Discussione generale Ddl di revisione
Costituzionale: Senato - 15 novembre 2005 (seduta del
pomeriggio)
Fonte: Senato |
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Cosa posso dirvi, dunque, a conclusione
del mio intervento? Vi posso dire quella che è una realtà
obiettiva, ovverosia che il referendum spazzerà via ogni cosa. Noi
siamo orfani certamente dei nostri maggiori, quelli che avevano scritto,
voluto ed approvato una Costituzione diversa. Siamo orfani di Piero Calamandrei,
di Alessandro Galante Garrone, di Norberto Bobbio, ma il loro pensiero
è ben vivo e la loro lezione l'abbiamo imparata e la porteremo avanti,
di fronte a questa totale incultura istituzionale che trasuda da ogni articolo
di questa sorta di legge che presentate al Parlamento per l'approvazione
finale.
Voi modificate la Carta costituzionale.
La modificate in modo serio e grave, ma noi continuiamo ad essere convinti
che, come ha scritto Calamandrei e come più volte è stato
detto in quest'Aula (non posso non ripeterlo anche in questo mio intervento),
per ricercare la nostra Costituzione andremo sulle montagne dove caddero
i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono
impiccati, dovunque sia morto un italiano per riscattare la libertà
e la dignità. Noi andremo lì, perché lì è
nata la nostra Costituzione. (Applausi dai Gruppi Verdi-Un, Mar-DL-U e
DS-U).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Curto. Ne ha facoltà.
CURTO (AN). Signor Presidente,
profferirò pochissime parole per fare chiarezza sui motivi di polemica
che sono stati agitati in queste settimane, in questi mesi, da parte dei
colleghi del centro-sinistra. Pochissime parole per rappresentare, con
un esempio plastico, come la deformazione della verità ormai costituisca
il DNA di una certa parte politica.
Il senatore Zancan, che mi ha preceduto,
parlando del sistema delle garanzie per le autonomie locali ha infatti
prospettato l'ipotesi di un conflitto permanente (un'espressione molto
cara, probabilmente, ad una certa sinistra) tra lo Stato, i Comuni, le
Regioni e le Province. Non ha ritenuto, però, il senatore Zancan,
di leggere l'intero articolo e quindi di richiamare l'ultimo capoverso,
nel quale si fa riferimento al fatto che c'è una legge costituzionale
che disciplinerà le condizioni, le forme e i termini di proponibilità
della questione, a dimostrazione che ci saranno griglie che non consentiranno
a tutti di poter strumentalmente agitare la questione di costituzionalità.
Infatti, se così fosse, in effetti apriremmo un varco a coloro che
non vogliono il bene del Paese, a coloro che invece vogliono che il Paese
continui a vivere in un'irrazionalità assoluta.
Debbo richiamare anche l'intervento di
un altro autorevole collega del centro-sinistra. Questa mattina, il senatore
Manzella, nel suo intervento, ha parlato della platea dei colleghi del
centro-sinistra che sarebbero intervenuti su questo provvedimento definendola
sostanzialmente come una sorta di avanguardia politica.
Un'avanguardia politica che tendeva, evidentemente,
a raggiungere l'obiettivo di trasferire al Paese tutte le perplessità,
tutti i timori, tutte le angosce che una parte politica, che prima di noi
aveva proposto la questione del federalismo in Italia, aveva affrontato
in maniera sicuramente dissimile rispetto a come ha fatto in questi ultimi
mesi.
Non so dire se posso chiedere al senatore
Manzella di entrare a far parte di quell'avanguardia politica. Dico solamente
che sono tra quei senatori che hanno ritenuto e ritengono di dover intervenire
in questo dibattito perché faccio parte di un gruppo, forse non
molto nutrito, ma neanche poco consistente, all'interno del centro-destra
e, perché no, anche della destra e della stessa Alleanza Nazionale
che, in passato, ha avuto molte perplessità riguardo a questo nuovo
sistema di struttura costituzionale. E quando in quest'Aula votammo a favore,
molti di noi lo fecero - lo dico in maniera assai franca e assolutamente
senza alcun infingimento - più che altro perché esistono
delle regole politiche all'interno delle coalizioni e dei partiti, in ragione
delle quali va adottato un certo tipo di comportamento, che si chiama disciplina
di partito, altrimenti si avrebbero l'anarchia e l'individualismo esasperato,
cioè l'incapacità di rappresentare princìpi, obiettivi
e idee comuni.
Nel passato ho adottato un comportamento
di questo genere e ho ritenuto opportuno votare a favore di questo provvedimento,
non perché - e lo dico in maniera molto franca - ne fossi estremamente
convinto, ma perché questa era la linea politica della mia maggioranza,
della mia coalizione e del mio partito.
Mai come in questi ultimi mesi ho ritenuto,
invece, di dover necessariamente ripercorrere alcuni momenti della mia
particolare formazione culturale, che probabilmente è comune anche
a molti di noi. Ho ricordato il periodo universitario, quando per la prima
volta mi trovai davanti quella particolare procedura di revisione costituzionale
che è il procedimento di aggravamento. In quella occasione, la interpretai
come un passaggio inutile, superfluo, come un appesantimento delle procedure
che avrebbero portato alla definizione della legge.
Mi rendo perfettamente conto oggi che
quel procedimento di aggravamento ci ha dato la possibilità di riflettere
di più, di analizzare di più, di convincerci meglio della
bontà di un'iniziativa, di un provvedimento di revisione costituzionale,
di una riforma.
Evidentemente ci sono situazioni che non
possono essere prese a cuor leggero; ci sono questioni, soprattutto quando
si tratta di riformare lo Stato, che non possono essere esaurite nello
spazio di un dibattito parlamentare, sia pur certamente più ampio
rispetto a quello che il centro?sinistra ci ha riservato nella passata
legislatura, quando determinò le condizioni e i presupposti per
dar vita a un certo tipo di federalismo sicuramente monco, con una maggioranza
assolutamente striminzita, violentando la volontà complessiva di
questo ramo del Parlamento e creando le condizioni per produrre anche una
contrapposizione tra le due Camere.
