più ricco presenta il conto.
Questa stortura esalterà una caratteristica insita negli assetti economici del Paese e prodotta negli ultimi lustri. Per reggere alla concorrenza indotta dalla mondializzazione dell'economia le imprese hanno ristrutturato la loro organizzazione, hanno anche delocalizzato produzioni, ma hanno accentrato i loro servizi finanziari, legali e fiscali. Ciò è avvenuto nell'industria, nella distribuzione commerciale, nei servizi finanziari nella comunicazione.
La conseguenza è che la raccolta fiscale imposta sulla ricchezza prodotta diffusamente sul territorio nazionale viene versata al centro, a Roma o a Milano, città che possono così vantare una capacità fiscale sovradimensionata. In questo modo, saranno troppi gli italiani che parteciperanno alla produzione della ricchezza nazionale ma rischieranno l'esclusione dai benefìci dello Stato sociale. Detto in altro modo, saranno uguali nella contribuzione, nell'assolvimento dei doveri, ma avranno diritti dimezzati; pagheranno la stessa aliquota d'imposta ma riceveranno la metà dei servizi pubblici.
La vostra architettura costituzionale è rigida, prescinde dallo sviluppo delle forze produttive, ignora la forza dirompente dei processi storici. Può durare un'architettura costruita con mattoni impastati con una furbizia di così bassa lega? Non è forse una miopia dalle conseguenze devastanti?
La Penisola sarà affollata da chi partecipa alla vita nazionale producendo opere d'ingegno, da chi si sacrifica in armi per la Patria, da chi ospita in casa esercitazioni militari per la difesa comune, ma avrà diritti labili perché non è domiciliato dove le imprese hanno sede legale.
Una Costituzione di tal genere è come una foglia morta, esposta a tutti i venti, l'Italia soffrirà per questo. La Costituzione doveva essere rinnovata ed adeguata ad un mondo profondamente cambiato, ad un'Italia protagonista della costruzione dell'Europa, proiettata verso l'economia della conoscenza, verso una società più evoluta e più giusta.
Di tutto questo il Parlamento tornerà a discutere, dopo che il popolo avrà potuto prendere la parola, dopo aver cancellato con il referendum questa vostra costruzione. Allora potremo tutti assieme scrivere una nuova Carta costituzionale che innovi coraggiosamente, ma che rispetti i valori che la Resistenza antifascista pose a base della rinascita della nazione: la libertà democratica, l'uguaglianza e la giustizia. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Basso. Ne ha facoltà.
 
BASSO (DS-U). Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, "ricatto costituzionale": penso sarà questa da oggi l'espressione che sarà usata per ricordare il modo con il quale si è arrivati alla nuova Costituzione.
Subito dopo la liberazione dell'Italia, uomini liberi e coraggiosi, uomini con il senso dello Stato e delle istituzioni, uomini che avevano a cuore le sorti del proprio Paese, pur appartenendo ad ideologie diverse, ebbero la forza e la capacità di arrivare ad un compromesso costituzionale, frutto dell'incontro delle grandi culture popolari del Ventesimo secolo. Non il ricatto, quindi, ma il compromesso, non lo scontro, ma l'incontro.
Altri tempi! Vien da dire che, oggi, rispetto ad allora, altro sia il personale politico ed altro il modo di concepire la stessa politica. Noi sappiamo che il Presidente del Consiglio è l'ispiratore della pratica dei ricatti; ed è sempre il Presidente del Consiglio ad approfittare del fatto che in quest'Aula e in quella di Montecitorio muovono tante figure di politici che antepongono la propria rielezione a parlamentari agli interessi dell'Italia.
Passerà così un'ampia modifica della Costituzione, passerà in questo modo e per queste ragioni la legge finanziaria 2006, così come in passato sono state approvate ingloriose leggi ad personam.
Nei mesi scorsi è stata varata la controriforma dell'informazione, la controriforma della scuola e della università, la controriforma della giustizia; sono stati demoliti importanti diritti in tema di lavoro, previdenza e sanità.
Passerà, ne sono certo, la riforma elettorale; probabilmente passerà anche la riforma della par condicio, entrambe proposte che toccano il punto nevralgico delle regole del rinnovo della rappresentanza politica.
Passerà questo disegno di legge che vuole riformare la Costituzione, passerà perché se così non dovesse essere molti parlamentari dell'attuale maggioranza non verrebbero più ricandidati. Tutti in attesa della riconferma, allora, pronti a rischiacciare, in futuro, un pulsante a comando!
Il ricatto è forte, fortissimo, efficace soprattutto nell'era in cui le decisioni, in alcuni casi, vengono prese non da partiti democraticamente organizzati, ma dal Capo; partiti senza storia e senza radici, o dalla storia inenarrabile. Alludo a quelli che sono riusciti a fare incardinare in quest'Aula un provvedimento, quello del riconoscimento dello status di belligeranti ai repubblichini di Salò, che di fondamento storico non ha nulla, ma che rappresenta soltanto una metastasi revisionistica.
Alludo anche a quelli che fino a ieri hanno apertamente predicato la secessione, quelli del rito dell'ampolla, sprezzanti e violenti nei confronti degli immigrati, quelli che hanno sequestrato persino canti e colori, quelli che si fanno imprenditori di un razzismo possibile. Portatori anche di un razzismo culturale, figlio di una difesa piuttosto egoistica della propria subcultura che, nel contempo, è anche rifiuto di culture, valori e stili di vita altrui, con il risultato di fomentare odi, scontri di civiltà, guerre di religione.
Alludo anche a quelli che in quest'Aula hanno platealmente mandato a quel paese il presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro del quale conosciamo virtù, rettitudine e intelligenza.
E' vero, oppure no, signor Presidente del Consiglio? In quella occasione ci è uscito naturale un grido, incontrollato, forte, al suo indirizzo; abbiamo gridato: vergogna! Rispetti chi ha egregiamente servito la Repubblica, chi ha trasmesso e trasmette valori morali alti, chi da protagonista ha contribuito a dare all'Italia la prima Costituzione democratica. Non mi è parso, non ci è parso, però di cogliere nel Presidente del Consiglio alcun pentimento.
Eppure si sa, il senso della vergogna è sempre stato il segno dell'esistenza del sentimento morale. Mai come oggi l'Italia ha bisogno di essere governata da gente seria ed eticamente responsabile. Mi fermo qui con le allusioni. A questo punto mi corre l'obbligo di ricordare che con questa revisione costituzionale si stanno modificando più di cinquanta articoli. Della II Parte del testo approvato nel 1947 resterà ben poco; la stessa I Parte sarà inficiata nella sostanza.
È una riforma che modifica la forma di Stato, definisce la nuova forma di Governo, cambia la struttura del Parlamento, modifica i rapporti tra Stato e Regioni, cambia i poteri e le funzioni degli organi di garanzia. E' una riforma che sarà votata da una maggioranza tenuta sotto scacco, o meglio sotto ricatto, da un solo partito, per di più minoritariamente radicato in una piccola parte del territorio nazionale: il partito della Lega Nord.
In Veneto la Lega Nord partecipa in modo importante al Governo regionale: era ed è della Lega il Presidente del Consiglio regionale, è della Lega il vice presidente della Giunta. Il triste primato di questi, soltanto a parole, campioni di federalismo è quello di non aver varato nel Veneto nemmeno il nuovo Statuto regionale. Hanno lavorato, si fa per dire, in modo inconcludente per cinque anni, senza approvare alcunché, perdendo l'occasione importante di rafforzare l'impianto federalista in una Regione, la mia, che soffre il confine con due Regioni a statuto speciale, perdendo quindi le opportunità che, con il varo dello Statuto, la riforma costituzionale del 2001 poteva consentire.