Debbo, quindi, riconfermare anche in questa
occasione, come sia stato assolutamente necessario consentire - come è
stato fatto - un dibattito molto più ampio, creando anche le condizioni
per rimuovere quelle resistenze di natura culturale, psicologica, sociale
e territoriale, che negli ultimi tempi sono state avanzate e agitate come
spettri rispetto all'adozione di questa revisione costituzionale.
Oggi il nostro impegno non è solamente
votare a favore di questa legge, come è avvenuto nella tornata precedente,
nel marzo 2005. Ovviamente, voterò in senso favorevole il provvedimento
al nostro esame anche in questa occasione, ma credo che occorra dire qualcosa
di più sotto il profilo politico.
Oggi noi di Alleanza Nazionale non possiamo
limitarci a sottoscrivere l'impegno a votare in Aula questo provvedimento,
ma ci impegniamo a sostenerlo anche in occasione del referendum confermativo,
che credo sia la cartina di tornasole di una coalizione politica che si
rispetti, che mantiene gli impegni, che ritiene di avere valori condivisi,
che non vuole terminare la propria vita politica con questa legislatura,
ma vuole continuare anche in seguito, perché ritiene di avere gli
strumenti, le capacità, le progettualità, le intelligenze
per governare il Paese.
Siamo impegnati, quindi, a determinare
queste condizioni, a trasferire all'interno del corpo elettorale e della
pubblica opinione i nostri convincimenti e le nostre certezze su un argomento
che riteniamo molto importante, perché il Paese cambia, si modernizza,
si razionalizza. Forse oggi quello di cui ha bisogno il Paese è
una grande razionalizzazione, dal momento che non è più possibile
utilizzare le risorse pubbliche, come è accaduto nel passato.
Un grande merito, allora, un grande passo
avanti è che questa riforma, sostanzialmente, pone dei rimedi a
quella che il centro-sinistra approvò - l'ho già detto -
alla fine della scorsa legislatura, con una maggioranza di soli quattro
voti, con l'ausilio di quelle forze politiche che oggi si vorrebbero demonizzare
solamente perché fanno parte del centro-destra, mentre erano perfettamente
inserite nello schema democratico quando erano alleate del centrosinistra.
Tornerò fra breve su questo argomento,
perché credo che rappresenti uno dei fattori più importanti
rispetto ai quali noi di centrodestra dobbiamo giocare una grande battaglia
con la pubblica opinione.
C'è un aspetto molto importante:
noi acceleriamo i grandi ritardi che sono stati accumulati, non dal centro-destra
e dalla maggioranza, ma dall'intero Paese sul tema. Dobbiamo superare questo
tipo di contraddizione: da un lato, ci si ribella all'ipotesi di uno Stato
federale, dall'altro, non c'è Regione, non c'è Provincia,
non c'è Comune, non c'è Comunità montana che non rivendichi
il proprio spazio di autonomia.
Dobbiamo chiarire tale situazione, anche
alla luce dell'ultima pronuncia della Corte costituzionale, che ha fatto
riferimento alla necessità di indicare i parametri complessivi della
spesa, ma di lasciare poi libertà ed autonomia nella scelta dell'allocazione
delle risorse.
Anche sotto questo aspetto, diciamolo
in maniera molto chiara, chi del centro-sinistra ha ritenuto di poter sfruttare
la situazione e il pronunciamento della Corte in maniera negativa nei confronti
del centro-destra, a mio personale avviso, è incorso semplicemente
in un grande bluff, perché quella pronuncia sostanzialmente conferma
la bontà della nostra impostazione e la necessità di procedere
sulla via di uno Stato federale.
Avevo parlato di modernizzazione, che
investe il sistema bicamerale perfetto. Debbo purtroppo procedere per sintesi,
ma intendo ricordare quanti teorici e politologi si sono confrontati sul
tema di un bicameralismo che ha simili competenze, che quindi rallenta
i lavori parlamentari, che crea le condizioni per l'ostruzionismo, che
determina le condizioni per non far procedere il Paese alla stessa velocità
con la quale procede la società civile o la società economica.
Quante volte ci siamo interrogati su questo.
Oggi, che assumiamo determinazioni in tal senso, anche attraverso uno sfoltimento
ed una razionalizzazione del numero dei parlamentari, ci si chiede perché
mai fosse così necessario procedere in questa direzione. Superiamo
il bicameralismo, dando competenze diverse alla Camera e al Senato, istituiamo
la figura del Primo Ministro che finalmente corrisponde alla società
attuale. Non ci siamo inventati nulla, abbiamo sostanzialmente ratificato
ciò che oggi avviene: l'esistenza di un diaframma profondo tra le
Assemblee parlamentari e gli Esecutivi, perché sono questi ultimi
che decidono molto di più di quanto non avvenisse nel passato rispetto
alle decisioni delle Assemblee.
Pertanto, se questo è lo schema,
ed è di tipo verticale, non possiamo ingessare il Primo Ministro
all'interno di un quadro che non gli permetta di poter espletare tutte
le proprie potenzialità, perché ne va del prestigio, dell'autorevolezza,
della flessibilità delle funzioni, della capacità anche di
rappresentare in maniera forte e decisa gli interessi nazionali del Paese.
Quanto all'interesse nazionale, altro
argomento importante sul quale ci si è mosso soffermati sia da parte
del centro-destra che del centro-sinistra, riteniamo che aver ripreso in
considerazione questo concetto non rappresenti una mera esercitazione teorica,
ma un momento importante per definire il DNA di questa nuova riforma costituzionale.
Tutto si blocca, tutto si ferma, tutto si infrange contro l'interesse nazionale,
se questo non è garantito, non è tutelato, non è protetto,
non è proiettato verso gli interessi generali dei cittadini. Aver
rimarcato questo dato costituisce un momento importantissimo dello schema
strutturale all'interno del quale abbiamo collocato la riforma costituzionale.
Signor Presidente, onorevoli colleghi,
concludo facendo riferimento ad una domanda che mi è stata posta
poco fa da alcuni organi di informazioni su come si sente un parlamentare
di centro-destra a far approvare la riforma federalista dello Stato. Ho
replicato che forse la domanda andava posta in termini diversi: non come
si sente un uomo di centro-destra, ma un uomo della destra, di Alleanza
Nazionale, a far passare una riforma federalista.
Ebbene, mi sento come un parlamentare
che ha contribuito, insieme a tutti gli altri colleghi, a far uscire la
situazione politica italiana con questo tipo di provvedimento dal caos
all'interno del quale era stata gettata la materia da parte del centro-sinistra,
che per la fretta di determinare un certo tipo di risultato politico, aveva
di fatto determinato le condizioni per creare un mostro giuridico, dove
le competenze si contrapponevano, si accavallavano ed a un certo momento
si divaricavano prendendo strade differenti.
Quindi, ritengo sia stato dato un importante
contributo in tal senso. Ma credo - e lo riconfermo qui - che debbono essere
riconosciuti due fattori molto importanti: uno riguarda il partito della
Lega, nostra alleata, e l'altro principalmente e direttamente il partito
di Alleanza Nazionale.
Per quanto riguarda il partito della Lega,
credo che vada accreditato a tutto il centro-destra, Lega compresa, la
grande mutazione genetica avvenuta nel corso di questi anni, che non ne
ha d'altro canto snaturato i princìpi, gli obiettivi, le tesi di
fondo e, soprattutto, gli interessi legittimi che tutelava.
Voglio ricordare, stando in questo ramo
del Parlamento da ben dodici anni, che è dell'altra legislatura
il fatto che la Lega Nord si riuniva nel cosiddetto parlamento della Padania;
riuniva il proprio corpo armato, le camicie verdi; mentre si discuteva
qui la legge finanziaria ed il voto di fiducia, essa si allontanava dall'Aula
parlamentare per elaborare strategie politiche altrove. Oggi la Lega è
tutt'altra cosa rispetto al passato ed è grande merito di questa
forza politica, ma anche di questa coalizione e di questo partito, parte
importante di quel movimento politico.
Il mio partito si era avvicinato con molte
perplessità, paure, timori, angosce alla riforma dello Stato federale
perché la nostra è una cultura sostanzialmente unitaria del
Paese: l'unità nazionale, il rispetto, il culto della bandiera hanno
sempre rappresentato e rappresentano tuttora un momento importante di natura
culturale, politica, sociale, territoriale, di costume, etico.
Ebbene, avevamo molti timori nel prendere
questa direzione, ma anche noi abbiamo compiuto grandi passi avanti, rimuovendo
quelle rigidità intellettuali che hanno a lungo determinato un freno
alla nostra azione politica.
Oggi questi sono due partiti molto più
moderni, grandemente proiettati al futuro che, insieme con gli altri alleati,
Forza Italia ed UDC, si apprestano a dare una nuova, più bella e
prestigiosa immagine. Lo facciamo nella consapevolezza che vi è
una grande garanzia per questa riforma dello Stato federale: è la
Costituzione stessa, così come esce dai lavori parlamentari, lo
strumento ed impianto che garantisce gli interessi generali del nostro
Paese.
Sono convinto che quando trasferiremo
- e lo sapremo fare - questi concetti, princìpi, opinioni, obiettivi
raggiunti anche al corpo elettorale, questo non potrà che riconoscerlo
e che essercene grato. (Applausi del senatore Pastore).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Di Siena. Ne ha facoltà.
DI SIENA (DS-U). Signor Presidente,
signori rappresentanti del Governo, stiamo vivendo in un'epoca in cui le
democrazie moderne si trovano ad affrontare problemi stringenti. Non solo
esse si sentono assediate dall'esterno, dal dilagare dei fondamentalismi,
con i rischi di implosione che ne possono derivare, ma esse sono come minati,
per certi aspetti, dall'interno.
Il corso della storia mondiale iniziato
negli anni Settanta del secolo scorso e che per molti aspetti ancora dura,
insieme alle grandi trasformazioni che hanno investito l'economia, la società,
i consumi, riassunte sotto il nome di "globalizzazione", ha anche prodotto
sul piano istituzionale un rovesciamento radicale tra rappresentanza e
governabilità, quale fonte di legittimazione dei sistemi democratici
occidentali a favore di quest'ultima.
L'elettore sempre più è
stato chiamato a scegliere non chi lo rappresentava, ma chi lo governava,
al quale veniva dato per un periodo di tempo determinato un mandato fiduciario
sostanzialmente privo di vincoli e controlli. L'intreccio perverso tra
questi orientamenti e sistemi elettorali ispirati all'esclusivo principio
della governabilità alimenta poi quei fenomeni di mancata partecipazione
al voto da parte degli aventi diritto che in alcuni Paesi occidentali ha
assunto dimensioni tali da mettere in discussione nei fatti il carattere
universale del suffragio che costituisce il fondamento vero delle democrazie
moderne.
La rivolta nelle periferie parigine ci
parla anche di questo. Dunque, è come se il concreto funzionamento
della democrazia reale rischiasse d'invertire il suo corso: da fattore
incisivo legato soprattutto all'affermazione del suffragio universale,
rischia di diventare, con il restringimento reale della base di partecipazione
attiva al voto, fonte di nuove forme di esclusione che investono prevalentemente
le nuove generazioni, le vaste aree di marginalità sociale delle
metropoli, gli immigrati di più recente e antica data. Nei Paesi
sviluppati è l'esercizio stesso della cittadinanza politica ad essere
nei fatti seriamente messo in discussione.
Se sono solo in parte vere queste mie
sommarie considerazioni, il primo interrogativo che dobbiamo porci di fronte
alla vostra revisione della Costituzione del nostro Paese è come
essa si colloca di fronte a questi rischi di fondo a cui vanno incontro
le democrazie moderne. Mi sembra del tutto evidente che essa enfatizzi
e dilati oltre misura questi rischi ed alimenti queste tendenze che ho
sommariamente evocato.