Viene spontanea una domanda: si crede o non si crede al federalismo? Non sarà invece che questa cosiddetta devolution, orrendo termine preso in prestito dall'esperienza britannica (ma che con quel modello, si sa, non c'entra niente, perché fa violenza ai contenuti federali, solidaristici e redistributivi della nostra Costituzione), dovrà essere usata solo per la gestione della prossima campagna elettorale? Io credo che sarà proprio così. Si venderà lo spot della devolution, condito magari con le riproposizioni di "padroni a casa nostra" e di "Roma ladrona". Il problema è di andare alla campagna elettorale spostando il tiro dal poco che si è fatto in questi ultimi cinque anni all'illusione dell'autogoverno.
Il problema è farsi giudicare non per quello che si è fatto, ma per quello che si vorrebbe fare. Il "case per tutti" di Berlusconi, spot lanciato proprio in questi giorni, cos'è se non un vacuo impegno per il futuro? L'importante è far dimenticare il suo "contratto" con gli italiani. E poi, a voi, colleghi della maggioranza, non interessa se la riforma costituzionale cadrà prima del traguardo finale. Penso che anche voi siate convinti che con il referendum il popolo italiano spazzerà via quanto vi accingete ad approvare.
Perché, pur potendo, non avete votato prima questa riforma? Perché avete proceduto così lentamente? La verità è che per voi diventava fondamentale evitare una bruciante sconfitta prima delle elezioni politiche della primavera 2006. La verità è che voterete questa legge perché, diversamente, la Lega sarebbe uscita dalla maggioranza, provocando la crisi di Governo.
Ecco perché - lo affermo nuovamente - questa revisione costituzionale discende dal ricatto politico. In cambio la Lega approverà altre leggi, Alleanza Nazionale chiederà l'approvazione di altre ancora: un do ut des continuo su tutto, Costituzione compresa, che diventa in questo caso oggetto di scambio.
C'è di che preoccuparsi: l'Italia è in pasto ai ricatti. Questa non è la riforma del codice della strada, ma la riforma della Carta costituzionale. Cito le parole del Presidente della Repubblica: "Certo che può essere modificata, ma avendo ben presente che nel suo impianto generale essa ha dimostrato una straordinaria vitalità, che suscita rispetto e ammirazione (...). Essa ha costituito presidio della comunità nazionale, tratto distintivo della nostra identità moderna".
E allora la prima obiezione riguarda il modo con il quale si è voluto procedere. In questi casi il metodo è anche sostanza. Si sa come si sia escluso da subito l'obiettivo di una riforma bipartisan, realizzata a prescindere dalle maggioranze e dalle convenienze politiche del momento.
Vi assicuro, voi lo sapete, che anche nell'attuale opposizione c'era la consapevolezza che qualche modifica doveva essere apportata, anche perché la riforma del 2001, votata a stretta maggioranza dal centro-sinistra, si era limitata a recepire quelle proposte di modifica che avevano trovato largo consenso nell'Assemblea bicamerale.
Una riforma costituzionale non va mai attuata a colpi di maggioranza. Chi detiene la maggioranza parlamentare deve avere la capacità di coinvolgere le opposizioni; deve respingere le contingenze che determinano i vincoli di opportunità politica; deve adoperarsi affinché al centro di qualsiasi legge ci sia il bene comune.
Forse tra i problemi aperti dalla riforma elettorale del 2001 rimaneva quello di rendere più coerente la Costituzione con un sistema elettorale che consentisse agli elettori di decidere direttamente il Governo del Paese. Anche da questo punto di vista, con la riforma elettorale che vi accingete a votare, e che reintroduce il sistema proporzionale, andate in una direzione esattamente opposta, assolutamente contraddittoria con la vostra riforma costituzionale.
Rimane aperto anche il problema di rendere più flessibile la ripartizione per materie tra Stato e Regioni, individuando nel Senato federale una importante sede parlamentare di cooperazione.
A questo proposito avete introdotto solo confusione: da un lato il testo di riforma allude a competenze regionali esclusive (scuola, sanità e polizia locale); nel contempo, dall'altro, si afferma che sulle stesse materie c'è una competenza statale. C'è, credetemi, da augurare buon lavoro alla Corte costituzionale sulla quale si scaricheranno fior di conflitti.
Lo stesso Senato, più che federale, appare come una controparte di Governo e Camera dei deputati. II processo di riforma istituzionale varato agli inizi del 2001 prevedeva oltre all'autonomia finanziaria un ampliamento delle funzioni degli enti cosiddetti sub-statali; l'attuazione di queste norme non ha mai avuto luogo, né sono stati emanati i decreti delegati previsti, costringendo così la finanza locale alla frammentarietà e alla contraddittorietà e affidandola, essenzialmente, alle leggi finanziarie che, come nel caso di quella di quest'anno, accentuano le restrizioni e riducono i margini di manovra degli enti locali nonché la loro stessa autonomia. Mai visto, credetemi, un Governo così centralista!
Avete tentato anche le mediazioni al vostro interno, con il risultato di produrre marmellata, perché opposte erano le aspettative. Avete partorito una riforma sulla base della quale il Presidente del Consiglio è onnipotente verso la Camera dei deputati, ma impotente verso il Senato.
Sul Capo dello Stato si abbatterà una riduzione di poteri e una limitazione del suo ruolo. Lo stesso discorso vale per la Corte costituzionale, schiacciata da competenze improprie e colpita nella sua composizione. Espedienti furbeschi pesano come macigni sulle istituzioni di garanzia.
Nel contempo, aumentano i poteri del Presidente del Consiglio, cosa che non ci vede contrari in linea di principio, ma che ci costringe ad esserlo perché manca qualsiasi contrappeso a questi poteri: non lo sono né la Camera dei deputati, né il Presidente della Repubblica, né il Senato federale.
Male, molto male, onorevoli colleghi! Non c'era modo peggiore per voi, colleghi della maggioranza, di chiudere questa legislatura.
Sappiate che ad aprile ci penserà il popolo italiano a porre termine ad una vera e propria emergenza e a ridare onore e dignità al Parlamento e al nostro Paese. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e del senatore Michelini).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Gaglione. Ne ha facoltà.
 
GAGLIONE (Mar-DL-U). Signor Presidente, onorevoli senatori, la codificazione del diritto in Italia si è posta, sin dai tempi del nostro Risorgimento, traguardi avanzati ed elevatissimi. Ha sempre operato secondo una nobile linea di continuità con il passato, impostando ogni innovazione sul completamento ed il perfezionamento dei principali istituti sui quali l'apparato statale italiano si è fondato nel tempo.
Dall'unificazione legislativa alla Costituzione repubblicana, il diritto italiano è maturato nella solennità e nella solidità della tradizione liberale, riuscendo nel grande intento di costruire leggi che fossero al tempo stesso conquiste immediate per la società civile e grandi scommesse per le generazioni future.
La Costituzione repubblicana, che la maggioranza purtroppo si appresta a modificare, ha rappresentato la sintesi storica più alta, in continuità con le più avanzate e consapevoli spinte innovataci del cattolicesimo, del marxismo e del liberalismo.
Questo Governo, oggi, con le modifiche costituzionali, ma più in generale con la pesante caratterizzazione politica e personalistica di quasi tutte le leggi che promuove, rappresenta un momento di rottura storica senza precedenti con la tradizionale civiltà giuridica italiana.
La devolution non è altro che la distruzione dei presupposti fondamentali su cui poggia lo Stato unitario. Con il paravento di un falso e sbalestrato federalismo, ci si appresta a trasferire alle Regioni importanti poteri in materia di sanità, istruzione e, addirittura, polizia.
Un drammatico passo indietro, una frammentazione disordinata, che non farà altro che accentuare il divario, ancora evidente, fra il Mezzogiorno e il Nord Italia.