Infatti, alla potestà assoluta
che la vostra revisione assegna al Primo ministro sul Parlamento, soprattutto
attraverso il potere di scioglimento della Camera, corrisponde un progressivo
svilimento delle funzioni del Parlamento stesso.
A questo svilimento, in verità,
nei fatti abbiamo assistito per tutto il corso di questa legislatura, attraverso
le concrete attività legislative, l'assenza di una reale volontà
di confrontarsi con le ragioni dell'opposizione, il ricorso al voto di
fiducia su testi - come è avvenuto di recente con la finanziaria
- mai sottoposti all'esame delle Camere.
La vostra revisione costituzionale sancisce
quello che in questi cinque anni è diventata prassi; la soluzione
che viene data al superamento dell'attuale bicameralismo perfetto, oltre
a rendere sostanzialmente superfluo il ruolo proprio di questo ramo del
Parlamento, del Senato della Repubblica, aumenta la discrezionalità
del Governo in un iter legislativo che diventa molto macchinoso e complesso,
per le attribuzioni che di volta in volta vengono date ad uno dei due rami
del Parlamento.
Se si guardano insieme il ruolo assegnato
al Parlamento dalla legge costituzionale che stiamo discutendo e la vostra
proposta di legge elettorale fintamente proporzionale e neppure limpidamente
maggioritaria, che assume in modo contraddittorio il principio di coalizione
e quindi il ruolo della leadership e nello stesso tempo dà potestà
assoluta alle segreterie dei partiti, comprendiamo facilmente a quale problemi
andiamo incontro.
Già altri hanno parlato dei guasti
della devolution, il tributo che la destra tutta intera paga alle imposizioni
della Lega, alla scomparsa, attraverso di essa, di una pari esigibilità
dei diritti fondamentali da parte dei cittadini nel campo della sicurezza,
della salute e dell'istruzione soprattutto, della deriva a cui viene condannato
il Mezzogiorno.
Voglio toccare questo tema, invece, dal
punto di vista degli effetti che la devolution avrà sul concreto
esercizio della rappresentanza e della sovranità popolare nel nostro
Paese, che viene come smontato, nelle sue funzioni essenziali relative
al sistema di diritti legati allo Stato sociale, con il rischio di perdere,
rispetto alle istituzioni, quella rappresentazione di sé che lo
rende espressione permanente dell'interesse generale.
Le istanze sociali saranno insomma rappresentate,
più che sotto forma di interessi generali, da lobbies territoriali
contrapposte; di conseguenza, le istituzioni rischieranno di diventare
sempre più autoreferenziali.
Il ricorso al referendum per cancellare
questa legge istituzionale per noi non è, dunque, una scelta di
parte, ma un'azione che guarda agli interessi dell'Italia; insomma, vorrei
dire che è un dovere nazionale.
Il dibattito costituzionale ha bisogno
in Italia di chiudere questa sciagurata parentesi, rappresentata dalla
vostra riforma, e ritrovare le basi di un dialogo tra tutte le parti politiche
al fine di raggiungere l'obiettivo di aggiornare l'ordinamento del nostro
Stato con scelte che siano effettivamente all'altezza dei tempi.
Vedo un filo rosso che lega i criteri
che hanno animato questa riforma e il modo in cui si è arrivati
ad approvarla con l'azione unilaterale della vostra stessa parte politica,
che ha portato al fallimento della Commissione bicamerale, presieduta dall'onorevole
Massimo D'Alema. Vi parla uno che di quella esperienza non è stato
mai particolarmente entusiasta, essendo poco persuaso dell'impianto semi-presidenzialista
che animava la cultura costituzionale che in quel momento si veniva ad
affermare.
In quell'esperienza, però, vi era
sicuramente la consapevolezza che, se una revisione della Costituzione
deve collocarsi nel solco della ricerca di risposte positive a quei dilemmi
cruciali della democrazia contemporanea cui ho accennato all'inizio, essa
non può essere fatta da una parte sola e soprattutto non può
essere fatta dalla vostra parte. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Donadi. Ne ha facoltà.
DONADI (Misto-IdV). Signor Presidente,
colleghi senatori, oggi quest'Assemblea si dovrebbe teoricamente (tra breve
spiegherò perché, a mio avviso, "teoricamente") apprestare
a scrivere una pagina della storia del Parlamento italiano che dovrebbe
meritare di essere ricordata per segnare un momento di profonda discontinuità,
nel bene o nel male, rispetto a quella che fino ad oggi è stata
la storia costituzionale del nostro Paese.
In un momento così importante,
però, oggi sono seduti nei banchi della maggioranza solo otto o
nove parlamentari. Negli ultimi mesi non è stato mai aperto un vero
confronto nel Paese, non si è mai cercato un confronto con le altre
forze parlamentari che siedono in quest'Aula o alla Camera dei deputati.
Dando vita a questo modello di riforma
costituzionale, ancor più di quanto si sia vissuto nell'esperienza
della presente legislatura, si è proseguito il progressivo depauperamento
del ruolo del Parlamento, ormai completamente delegato ad altri luoghi
ed istituzioni e addirittura, come è accaduto nel caso della riforma
costituzionale oggi in esame, alle decisioni di alcuni saggi - visto che
tali sono stati definiti - assunte in qualche baita alpina.
Evidentemente il parlamentarismo è
sembrato ancora eccessivo alla maggioranza, se è vero che quella
che si profila come una riforma della legge costituzionale, nel disegnare
una figura di Presidente del Consiglio onnipotente tale da poter ricattare
la propria maggioranza e poter imporre le proprie esclusive scelte o interessi
al Presidente della Repubblica, non sente di aver bisogno di questa pur
esigua e ridotta libertà di autodeterminazione, di scelta e di indirizzo
politico.
D'altra parte, forse ciò non deve
neanche sorprendere più di tanto, se è vero che della tensione
morale e della partecipazione che una maggioranza dovrebbe avere nel momento
in cui si appresta a riscrivere 51 articoli della Costituzione (se escludiamo
la Parte I che è immodificabile, relativa ai diritti e alla tutela
dell'essere umano in quanto tale, di fatto stiamo riscrivendo l'intera
Costituzione) le file tristemente vuote dei banchi della maggioranza sono
un elemento chiaro ed indicativo.
È la stessa totale apatia che abbiamo
vissuto nei momenti non meno tristi, infelici della prima approvazione,
alla Camera dei deputati, della legge elettorale. In un contesto nel quale
stiamo qui oggi, di fatto, privando il Parlamento del proprio ruolo e della
propria autonomia, si è voluta togliere anche ai cittadini l'autonomia
di scegliere tra più candidati i propri rappresentanti, attraverso
una legge di riforma del sistema elettorale che di fatto introduce nel
nostro Paese la più incredibile e autoreferenziale partitocrazia
che mai si sia potuta immaginare.
Alla fine, quindi, non c'è da stupirsi
più di tanto se quel disegno complessivo di riforma della Costituzione,
che altro non è se non il frutto di un reciproco meretricio di interessi
politico-elettorali tra le varie forze che compongono oggi la maggioranza,
è un disegno che scardina gli equilibri e avvilisce i ruoli di alcuni
tra i più fondamentali organi istituzionali dello Stato.
Penso al Presidente della Repubblica,
ridotto a un ruolo di semplice notaio di decisioni altrui; penso a una
Corte costituzionale sempre più pericolosamente soggetta all'influenza
e al ruolo, anche numericamente crescente, degli esponenti di nomina politica;
penso alla scelta dell'attuale maggioranza di passare da un bicameralismo
perfetto a un bicameralismo perfettamente confuso, se è vero che
non è nemmeno possibile riuscire, in modo definito, a comprendere
quali saranno, dopo l'approvazione di questa riforma, le competenze della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica o, ancora, delle Regioni,
laddove si profilano, in modo chiaro (già prima è stato ricordato),
continui e interminabili conflitti tra i poteri dello Stato, che andranno
tutti a intasare i compiti della Corte costituzionale.
Vi è poi la nuova formulazione
dell'articolo 88 della Costituzione, che di fatto rappresenta, in modo
plastico, la definizione della confusione politica e di modello costituzionale
che questa maggioranza ci propone, laddove addirittura la possibilità,
in caso di dimissioni o di sfiducia del Presidente del Consiglio, di proseguire
la legislatura non solo è subordinata al consenso e al voto favorevole
della stessa maggioranza che lo ha nominato a suo tempo, ma anche al fatto
che questa maggioranza dichiari di voler continuare ad attuare un programma.
Negli anni può essere cambiato
il mondo, il Paese può essere passato da una fase di recessione
a una fase di crescita o viceversa, ma la maggioranza deve incomprensibilmente
restare vincolata a un programma approvato anni prima.
Ci troviamo di fronte alla figura di un
Premier che è già stato definito un dittatore, che può
imporre la propria volontà, la propria linea politica all'intero
Parlamento, tanto più se sostenuto da una anche esigua pattuglia
parlamentare, con la minaccia di un continuo ricorso alla scioglimento
delle Camere e a nuove elezioni.
Dicevo all'inizio del mio intervento che
tutto ciò dovrebbe far pensare che oggi quella che ci si appresta
ad approvare, nella ignavia più assoluta dell'attuale maggioranza,
in questo Parlamento che si richiude in sé stesso (ma neanche tanto,
visto che oggi qui chi questa riforma costituzionale deve approvare non
si degna nemmeno di essere presente per ascoltare, almeno all'ultimo momento,
le argomentazioni di chi forse oggi rappresenta una maggioranza elettorale
nel Paese), è solo astrattamente una riforma storica, in una data
memorabile, della Costituzione italiana.
Infatti, la realtà vera, quella
che l'attuale maggioranza non ha il coraggio di dire con chiarezza fuori
di qui ai cittadini italiani, è che non si sta approvando altro
che una legge che dovrà essere, nel giro di pochi mesi, sottoposta
ad un referendum popolare; una legge che si limita, quindi, ad essere espressione
di quello che è stato l'unico modo che i Governi di centro-destra
per cinque anni hanno conosciuto per governare il nostro Paese: il governo
attraverso gli spot, le pubblicità, le semplici e reciproche concessioni
dell'una forza all'altra.
Non a caso ci ritroviamo qui oggi a votare
la devolution e non avremmo potuto votare altro che la devolution. Fino
a quando questa legge non sarà approvata, non sarà infatti
possibile votare la legge elettorale e probabilmente nemmeno la finanziaria,
perché altrimenti qualche forza uscirebbe dal Governo.
Questa maggioranza non ha il coraggio
di dire agli italiani che il Governo, che oggi, ancora per pochi mesi,
in quest'Aula rappresenta forse una maggioranza (dico forse perché
solo gli interessi mi pare la tengano unita), non avrà la forza
domani di sostenere questa legge.
Credo che, in animo loro, molti dei senatori
che oggi la voteranno, in realtà, non la condividano, non la approvino
minimamente e quindi si augurino, tutto sommato, che il Paese, i cittadini
italiani dicano a gran voce con il referendum che i valori della devolution
leghista, che elimina i vincoli di solidarietà nei settori più
sensibili, più importanti e strategici del Paese, dove si deve far
sentire con forza la solidarietà di tutti verso tutti (i settori
della scuola pubblica, della sanità, della sicurezza), non sono
valori che questo Paese è disposto a negoziare con nessuno, tanto
meno con questa Lega. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Gubert. Ne ha facoltà.
GUBERT (UDC). Signor Presidente,
onorevoli colleghi, onorevoli rappresentanti del Governo, già nei
precedenti esami del disegno di legge costituzionale avevo espresso la
mia contrarietà a una parte sostanziale della filosofia politica
che ispira la riforma. Inutile è stato lo sforzo di presentare emendamenti.