Questo Governo passerà alla storia per avere interrotto il lungo e faticoso percorso della nostra più alta tradizione, perché questa riforma è il frutto dei particolarismi e dei ricatti che tengono insieme la compagine politica che lo sostiene. Il centro-destra stravolge il testo costituzionale del 1948, denso di significati storici e di ideali irrinunciabili e universali, pagati con il sacrificio dei nostri Padri, con l'unico intento di tenere maldestramente coesa la maggioranza.
Con la devolution si cambiano in modo radicale i rapporti che storicamente si sono determinati tra lo Stato centrale e le Regioni e tra le stesse Regioni e i cittadini italiani, solo per pagare il tributo alla Lega Nord.
Con questa riforma la Lega porta all'incasso un credito maturato in questi anni nei confronti dei suoi alleati. Con l'appoggio del partito di Bossi, sono stati inferti colpi mortali ai princìpi della generalità e dell'astrattezza delle norme (presupposti fondamentali a cui devono ispirarsi le leggi di un Governo democratico).
Purtroppo, gli innumerevoli provvedimenti, approvati in questa legislatura per favorire Berlusconi ed i suoi amici non rispettano neppure lontanamente questi requisiti minimi, perché sono stati adottati avendo a riferimento fatti e persone ben individuabili.
Contro ogni senso dello Stato e delle istituzioni, e a danno di tutti gli italiani, i partiti della maggioranza hanno tenuto fede ad uno scellerato patto di scambio, un pericoloso do ut des con il quale si soddisfano le esigenze particolari di chi sostiene il Governo.
Oggi il futuro dell'Italia è sempre più incerto e precario, l'economia è ai minimi storici e la stragrande maggioranza degli italiani fa fatica ad arrivare a fine mese, ma per il centro-destra queste non sono questioni prioritarie e importanti quanto la devolution.
Noi parlamentari dell'opposizione ci battiamo oggi contro questa riforma costituzionale e continueremo a batterci anche dopo la sua approvazione: l'unità d'Italia e la sua identità nazionale sono valori comuni a tutti i rappresentanti del popolo italiano e dovrebbero essere il collante delle differenti visioni politiche che legittimamente si confrontano nella vita nel nostro Paese.
Con la devolution, inevitabilmente, si colpiscono gravemente quei valori che accomunano e si alimentano, invece, i particolarismi, l'egoismo e le ragioni dei più forti. Si realizza, cioè, una frammentazione del sistema di tutela dei fondamentali ed essenziali diritti dei cittadini, a danno delle Regioni più disagiate e meno competitive.
Se passerà questa riforma costituzionale, su questioni in materia di sanità, scuola e sicurezza le Regioni potranno legiferare in piena autonomia e conseguentemente - in quelle più ricche - saranno offerti ai cittadini migliori opportunità, mentre in quelle più povere aumenteranno gli svantaggi e si approfondirà ancora di più la frattura storica esistente tra Nord e Sud.
La devoluzione nel sistema sanitario produrrà nuovi assetti al nostro Sistema sanitario nazionale, se non addirittura il suo superamento attraverso lo sviluppo di possibili forme di concorrenza fiscale, dannose per lo sviluppo economico del nostro Paese.
Nell'ordinamento scolastico la riforma frantumerà l'unità culturale del Paese e l'istruzione sarà al servizio degli interessi delle maggioranze regionali. Ed è davvero avvilente pensare che mentre la prospettiva che l'Italia ha davanti è quella di contribuire a costruire l'armonizzazione e l'unita delle culture e dei saperi europei, con la riforma di Bossi si sceglie invece di frantumare l'identità nazionale della scuola in uno spezzatino di tanti minisistemi regionali con programmi di studio e perfino con contratti e retribuzioni degli operatori scolastici differenziati.
In materia di sicurezza, poi, sarà difficile immaginare un arcipelago di polizie locali al servizio dei governatori di turno. Le istituzioni che vigilano sulla sicurezza dei cittadini nel nostro Paese - Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza - hanno bisogno di essere potenziate. C'è bisogno di stanziare maggiori risorse per ripagarli dei sacrifici che fanno quotidianamente, ma certamente non c'è alcun bisogno di altri corpi, magari con il fazzoletto verde per compiacere qualcuno.
Per non parlare del più grande pericolo di deformazione dei connotati della nostra democrazia insito nella riforma come conseguenza dell'attribuzione al Primo ministro di un controllo sostanziale e quindi su tutte le scelte decisive per le sorti del Paese e per la regolamentazione dei diritti fondamentali dei cittadini. Se la riforma passerà ci troveremo di fronte ad una inammissibile modificazione del ruolo del Parlamento e dello stesso principio della divisione dei poteri che è il cardine di ogni moderno stato costituzionale.
Una riforma che cambia la struttura del Parlamento, rendendo farraginosa e difficile la produzione legislativa; che modifica la forma del governo rafforzando il potere dell'Esecutivo e del Primo ministro, che attribuisce al Premier il potere di promuovere l'attività dei Ministri e di nominarli e di revocarli a sua piacimento.
Di fronte a tanto, noi parlamentari siamo chiamati a vigilare sulla progressiva riduzione degli spazi di libertà: la Costituzione italiana è l'affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune di un'intera popolazione. La peggiore offesa che si possa materializzazione verso il nostro testo costituzionale è l'indifferenza verso i valori che lo hanno animato e verso le speranze che esso ha dato al nostro Paese. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Flammia. Ne ha facoltà.
 
FLAMMIA (DS-U). Onestamente, signor Presidente, non credo di poter aggiungere argomenti nuovi ai tanti già egregiamente illustrati dai colleghi che mi hanno preceduto nella seduta odierna e nei dibattiti delle precedenti sessioni che hanno accompagnato questo provvedimento.
Sento comunque il bisogno di parlare sull'argomento e lo faccio, non so se per lasciare una testimonianza agli atti, se per recitare un atto di dolore rispetto a tutta una vita trascorsa nella scuola a insegnare la storia del nostro Paese e il rispetto dell'identità nazionale o per invocare il Padre Eterno perché perdoni coloro che non sanno quello che fanno, nel senso che sembrano non avere i fondamenti per capire il danno che stanno facendo all'unità, all'identità, alla convivenza civile del nostro Paese.
Dopo aver ascoltato le elucubrazioni degli esponenti della maggioranza, a cominciare dai senatori D'Onofrio e Nania, invero non so nemmeno se sia il caso di rivolgersi a chi non vuole e forse non è in grado di recepire alcun ragionamento.
Basta guardare agli scanni vuoti per avere chiara la percezione della situazione paradossale ed allucinante nella quale ci troviamo. Qui si sta cambiando la Costituzione e non una legge qualsiasi.
Rispetto a questa totale chiusura e prepotenza da parte della maggioranza mi domando se non sia più realistica la situazione che ho vissuto da professore allorché il suono insistente di una campana sollecitava inutilmente un gruppo di ragazzini assonnati ad uscire dal letargo e ad ascoltare le parole dell'insegnante.
Riandando con la mente a ciò che è accaduto a conclusione delle precedenti sessioni di lavoro sul tema e alle goliardate che si preannunciano alla fine di questa sessione con sventolio di bandiere verdi, mi domando se quella dell'opposizione non sia una situazione molto dissimile da quella che è costretta a vivere un gruppo di avventori in un bar che cercano invano di frenare la baldoria di un crocchio di persone ebbre e poco disponibili all'ascolto e al rispetto degli altri.
Mi domando, ahimè, se non sia più facile il compito di quei tutori dell'ordine che allo stadio cercano invano di frenare l'irruenza di gruppi di facinorosi che dalla curva sfasciano tutto.
A questo punto, dopo aver ascoltato tante farneticazioni, pur non essendo un cattolico solerte e rigorosamente praticante, ispirandomi liberamente a qualche memorabile pagina del Vangelo, mi permetto - forse questa è la cosa migliore da fare - di rivolgere un'umile preghiera al Padre Eterno ed è quello che voglio fare.