Ora, inemendabile nel senso voluto il disegno di legge, non resta che la
valutazione complessiva.
Sono trascorsi undici anni da quando sono
entrato in Parlamento: pensavo di essere partecipe dell'organo democraticamente
eletto per esercitare il potere legislativo. Di fatto si è trattato
di un potere di ratifica formale di decisioni di carattere legislativo
assunte fuori del Parlamento. Lo strumento delle leggi delega, con criteri
generici predefiniti dal Governo; lo strumento dei decreti, dei quali la
dichiarazione di necessità e urgenza è sovente solo il tributo
formale, ma nella realtà fittizio, per ottemperare ai requisiti
previsti dalla Costituzione; lo strumento dei maxiemendamenti, sui quali
è posta la questione di fiducia e che riducono il ruolo del Parlamento
a dire un sì o un no al Governo, anche su leggi di grande importanza;
il giudizio di costituzionalità su iniziative legislative governative,
sempre piegato alle ragioni di parte, svuotano il potere reale del Parlamento;
se vi è un deficit da correggere, quindi, è la carenza di
democrazia parlamentare.
Invece il disegno di legge di riforma
opera in senso opposto: rafforza l'Esecutivo, il capo del Governo, dandogli
non solo potere di nomina e di revoca dei Ministri (chi sarebbe stato il
Ministro della giustizia nel I Governo Berlusconi del 1994 se allora fossero
state operanti le norme ora proposte?), ma ponendolo anche nelle condizioni
di poter far sciogliere la Camera dei deputati qualora si dimostri recalcitrante
a seguire i suoi voleri.
Viene meno quell'autonomia del potere
legislativo dall'Esecutivo che è uno dei cardini del moderno Stato
democratico. È, sì, previsto il meccanismo, in certi casi,
di qualcosa che assomiglia alla sfiducia costruttiva, ma la sua attivazione
è resa oltremodo improbabile dai requisiti posti: solo un Capo del
Governo divenuto per tutti palesemente inetto perderebbe la fedeltà
di un manipolo di deputati in grado di far mancare il sostegno della maggioranza
assoluta, composta solo da componenti della precedente maggioranza, a qualsiasi
proposta di Capo di Governo alternativo.
Bastava garantire la continuità
della maggioranza della maggioranza per evitare agli elettori l'imbroglio
del ribaltone (se di vero imbroglio si tratta e non di adattamento a una
situazione imprevista o difficilmente affrontabile in modo diverso, come
nel caso della Grande coalizione in Germania), ma non si è voluto:
avrebbe dato troppo potere agli eletti del popolo, al Parlamento!
Viene sminuito fortemente, a vantaggio
dei poteri del capo del Governo, anche il potere di garanzia del Presidente
della Repubblica, cui viene tolto il potere di rinvio alle Camere delle
leggi.
Si è obiettato che la riforma aumenta
il tasso di democrazia, poiché mette nelle mani del popolo la scelta
del Capo del Governo, prima condizionata dal voto del Parlamento e dal
ruolo del Presidente della Repubblica. Purtroppo, per troppi la democrazia
si misura solo al momento dell'elezione del Capo.
La complessità sociale e politica
di un sistema viene ridotta a un plebiscito nei confronti di un Capo, un
sì o un no. Poi il Capo, per cinque anni, ha di fatto ogni potere
e i molti eletti nel Parlamento possono contrastarlo solo se sono disposti
a perdere il loro ruolo di eletti. No, la democrazia si misura lungo l'intero
arco della legislatura e la democrazia dei molti è migliore della
democrazia dell'uno.
La democrazia deve anche essere capace
di decidere, ma ciò deve realizzarsi contemperando i punti di vista,
facendosi carico della complessità, nella ricerca del bene comune.
Se per essere "decidente" la democrazia si riduce ad eleggere un Capo ogni
cinque anni, al quale il Parlamento deve essere servente, essa diventa
una democrazia povera, assai manipolabile, assai esposta a perseguire interessi
particolari.
Dobbiamo riformare per far crescere il
tasso di democraticità del processo di assunzione delle decisioni
che riguardano la collettività; non basta la democraticità
nella scelta di chi prende le decisioni. In ogni caso è più
democratico un sistema dove le decisioni sono affidate ai molti rappresentanti
anziché all'unico rappresentante. Purtroppo, invece, questo disegno
di legge va in direzione opposta.
Qualcuno potrebbe dire che la riforma
federalista, chiamata «devolution», era nei patti elettorali.
È vero, era uno dei punti forti del patto con gli italiani, ma quel
patto si era tradotto nel disegno di legge costituzionale Bossi, approvato
in questo Senato e poi lasciato arenare per introdurne i contenuti nel
disegno di legge all'esame. Avevo votato a favore di quel disegno di legge
e ancora lo farei. Il guaio è che quei contenuti di devolution sono
ora accompagnati da altre norme che vanno per lo più in direzione
opposta a quella della crescita dell'autonomia delle Regioni.
Fanno eccezione, in senso positivo, le
norme che prevedono limiti alla possibilità del Parlamento di cambiare
gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale in contrasto con le loro
valutazioni, ma per il resto si afferma una logica centralista. Non sono
tanto alcune correzioni nella ripartizione delle competenze fra Stato e
Regioni a fare problema, anche se esse vanno tutte nella direzione di rafforzare
le competenze dello Stato a scapito di quelle delle Regioni. A fare problema
è soprattutto l'introduzione del controllo politico nazionale sulla
legislazione regionale, in nome della tutela dell'interesse nazionale.
Il Parlamento nazionale potrà annullare
leggi regionali. Se il giudizio parlamentare sulla lesione di un interesse
nazionale ha la stessa fondatezza di quello sulla costituzionalità
di una proposta di legge o sui requisiti di necessità e urgenza
di un decreto, ossia una mera motivazione politica, c'è veramente
da preoccuparsi per l'autonomia.
Altro che riforma federalista! È
una riforma centralista, come del resto Alleanza Nazionale dichiara. Si
introduce un centralismo più forte di quello antecedente alla riforma
del 2001, sulla quale, colmo dell'ironia, il centro-destra aveva chiesto
un referendum in considerazione del fatto che era ritenuta troppo poco
federalista! Sinceramente non mi piace la lingua biforcuta: Il nostro linguaggio
deve essere chiaro e sincero e portarci ad esprimere dei sì o dei
no convinti.
Mentre prima del 2001 il Governo poteva
solo rinviare per un riesame una legge o sue parti ai Consigli regionali
e sulla successiva loro decisione poteva solo adire la Corte costituzionale,
e dopo il 2001 il Governo, a tutela di un interesse nazionale da esso presunto
poteva solo adire la Corte costituzionale, con questa riforma il Governo,
il suo Capo, può chiedere al Parlamento, nel quale vi è -
obbediente alla Camera - una sua maggioranza parlamentare, ma, dati i meccanismi
elettivi, obbediente anche in Senato, di annullare una legge regionale.
Vi è un altro arretramento sensibile
dell'autonomia, in termini di abolizione della possibilità di una
Regione di negoziare con lo Stato una particolare e più forte autonomia.
È un'innovazione forte della riforma del 2001; essa veniva incontro
alle esigenze di particolare autonomia di Regioni a forte identità,
a contatto stretto con Regioni ad autonomia speciale: è il caso
del Veneto, ma potrebbe essere anche quello della Lombardia o di altre
Regioni ancora.
La distinzione fra Regioni ad autonomia
speciale e Regioni ad autonomia ordinaria si stemperava. È strano
che la Regione Veneto imprechi contro le vicine Regioni ad autonomia speciale
e non abbia fatto nulla per affermare una sua possibile specialità.
I parlamentari veneti e lombardi che voteranno a favore di questa riforma
lo faranno per togliere ogni possibilità dinamica alla loro autonomia.
Da autonomista, nei loro panni, non lo farei.
Non si può poi tacere, a proposito
di federalismo, su un altro contenuto della riforma: l'introduzione del
cosiddetto Senato federale. Nel mio percorso parlamentare le modalità
di elezione (in particolare i tempi cadenzati in concomitanza con le elezioni
regionali) sono state migliorate, ma non si può dire che si sia
fatto un reale passo in avanti in direzione federalista, anzi! Finora i
senatori sono stati eletti su base regionale, come prescrive l'attuale
Costituzione. Essi, quindi, rappresentano le popolazioni delle singole
Regioni. Come tali, essi hanno il medesimo potere dei deputati, possono
dare o negare la fiducia al Governo, votare sui bilanci e sulle leggi finanziarie
e su tutte le leggi dello Stato.
Con il disegno di legge all'esame essi
continuano ad essere eletti direttamente su base regionale e quindi rappresentano
le popolazioni delle Regioni. Però hanno molti meno poteri di quelli
attuali, nel senso che non possono dare la sfiducia al Governo, non votano
le leggi di bilancio, su molte leggi non possono dire nulla, su altre,
riferite ai princìpi ai quali deve attenersi la legislazione regionale,
hanno priorità, ma anche per le leggi sulle quali è prioritaria
la competenza del Senato, il Capo del Governo può chiedere di spossessare
di competenza il Senato per darla in via prioritaria alla Camera, a lui
legata da un rapporto di fiducia.
In conclusione, i rappresentanti eletti
dalle popolazioni delle Regioni nel Senato cosiddetto federale vengono
a perdere i principali poteri che attualmente hanno in un Senato non chiamato
federale. È difficile capire come questo sia un passo in avanti
rispetto al federalismo. Se i rapporti fra Regioni e Stato fossero regolati
dal principio di sussidiarietà, sarebbe logico che fossero gli enti
che si federano per creare lo Stato, affinché ad essi esso sia di
sussidio, a definire le scelte fondamentali dello Stato.
Poiché lo Stato non è solo
federazione di Regioni, ma è anche espressione politica della Nazione,
è logico che le sue scelte fondamentali siano definite anche dai
rappresentanti diretti del popolo che costituisce la Nazione.
Si possono prevedere processi di assunzione
di decisioni nelle quali una decisione è presa da una sola Camera
qualora l'altra o una sua parte significativa non reclami un suo proprio
esame, in modo da sveltire le procedure legislative, effettivamente ora
lente. Ma si è andati ben oltre la necessaria ricerca di evitare
inutili perdite di tempo.
In questa riforma manca una rappresentanza
degli enti federati (salvo in modo marginale e senza diritto di voto, pochi
rappresentanti di Regioni e enti locali) e per di più si riducono
di molto i poteri attuali dei rappresentanti delle popolazioni regionali.
È una beffa, malamente mascherata
dal nome di Senato federale e dal momento dell'elezione dei senatori. Il
vero, unico, risultato è una quasi eliminazione del bicameralismo
a vantaggio del potere del Capo del Governo che, in nome della realizzazione
del suo programma, può ricondurre alla Camera dei Deputati le decisioni
che contano, sapendo che se i deputati non decidono come egli vuole, può
provocare lo scioglimento della Camera stessa.
Il mio dissenso riguarda anche altri aspetti
minori della riforma, ma per essi rimando agli emendamenti a suo tempo
presentati e respinti. Avrei potuto anche soprassedere, in omaggio a un
rapporto che, all'atto delle elezioni del 2001, mi lega alla maggioranza.
Ma sui due aspetti considerati, il tasso di democraticità e il tasso
di rispetto del principio di sussidiarietà verticale, la distanza,
la contraddizione tra il disegno di legge all'esame e i valori politici
nei quali credo, non solo ispirati al pensiero sociale cristiano, ma maturati
in una vita di studioso della società e di partecipe della sua vita
politica, sono tali da impormi di confermare il mio voto contrario, nella
speranza che sia, poi, il popolo italiano a non far compiere passi indietro
nel modo di far vivere nella Costituzione tali valori, come purtroppo ora
la maggioranza di centro-destra fa. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U, DS-U
e Misto-IdV).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Napolitano. Ne ha facoltà.