Signore pietà! Perdona me che, dopo aver preteso per tanti anni di trasmettere nelle scuole a migliaia di ragazzi il senso dell'identità e dell'unità nazionale e dopo aver stigmatizzato anche con qualche cattivo voto il comportamento pigro, svogliato e negligente di qualche studente, oggi in quest'Aula vuota non sono in grado di farmi ascoltare e sono costretto ad assistere impotente al calpestamento della Costituzione e della storia del nostro Paese.
Signore, tu che tutto puoi, libera colui che si dichiara unto tuo dal compito di sacrificarsi ulteriormente per questo Paese già così ricco di telefonini ed automobili, come dice lui, e concedigli di godersi la vita a Tahiti o a Santo Domingo in compagnia dei suoi cortigiani o, se proprio gli è tanto caro, di trastullarsi con il fido Apicella sull'Isola dei famosi.
Concedi, o Signore, ai saggi che a Lorenzago si sono spremuti tanto per calpestare la nostra Costituzione di poter tornare in quel luogo ameno e lì rimanere a godersi la vita per lunghi e lunghi anni, nel conforto di ville e piscine, ma non oscurare, con la loro presenza, la gloria di tanti legislatori della storia, non mettere in difficoltà con Calderoli, Nania, D'Onofrio e Pastore i vari Solone, Licurgo, Pericle, Montesquieu, Sturzo, Terracini, De Nicola e quant'altri.
Assicura loro lunga vita, Signore, e anche alla Vestale di Pontida. Non ti arrabbiare se costui promuove sacrifici al dio Po, considerato che in fondo anche questo fiume è una tua creatura, per giunta tanto maltrattata. Pertanto, non dovrebbero infastidirti gli omaggi a lui tributati nei riti fatti sui suoi argini; oltre tutto è sempre meglio, Signore, che vengano fatti sacrifici al dio Po che essere sacrificati i princìpi della Costituzione.
Concedi poi, Signore, un po' di memoria a questi signori affinché non sostengano, con tanta spocchia, come abbiamo dovuto assistere, tutto e il contrario di tutto, a seconda delle circostanze e degli interessi elettorali.
Concedi, infine, Signore, lunga vita a questi distruttori della storia patria per non turbare la serenità dei Padri della Patria, dei meridionalisti, di coloro che si sono sacrificati per questo nostro Paese, che sono oggi nel tuo Regno.
Aspetta, caro Signore, a giudicarli e lascia che a giudicarli siano prima gli elettori italiani. Amen. (Applausi dal Gruppo DS-U).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Vallone. Ne ha facoltà.
 
VALLONE (Mar-DL-U). Signor Presidente, signor Sottosegretario, già guardandosi attorno ci si rende conto dell'apatia di questo dibattito: incredibile.
Fermiamoci per un attimo a quello che avvenne nel 1948: l'attesa del popolo, del Paese di un momento di grande felicità; la voglia e la determinazione di una Carta che univa il Paese dopo anni di dittatura: le Tavole della convivenza.
Invece qui, stiamo per modificarla e c'è un'apatia generalizzata, un'indifferenza: questo denota come è stato gestito e governato un processo così alto. Questa maggioranza non potrà vantare questo risultato; un risultato che sicuramente sarà messo in discussione dai cittadini di questo Paese, dal momento che non si possono modificare le Tavole della convivenza senza un coinvolgimento generalizzato, perché la convivenza è di tutti, non può essere di pochi e il rispetto di tutte le parti è fondamentale.
E allora, signor Presidente, forse sarà eccessiva l'iperbole del professor Giovanni Sartori, che ha definito il progetto di riforma in titolo una "Costituzione incostituzionale". Ma di sicuro la riforma che vi accingete a varare è un mostro giuridico. Un orribile Frankenstein del diritto, che cammina malfermo e calpesta i princìpi e i valori della Costituzione repubblicana del 1948, la quale ha garantito a questo Paese quasi sessant'anni di pace, di democrazia, di libertà e progresso.
Il presidente Ciampi, che su quella Costituzione ha giurato e della quale è il garante per esplicita indicazione dell'articolo 87, avverte il pericolo. E continua a lanciare l'allarme.
Attraverso la norma che stabilisce che il Primo ministro "determina", anziché "dirige", la politica nazionale (articolo 33 del disegno di legge in titolo), il nostro regime parlamentare viene trasformato in regime elettorale del Premier e svuotato di ogni flessibilità.
Il passaggio del potere di scioglimento della Camera dei deputati dalle mani del Presidente della Repubblica a quelle del Premier (articolo 27, lettera a)) non è tanto un rafforzamento e una stabilizzazione dei poteri di Governo, quanto un impoverimento delle risorse e delle garanzie istituzionali del sistema.
Il Capo dello Stato è ristretto espressamente, dall'articolo 26, ad un piccolo catalogo di competenze, proprio per vietargli la specifica missione, che la nostra storia costituzionale da sempre gli assegna, di alto arbitrato politico-costituzionale tra Governo, Parlamento e corpo elettorale.
Di fronte ad un sistema centrale così irrigidito e a un Primo ministro che, tra un'elezione e l'altra, può vivere di rendita, senza Parlamento né Presidente della Repubblica cui veramente rispondere, c'è, però, si dice, il sistema regionale.
Il Senato dovrebbe essere il naturale raccordo tra l'uno e l'altro sistema, ma così non è. Per comporre i conflitti tra Stato e Regioni è stata ripescata la formula genericamente politica di "interesse nazionale della Repubblica" (articolo 45).
Per dare un senso più giuridico e concreto a questa formula, si sarebbe dovuto estrarre dall'attuale testo della Costituzione - come proposto dalle Regioni e dall'opposizione - i veri contenuti dell'interesse nazionale. Vale a dire: i livelli essenziali dei diritti civili e sociali da garantire in ogni parte del territorio della Repubblica; l'unità giuridica e l'unità economica dell'ordinamento; nonché il riequilibrio delle risorse finanziarie. Vuota com'è, questa formula, è addirittura pericolosa: il nuovo Senato non solo non riuscirà mai a utilizzarla, ma, peggio, come temono le Regioni, diventerà il loro "controllore".
È in questa incerta carta geografica legislativa che s'inserisce il vostro feticcio della devolution e si inquadra l'aggettivo "esclusiva", relativamente alla legislazione regionale in materia di organizzazione sanitaria, scolastica e di polizia amministrativa locale, aggettivo usato dall'articolo 39, comma 10, della riforma in titolo.
Da questo aggettivo si percepisce fin troppo bene il tentativo di forzare la mano sui grandi sistemi nazionali, di operare una secessione di fatto nelle zone costituzionali di uguaglianza e solidarietà, sanciti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione.
Al di là di tutte le gravissime criticità testè ricordate, di questa riforma sfugge il reale costo: il mostro è spaventosamente pericoloso, non solo in termini giuridici, ma anche economici.
Secondo la Scuola superiore dell'economia e delle finanze e la Ragioneria generale della Stato, l'attuazione del federalismo potrebbe comportare una spesa che varierebbe da un massimo di 16,7 miliardi di euro a un minimo di 7,2 miliardi di euro. Costi che lasciano fuori il prezzo della devolution, quantificata da altri studi in ben 50 miliardi di euro, dei quali i capitoli più pesanti riguardano istruzione e ricerca scientifica, che mobiliterebbero rispettivamente risorse pari a 7,6 e 3,8 miliardi. Mentre il "prezzo" per portare in periferia polizia e formazione è stimato in circa 47 milioni di euro.
 
Presidenza del vice presidente FISICHELLA (ore 21,50)
 
(Segue VALLONE). Due giorni fa la Consulta ha giudicato incostituzionali, in quanto in contrasto con gli articoli 117 e 119 della Carta riformata nel 2000, due norme della finanziaria 2004, con le quali il Governo aveva obbligato gli enti locali a tagli di spesa su beni e servizi, invadendone l'autonomia finanziaria. E' sintomatico che tale ingerenza provenga da un Governo e da una maggioranza che hanno fatto, proprio della devolution, il loro cavallo di battaglia.
Colleghi, più che un cavallo, questa devolution ci sembra francamente un malconcio ronzino azzoppato. Predicate bene, ma razzolate male, dite che volete decentrare e poi intervenite anche nelle competenze degli enti locali. Prova ne è la sentenza di questi giorni.
Alla luce di tutto ciò, vi chiedo: avete fatto bene i conti di quanto costerà fare a pezzi l'Italia? Perché di questo si tratta, di farla a pezzi.
Colleghi, le forze politiche di opposizione sono orgogliose per aver combattuto una battaglia come questa. Non l'avremmo voluto, ma siamo convinti che questa battaglia continuerà successivamente; siamo convinti che i valori fondanti della Carta repubblicana sapranno rappresentare non solo il nostro passato, ma anche il futuro delle prossime generazioni.
Quanto a voi, colleghi della maggioranza, voglio ricordarvi l'esortazione che l'11 marzo 1947 all'Assemblea costituente, Benedetto Croce pronunciò sul progetto di Costituzione: "Ciascuno di noi si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso". Croce, davanti a un'Assemblea attonita, riuscì a toccare le coscienze di tutti. Chissà quanti di voi, domani, sentiranno nelle proprie coscienze quel "rimorso pungente e vergognoso". (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U)
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Rotondo. Ne ha facoltà.
 
ROTONDO (DS-U). Signor Presidente, i colleghi di centro-sinistra che mi hanno preceduto hanno ampiamente illustrato le ragioni politiche e giuridiche che spiegano perché la nostra opposizione al progetto di revisione costituzionale che stiamo discutendo è totale e di principio. Farò qualche considerazione aggiuntiva su un tema che più ha contribuito a scavare un fossato incolmabile tra il nostro punto di vista e quello della maggioranza di Governo: la devoluzione.
Signor Presidente, la devolution non ci piace, per la semplice ragione che non vogliamo che in Italia ci siano tanti sistemi sanitari e di istruzione diversi quante sono le Regioni, una frammentazione che spaccherebbe il Paese e romperebbe il principio dell'uguaglianza dei diritti fra tutti i cittadini.
Scuola e sanità sono i pilastri del welfare del XXI secolo, sono il cuore dei diritti di cittadinanza del futuro e nessuna forza politica avveduta e responsabile può consentire che, proprio su questo versante decisivo, si crei una disparità di trattamento fra quanti appartengono alla stessa comunità nazionale, che si consumi una frattura insanabile tra diverse aree geografiche del Paese.
Se è vero, secondo la definizione dell'Organizzazione mondiale della sanità, che la salute è benessere fisico e psichico, un tassello fondamentale cioè della qualità della vita, il sistema sanitario prossimo venturo sarà esposto a pressioni crescenti perché allarghi la gamma delle sue prestazioni, perché assicuri oltre al diritto alla salute anche il diritto allo star bene.
A dispetto del vincolo dell'interesse nazionale, che i colleghi di Alleanza Nazionale ci sbandierano ad ogni piè sospinto quasi si trattasse di una diga invalicabile, è molto probabile che la Lombardia ed il Veneto marceranno speditamente verso una sanità intesa come diritto a star bene, mentre in Sicilia o in Calabria sarà problematico garantire anche gli standard attuali, già così vistosamente insoddisfacenti.
Il caso italiano è, poi, seriamente complicato dall'invecchiamento della popolazione. L'Italia è il Paese che in Europa ha già oggi la più alta quota di anziani: nel 2000 gli ultrasessantacinquenni erano in Italia il 18,2 per cento della popolazione totale contro il 16,4 per cento della Germania, il 16 per cento del Regno Unito, il 15,9 per cento della Francia e il 15,4 per cento della Spagna, e si prevede diventeranno nel 2005 il 26,1 per cento in Italia, il 23, 5 per cento in Spagna, il 23,4 per cento in Germania, eccetera. In altre parole, il distacco tra l'Italia e gli altri grandi Paesi Europei tende ad aumentare: era mediamente di 2 punti nel 2000, salirà a 4 punti nel 2025.
Questo, se da un lato ci deve inorgoglire, perché testimonia una migliore qualità della vita ed anche - perché no? - una buona sanità, dall'altro lato, crea problemi drammatici di sostenibilità finanziaria. Quanto più si va avanti negli anni, tanto più aumenta la quota di persone colpite da patologie invalidanti, aumenta il numero di anziani che per essere mantenuti in buona salute hanno comunque bisogno di un forte sostegno medico e farmacologico. Tutto questo è segno di civiltà, ma pone problemi di costi, che crescono in maniera esponenziale man mano che aumenta il numero dei grandi vecchi.
Anche su questo fronte i dati segnalano l'allarme rosso: tra il 2000 e il 2025 gli anziani passeranno in Italia da 10,4 milioni a 13,4 milioni, con un incremento del 29 per cento, ma i molto anziani, le persone cioè con più di ottant'anni aumenteranno da 2,3 milioni a 3,9 milioni, con un incremento del 70 per cento.
In questo scenario è probabile che, nonostante la clausola dell'interesse nazionale tanto cara all'onorevole Fini e al senatore Nania, le ricche Regioni del Nord riusciranno a garantire cure di elevato livello insieme all'assistenza domiciliare e a quella ai non autosufficienti, mentre nelle Regioni del Sud gli anziani dovranno accontentarsi, se tutto andrà bene, delle cure strettamente indispensabili e a pagare in cambio ticket sempre più elevati, un modo sciagurato di spaccare l'Italia in due, di creare cittadini di serie A e cittadini di serie B.
Non molto diverso è il quadro per quanto riguarda l'istruzione. È vero che con la devoluzione la competenza esclusiva delle Regioni è limitata all'organizzazione scolastica, alla gestione degli istituti di formazione professionale, alla definizione di quella parte dei programmi scolastici che sono di interesse specifico locale, che le Regioni insomma non potranno mettere becco sugli indirizzi dell'istruzione primaria, secondaria e universitaria, che restano di competenza esclusiva del Governo centrale, ma è anche vero che a fare la differenza nella società di domani non sono i programmi scolastici ma il diritto allo studio e la formazione permanente.
Ma è anche vero che a fare la differenza nella società di domani non saranno i programmi scolastici, ma il diritto allo studio e la formazione permanente. Alleanza nazionale non potrà invocare la violazione dell'interesse nazionale se una ricca Regione del Nord assicurerà ai suoi studenti residenze universitarie gratuite o metterà a disposizione dei propri giovani, meritevoli ma sprovvisti di mezzi, un congruo numero di borse di studio per frequentare le università più blasonate del mondo (da Harvard a Cambridge, da Berkeley alla Sorbona), sol perché la Regione Sicilia non sarà grado di assicurare un contributo per l'affitto agli studenti fuori sede dell'Università di Enna.
Così come non potrà chiedere al Parlamento nazionale di annullare un'eventuale legge della Regione Piemonte che garantisce ai suoi cittadini forme di apprendimento per tutta la vita, la famosa politica anglosassone delle "tre elle" (long live learning), sol perché la Regione Sicilia non avrà neppure le risorse per i corsi di riqualificazione degli operai FIAT di Termini Imerese, alle prese con i processi di innovazione tecnologica.
Nell'era dell'economia della conoscenza l'uguaglianza delle opportunità passa soprattutto attraverso il diritto allo studio e la formazione permanente. La mobilità ascendente funziona solo per chi può far valere elevati livelli di istruzione o ha la possibilità di aggiornare e arricchire continuamente, nel corso degli anni, il proprio patrimonio culturale. Sottoposta alla prova del nove dei fatti, la clausola dell'interesse nazionale si rivelerà per quella che è: un'innocua foglia di fico, inventata per salvare la faccia a un partito che pretende di avere il monopolio dei valori patriottici, perché scrive la parola nazione con la N maiuscola.
Umberto Bossi non ha fatto mai mistero che la devolution a lui serve come scorciatoia per arrivare al federalismo fiscale e impedire a Roma ladrona e ai meridionali di mettere le mani sui danari dei padani. Un obiettivo che non fa una grinza visto nell'ottica di un partito regionale, bottegaio, e un po' razzista, come la Lega.
Meno comprensibile è che a reggere il sacco a Bossi siano stati, oltre ai capi nazionali della Casa delle Libertà (da Berlusconi a Fini), anche gli esponenti siciliani più in vista di quello schieramento. A questo riguardo vorrei spendere due parole sul modo grottesco con cui è stato gestito dal presidente della Regione Sicilia, Cuffaro, ma anche dai ministri La Loggia e Miccichè e dal senatore Schifani, l'accordo sull'attuazione dell'articolo 37 dello statuto siciliano. Un episodio che è passato quasi sotto silenzio e che è noto solo a una ristretta cerchia di addetti ai lavori.
Pensato nel convulso dopoguerra per arginare l'ondata separatista, e rimasto per cinquant'anni sulla carta, l'articolo 37 attribuisce alla Regione il diritto di tassare il reddito prodotto dagli stabilimenti localizzati in Sicilia, anche se questi fanno capo a imprese che hanno la sede legale altrove, ed è diventato operante proprio qualche settimana fa.
In base a un accordo tra la giunta Cuffaro e il Governo Berlusconi, è stato escogitato un bizzarro scambio con cui lo Stato restituisce alla Regione la quota di prelievo fiscale di sua spettanza e in cambio trasferisce competenze, che in base allo statuto avrebbero dovuto essere esercitate dalla Regione, e che finora erano state, invece, gestite dal centro.
Il decreto con cui l'accordo è stato messo nero su bianco, non specifica quali siano queste competenze. E si limita sibillinamente ad aggiungere che con decreto dirigenziale del Ministero dell'economia, d'intesa con l'assessorato siciliano al bilancio, si provvedere alla "definizione delle modalità applicative". Ma non ci sono dubbi, come ha argutamente osservato il segretario dei DS siciliani, Angelo Capodicasa, che siamo in presenza di una polpetta avvelenata: nella migliore delle ipotesi lo Stato si è ripreso con la mano sinistra quel che aveva dato con la mano destra, se non addirittura di più.
Stretto dalla necessità di recuperare soldi come che sia alla vigilia della campagna elettorale in Sicilia, il presidente Cuffaro si è fatto raggirare, probabilmente più per cinismo che per ingenuità, dal ministro Tremonti, il quale gli ha confezionato una soluzione che è fatta su misura più per la Lega Nord che per la Regione Sicilia perché prefigura il modello di federalismo fiscale che tanto piace all'onorevole Bossi, in cui ogni Regione si tiene stretto il proprio gettito fiscale o lo utilizza per far fronte alle esigenze del proprio territorio.
L'accordo sull'articolo 37, che ha avuto il plauso non disinteressato del ministro Maroni, è un pericoloso cavallo di Troia, che spiana la strada ai disegni disgregatori della Lega, e sarà duramente respinto dai siciliani non appena diventeranno chiari tutti i termini dell'improvvido scambio. Così come sarà respinto dalla stragrande maggioranza degli italiani l'insieme del progetto di riforma costituzionale che viene imposto al Paese a colpi di maggioranza, e che di esso faranno piazza pulita non appena si terrà il referendum confermativo. (Applausi dal Gruppo DS-U e dei senatori Bastianoni e Magnalbò).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Bastianoni. Ne ha facoltà.
 
BASTIANONI (Mar-DL-U). Signor Presidente, questo disegno di legge di modifica della Parte seconda della Costituzione, su cui il Senato si accinge ad esprimersi in via definitiva, è frutto, come è noto, di un'elaborazione tutta chiusa all'interno della maggioranza, direi blindata, senza un minimo di condivisione con i Gruppi dell'opposizione.
Quindi, potremmo dire che, già nel metodo, si pone ai limiti della legittimità, poiché dal punto di vista giuridico utilizza una procedura di aggiustamento, l'articolo 138, per riscrivere, anzi potremmo dire per stravolgere, ben 48 articoli, cioè circa la metà della nostra Carta costituzionale. E qui vorrei sfatare un mito, un falso mito, spesso richiamato dai Gruppi di maggioranza, secondo il quale la riforma del Titolo V della Costituzione, avvenuta nella scorsa legislatura ad opera del Governo di centro-sinistra, costituisce un precedente.
Questo è il mito, il falso mito che va sfatato: quella riforma del Titolo V fu il prodotto intanto del lavoro di oltre un anno della Commissione bicamerale, poi mandata all'aria dal capo dell'opposizione che, per altre ragioni, non condivideva il percorso sul quale all'inizio aveva convenuto. Inoltre, quel testo, oltre ad essere votato dalla Commissione bicamerale, fu il risultato di una richiesta pressante da parte della Conferenza delle Regioni, che a me pare di ricordare fosse presieduta dall'onorevole Ghigo, allora Presidente della Regione Piemonte, e composta da altri autorevoli Presidenti di Regioni, come Formigoni, Fitto ed altri.
Mi pare di ricordare che quella riforma fu richiesta anche dall'ANCI, dall'UNCEM e dall'UPI. Fu, quindi, una riforma, ancorché tra luci ed ombre, comunque varata dopo un dibattito, dopo un confronto; su questo provvedimento vi fu pertanto un dibattito, un dialogo.
Questa volta non vi è stata alcuna disponibilità ad entrare nel merito di un discorso minimamente condiviso con i Gruppi dell'opposizione. Stiamo modificando la Costituzione, non stiamo votando un decreto-legge, non stiamo votando una norma per la quale il Governo ha dei tempi contingentati entro i quali deve procedere, perché altrimenti si possono creare dei problemi nell'azione dell'Esecutivo.
Signor Presidente, per quanto riguarda il merito, elenco rapidamente i temi chiave: l'assetto delle competenze tra Stato e Regioni, la cosiddetta devolution, il bicameralismo, i rapporti tra il Primo Ministro, il Governo e il Presidente della Repubblica, la composizione e il funzionamento della Corte costituzionale. Vi sono naturalmente connessioni dirette tra questi temi, ad esempio tra Regioni e bicameralismo, con la previsione di norme concernenti il cosiddetto Senato federale, che interessano in particolare questo ramo del Parlamento.
A causa del tempo limitato a disposizione, mi limiterò a svolgere alcune considerazioni solo su alcuni aspetti di questa legge. Si è detto che questo testo si caratterizza in particolare per la cosiddetta devolution, che prevede l'attribuzione di una competenza esclusiva alle Regioni in alcune materie specifiche, quali assistenza ed organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, polizia amministrativa regionale e locale.
Una prima valutazione: era intanto necessario intraprendere la strada di migliorare il funzionamento dell'attuale regionalismo in materia di amministrazione e di finanziamento, perché questo è il nodo vero, il finanziamento del regionalismo, del federalismo. Quali risorse vengono poste per dare attuazione a questa previsione di legge? Il federalismo fiscale come viene concepito? Questo è il punto vero.
Si è scelto, di introdurre un'improbabile devoluzione che non farà che aumentare i conflitti e le controversie nel già di per sé complesso rapporto fra Stato e Regioni. Non possiamo poi non rilevare il clamoroso paradosso: mentre si assegnano alle Regioni nuovi poteri con la richiamata devolution, il Governo, che ha imposto questa riforma, fa approvare in Parlamento norme e leggi a ripetizione che richiamano le più vituperate pratiche centraliste del passato. La sentenza di ieri della Consulta sull'illegittimità della cosiddetta manovrina del 2004 che lede le autonomie lo sta dimostrando.
Ciò avviene dall'inizio della legislatura, dal campo dei lavori pubblici a quello dell'urbanistica, a quello di fondi e misure gestiti dal livello statale per le finalità più diverse in materie di consolidate competenze regionali.
Un'ulteriore considerazione è che la riforma non ha la sua vera ragion d'essere in un progetto di rafforzamento effettivo del regionalismo in Italia. Essa è diventata, da un lato, un trofeo che la Lega tiene a mostrare al proprio elettorato; dall'altro, le norme sulla cosiddetta devolution hanno costituito moneta di scambio con gli altri partner della maggioranza per ulteriori e ancor più insidiose modifiche costituzionali sul Governo, sul Parlamento, sulla Corte costituzionale che, se attuate, rischierebbero davvero di alterare i delicati equilibri costituzionali sui quali si fonda la nostra democrazia.
La riforma, infatti, prevede un Premierato fortissimo, con un Capo del Governo non bisognoso della fiducia del Parlamento che potrà essere da lui sciolto a piacere; un Primo Ministro che sarà il dominus incontrastato della politica e delle istituzioni del nostro Paese.
In tali condizioni, è vero - come è stato evidenziato - che si rischia il Premierato assoluto con chiare connotazioni plebiscitarie, cioè un regime di Governo tutto incentrato intorno al ruolo del Presidente del Consiglio, senza che vi sia alcun altro potere capace di esercitare un significativo ruolo di contrappeso.
Signor Presidente, ciò avviene limitando fino a sopprimere di fatto le prerogative ed il ruolo di arbitro che oggi il Presidente della Repubblica svolge nel nostro ordinamento e indebolendo il ruolo della Corte costituzionale. Questi veri e propri pilastri del nostro sistema costituzionale vengono declassati a mere pietre di inciampo, da rimuovere in tutta fretta.
Signor Presidente, l'articolo 1 della nostra Costituzione recita: «L'Italia è una Repubblica democratica». «Repubblica» è l'espressione che indica che la cosa pubblica, la polis, appartiene a tutti, non solo alla maggioranza e tanto meno a uno solo!
Siamo fermamente convinti che chi ha giurato sulla presente Costituzione, chi è chiamato a difenderla e a rispettarla, non desidera affatto che ne vengano stravolte coerenza e funzionalità e ne risulti compromesso il primario valore dell'unità nazionale.
Per parte nostra, come parlamentari dell'opposizione, sappiamo cosa fare: ricorrere al referendum e chiedere agli italiani di bocciare con il loro pronunciamento questa assurda riforma. (Applausi del senatore Mascioni).
 
PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Cavallaro, che dispone di quindici minuti di tempo. Ne ha facoltà.
 
CAVALLARO (Mar-DL-U). Signor Presidente, vedo sguardi preoccupati del senatore Magnalbò che ha deciso di prestare ossequio all'Aula. Penso, però, che il mio intervento non sarà così imponente.
Le confesso, signor Presidente, autorevoli colleghi superstiti, che provo un certo disagio ed imbarazzo a parlare, non perché l'Aula non è particolarmente affollata, ma perché credo che un tema di questo genere avrebbe meritato ben altra attenzione. Paragonare me stesso in senso autocritico e con modestia ed umiltà ai Padri costituenti, che di questa stessa materia si occuparono con ben altro prestigio scientifico, culturale, morale ed intellettuale, provoca in me un incomprimibile disagio.
Credo e spero che tale disagio, seppure non prenderà la gran parte della maggioranza parlamentare, sarà sentito dal Paese, il quale comprenderà quanto il raffronto tra la tensione ideale, politica e morale dei Padri costituenti e l'approssimazione e la riduttività di questa riforma debba per ciò stesso renderla invisa agli italiani e meritare - se essi saranno chiamati ad esprimere una valutazione costituzionalmente democratica - un parere assolutamente contrario.
Questa riforma costituzionale (che peraltro non è, se non di facciata, una miniriforma, evoca soltanto formalmente l'articolo 138) preoccupa perché è tutto sommato lo specchio di una legislatura: una non commendevole legislatura si chiude con una non commendevole riforma costituzionale. Non commendevole per tanti motivi, fra l'altro perché si è tentato strumentalmente di appaiarla alla riforma dell'articolo 117 della scorsa legislatura, sulla quale si è già detto molto, cioè che non ha nulla a che vedere con questa perché veniva da un'ampia e condivisa attività parlamentare, ma soprattutto che non sarebbe un argomento, perché, se fosse stato quello un errore, molti errori non farebbero una cosa giusta, anzi, il peggiorare l'errore sarebbe un rimedio peggiore del male.
Ma è lo stile di questi Governi questo massiccio coacervo di norme costituzionali che nasce, come tutti noi sappiamo, da una baita di montagna nella quale quattro colleghi simpatici, autodefinitisi saggi, hanno prodotto l'ossatura di questa riforma.
Si tratta di una riforma che è contro l'unità della Nazione, è contro quel sentimento che esiste, che è vero, che è forte nel nostro Paese; e qui non occorre evocare martiri, eroi, santi, navigatori, non occorre la retorica: anche gli antieroi, anche i nostri emigranti, anche i nostri cittadini e i nostri lavoratori, tutti insieme sono espressione del desiderio di unità della Nazione, del fatto che la Nazione dà il meglio di sé quando invoca l'unità, non necessariamente quando qualcuno sacrifica la propria vita, perché la nozione di cittadino, proprio nel nostro Paese, che ha avuto una debole storia unitaria, semmai va rafforzata, accresciuta, irrobustita di dignità morale e costituzionale.
Seguire invece il percorso che avete scelto, signor Presidente (certo, dirlo a lei è persino scontato e mi dispiace quasi rivolgere a lei, come Presidente pro tempore, questo ragionamento), significa veramente fare qualcosa di grave, cioè rinunciare a quella che invece avrebbe potuto essere una fase nuova e importante della vita del nostro Paese, così come significa intaccare l'unità della Carta costituzionale: anche di questo non si è voluto parlare o si è parlato troppo poco.
La verità è che si è finto di credere che, soprattutto attraverso l'articolo 138 e perché si rende intangibile la I parte della Costituzione, si possano in qualche modo manipolare a piacimento gli istituti della nostra Costituzione. Non è così, perché la nostra Costituzione è un complesso articolato ma unitario di regole, e i diritti fondamentali della I parte si reggono, respirano, vivono e camminano nella società attraverso le istituzioni costituzionali: di questo si è voluto fingere di non tenere conto, questo si è ignorato.
Quando si intaccano gli equilibri delicati del Parlamento, del Capo dello Stato, della Corte costituzionale, quando si tenta, per altra via, anche con legge ordinaria, di soffocare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, perché si attenta alla libertà di quest'ordine, in verità, si vuole, anche così, attentare all'intero complesso della Carta costituzionale e si ottiene quindi un Paese meno democratico, meno forte, meno capace di raggiungere i suoi traguardi e i suoi obbiettivi, si indeboliscono le istituzioni, proprio quelle di garanzia e quelle che rendono l'equilibrio dei poteri, il balance power di costituzionale memoria, il punto di approdo di ogni scelta politico-istituzionale che deve guidare la nostra condotta, la nostra scelta parlamentare.
Qui avrebbe potuto aprirsi una nuova stagione, signor Presidente, di democrazia partecipata, di presenza delle cosiddette autonomie costituzionali orizzontali, dei corpi sociali articolati, una nuova stagione che avrebbe potuto rispondere a quelle attese nuove che emergono dalla società. E non è affatto vero che quest'ultima chieda una sorta di indistinto dirigismo; essa non chiede affatto un plebiscitarismo leaderistico, ma chiede una partecipazione reale, proprio nel momento in cui la partecipazione stessa è messa in discussione dal potere delle elite, dalla difficoltà delle masse di esprimersi attraverso i meccanismi tradizionali della democrazia repubblicana, attraverso l'invasività dei mezzi di comunicazione e, quindi, quando noi avremmo dovuto istituire dei mezzi di governo della democrazia, piuttosto che arrenderci alla deriva plebiscitaria.
Certi paragoni con gli Stati Uniti sono indecorosi, perché quella grande società e civiltà questi problemi se li pone e continua a lavorare attraverso un continuo, significativo bilanciamento dei poteri. Non è affatto vero che negli Stati Uniti d'America c'è soltanto una Presidenza imperiale, perchè vi è un complesso articolato di realtà locali che fa di quel Paese ancora, se si vuole, per chi vi crede e anche per chi crede in questo spirito bipolare originario, un modello che eventualmente andava seguito, ma andava seguito con coscienza, coerenza, dignità e, soprattutto, con sapienza e non con quell'approssimazione che invece ci siamo trovati di fronte.
Si sono innescati, infatti egoismi e competizioni che non sono solo culturali e psicologici. Una delle tesi è che in fondo la cosiddetta devolution non intacca l'unità della Nazione; si parla genericamente dell'interesse nazionale, anche se la parola interesse è del tutto inappropriata a una Nazione. La Nazione non ha un interesse, ma un'unità e una dignità comune.
Anche sotto questo aspetto si vuole nascondere che persino il recente accordo di governo della Germania ripropone invece molto più saggiamente una crisi del federalismo e soprattutto un controllo: attraverso gli istituti della responsabilità, della sussidiarietà e del decentramento autonomista si possono raggiungere proprio quegli obiettivi di partecipazione e di decentramento che sono, almeno sotto il profilo della predicazione, come è stato detto, uno degli scopi fondamentali di questa riforma.
La verità è che questa riforma è un prodotto tipico della tecnica negoziale che ha contraddistinto l'attuale stagione legislativa. Una tecnica negoziale perché il Presidente del Consiglio - diciamoci la verità, signor Presidente del Senato - ha distribuito tra i suoi alleati di Governo in questi cinque anni un po' di palloncini colorati e un po' di lecca lecca, come si fa con i bambini per tenerseli buoni. Alla Lega è stato dato il palloncino colorato della devolution e all'UDC è stato dato il lecca lecca della riforma elettorale. Tra l'altro, tutte queste riforme avranno o poco peso o peso devastante nel Paese e avranno costi altissimi. La riforma elettorale scardinerà persino la stabilità del sistema politico del nostro Paese.
Mi spiace poter ricordare le poche cose che ha chiesto Alleanza Nazionale, un partito che forse, avendo una storia un po' più antica, ha avuto qualche ritegno; in qualche modo ha cercato di irrigidire muscolarmente alcuni degli istituti sui quali si era dibattuto anche nella precedente legislatura: mi riferisco alle norme sull'immigrazione e sugli stupefacenti.
E Forza Italia che cosa ha chiesto? Forza Italia dal canto suo ha portato a casa quello che veramente le interessava, la legge Gasparri e tutto quel profluvio di leggi importanti costruite attraverso carriere personali e processuali.
Questo è lo scopo e questa è la sintesi dell'attuale stagione legislativa. Spiace dirlo, certamente può sembrare persino offensivo, ma la verità è che da questo patto scellerato non poteva che nascere questa riforma scombiccherata, che attenta agli organismi di controllo, che distrugge l'unità nazionale e che nella futura composizione del Senato - e qui lo dico da marchigiano - certamente avvilisce la rappresentanza delle Regioni minori.
Se avessimo voluto costruire un Senato federale avremmo dovuto modellarlo sul Senato statunitense, dove ciascuno Stato partecipa con due senatori, quale che sia la sua robustezza di carattere demografico, perché questo è lo spirito del Senato come funzione di controllo rispetto al potere dell'Esecutivo.
Non abbiamo neanche costituito un Senato sul modello tedesco; ci siamo divertiti, come si suol dire, a piluccare tra le istituzioni mondiali, come fanno tutti coloro che, non avendo nessuna idea precisa di quello che devono fare e, soprattutto, alcun interesse reale a realizzare una riforma siffatta (perché nessun cittadino italiano ne sentiva il bisogno), hanno tuttavia costruito intorno a dei desideri leghisti e a un vago desiderio plebiscitario e leaderistico di Forza Italia, questo modello.
Un modello che si è unito ad una riforma puramente elettorale che in un'orgia di sbarramenti ha istituito persino, l'ho scoperto recentemente, il Tano Belloni della politica, ovvero il miglior perdente, colui che non avendo vinto niente verrà premiato con una sorta di maglia nera parlamentare e verrà anch'egli in Parlamento.
Si chiude così, signor Presidente, il cerchio. Questa legislatura alla fine produrrà con la riforma costituzionale il suo Tano Belloni, il pedalatore nobile ma sfortunato che arriverà ultimo ma che comunque sarà premiato con un cadreghino parlamentare.
Per il resto, si è detto moltissimo nel merito di questa riforma e qui per brevità la conclusione del mio intervento mi impedisce di fare ulteriori dissertazioni. Mi premeva soprattutto stigmatizzare le finalità ultime e purtroppo profonde per le quali siamo arrivati fino a questo punto nonostante la necessità da noi più volte segnalata di una riflessione, di una pausa, di un momento di coinvolgimento dell'opposizione.
Si dice che si è tentato di coinvolgere l'opposizione, ma lo si è fatto in un dibattito parlamentare che per l'80 per cento è stato svolto su un testo completamente diverso da quello portato all'esame dell'Aula, come del resto la tecnica parlamentare di questa legislatura ci ha abituato con riferimento ad altre riforme.
L'ho definita, in altra occasione, una tecnica alla «Silvan», nel senso che una volta agitata la mano come fanno i prestigiatori e avviato un ampio e articolato dibattito su quella mano che si muoveva, quella stessa mano ha eseguito la riforma legislativa squadrellando alla fine altri contenuti ed altri istituti.
Di questo sostanzialmente si tratta, soprattutto in relazione a quella scelta ancora più sciagurata di una legge puramente proporzionale e persino acefala che dà totalmente in mano, almeno ipoteticamente, al partito del Premier l'intero Parlamento.
Quest'ultimo, del resto, è condizionato da una legge elettorale in cui non si prevedono preferenze, collegi ed alcuna mediazione tra il potere del partito e quello degli eletti, anzi il dovere degli eletti è di essere ossequienti al capo. Il popolo non può che dare un'interlocuzione finale e quinquennale a questa scelta ed è quindi in quella direzione che ci si muove rispetto ad una riforma che sotto questo aspetto concentra il potere dello scioglimento delle Camere nelle mani del Presidente del Consiglio.
È un'altra scelleratezza o almeno un altro errore o sbaglio. Bisogna costruire dei meccanismi senza pensare a quanto essi debbano essere strategicamente e strutturalmente validi. Si potrebbe anche dire "etsi Berlusconi non daretur", tanto per usare una categoria della riflessione teologica. È giusto e vero che si devono costruire istituzioni democratiche che prescindono dal dato dell'oggettività, ma è proprio questo che non si è voluto fare.
Molte delle componenti politiche della maggioranza, hanno fatto a mio parere persino violenza alla propria natura, alla propria cultura e alle proprie radici pur di produrre questo parto malato, questa riforma asfittica, una riforma che certamente non passerà alla storia e che, per ritornare al punto da dove ero partito, certamente farebbe sobbalzare qui in questa sede e lì dove essi ora sono tutti i nostri Padri costituenti, a qualunque schieramento e di qualunque parte politica essi avessero in quel momento fatto parte. (Applausi del senatore Bastianoni).
  

 Torna all'indice
 


 
Indice "leggi del Diritto Pubblico e Costituzionale"
 
Speciale "Referendum costituzionale" 2006