NAPOLITANO (DS-U). Lei non si stupirà,
signor Presidente, se pur essendo stato da così breve tempo chiamato
a far parte di quest'Assemblea, prendo oggi la parola. Ho in effetti ritenuto
di non potermi sottrarre alla responsabilità di un giudizio motivato
su una legge di natura specialissima, qual è quella ora sottoposta
al nostro ultimo esame, di revisione complessiva e radicale dell'ordinamento
della Repubblica.
Tanto più che, se non sono stato
finora partecipe del contrastato iter di questa legge, ho, in periodi precedenti,
svolto un ruolo attivo nel lungo processo di elaborazione e discussione
di idee e di proposte di riforma costituzionale che si è svolto
nei due rami del Parlamento almeno a partire dalla fine degli anni Settanta.
Perché vedete, e vorrei sottolinearlo,
sarebbe del tutto infondato il sostenere o il lasciar intendere che nel
passato il Parlamento sia rimasto chiuso in un atteggiamento di pura conservazione,
di statica e retorica difesa della Costituzione del 1948.
Ben prima che negli anni 1993-1994 intervenisse
una vera e propria cesura, una rottura di continuità nel nostro
sistema politico, ben prima di allora, tra i partiti storici della Repubblica
nata nel 1946, era venuta maturando l'esigenza di un ripensamento e di
un adeguamento del quadro istituzionale.
Nel 1982, un primo "inventario" di proposte
di riforma venne redatto dalle Commissioni affari costituzionali della
Camera e del Senato. Nel 1983 fu istituita, come è noto, un'ampia
e rappresentativa Commissione bicamerale di studio sulle riforme istituzionali,
presieduta dall'onorevole Bozzi, che presentò nel 1985 un quadro
assai ricco di considerazioni e indicazioni concrete, rimaste purtroppo
senza seguito.
Vennero poi anni di stagnazione del confronto
e dell'iniziativa sui temi di una possibile revisione della Costituzione,
anche se non mancarono leggi ordinarie di notevole significato istituzionale,
come, nel 1988, quella sull'ordinamento della Presidenza del Consiglio
o come, nel 1990, quella sull'ordinamento delle autonomie locali.
Si giunse così, all'inizio della
XI Legislatura, in una condizione di grave ritardo dinanzi a esigenze oggettive
e a sollecitazioni dell'opinione pubblica ormai non più dilazionabili
e quindi si impose una scelta che per primo il presidente della Repubblica
appena eletto, Oscar Luigi Scalfaro, invitò "fermamente" il Parlamento
a compiere: la nomina, che col compianto presidente Spadolini subito promuovemmo,
di una Commissione bicamerale non più solo di studio, ma con poteri
di iniziativa legislativa, con funzioni redigenti e referenti, che fosse
in grado di sottoporre a entrambe le Assemblee un progetto compiuto di
riforma della Parte II della Costituzione.
La Commissione, presieduta prima da Ciriaco
De Mita e poi da Nilde Iotti, riuscì a presentare un organico, non
esaustivo ma, condiviso progetto, nel gennaio 1994, (relatore per la forma
di Stato Silvano Labriola e per la forma di governo Franco Bassanini).
Il progetto cadde con lo scioglimento, di lì a poco, di Camera e
Senato.
Ricordo tutto ciò anche perché
il senatore Francesco D'Onofrio, nella sua relazione del gennaio 2004,
volle richiamare i lavori sia della Commissione De Mita-Iotti sia della
successiva Commissione D'Alema, sostenendo che la proposta di riforma presentata
dell'attuale Governo dovesse intendersi semplicemente come conclusione
di un percorso.
Tale affermazione sarebbe da apprezzare
per la sua modestia se non contrastasse con la realtà dell'effettiva
ispirazione della proposta, ancora oggi al nostro esame, ispirazione tutt'affatto
diversa da quelle che sorreggevano i progetti precedenti e segnatamente
quello del gennaio 1994.
Qualche giorno fa ho avuto modo, in occasione
della cerimonia di omaggio dedicata all'onorevole Labriola appena scomparso,
di mettere in evidenza come la sua relazione di oltre 11 anni fosse audacemente
innovativa e nello stesso tempo ispirata a grande equilibrio e responsabilità
istituzionale.
Ebbene, con quell'impostazione e con le
modifiche che vennero di conseguenza prospettate, risultano coerenti in
realtà le proposte di riforma non della maggioranza, ma della minoranza,
comprese quelle che escludono la formulazione, nell'articolo 117 della
Costituzione, di un elenco di potestà legislative sia concorrenti
sia esclusive delle Regioni, accanto alla specificazione delle materie
affidate alla competenza dello Stato e postulano possibilità di
iniziativa dello Stato federale nell'interesse nazionale, anziché
un richiamo sanzionatorio a quell'interesse, ove appaia violato.
Per questo ed altri aspetti - come si
sa - l'attuale schieramento di minoranza ha già proposto, con il
disegno di legge presentato dai senatori Villone e Bassanini nel settembre
2003, modifiche rilevanti della stessa riforma del Titolo V che esso aveva,
da posizioni di maggioranza, varato in modo non sufficientemente meditato.
In effetti, se si legge ancora oggi e
si considera obiettivamente il testo presentato, sempre nel gennaio 2004,
dai relatori di minoranza, si può constatare come ad una critica
puntuale e severa del progetto governativo si accompagnasse un insieme
di proposte tale da configurare un vero e proprio progetto alternativo
di riforma.
Il Governo e la maggioranza che lo sorregge
- a mio avviso - avrebbero dovuto apprezzare il fatto che lo schieramento
di centro-sinistra non ha sostenuto che tutte le esigenze di revisione
costituzionale, affiorate nel lungo processo da me richiamato e culminato
nella Commissione bicamerale D'Alema, fossero da ritenersi ormai superate.
In particolare, pur essendosi significativamente
consolidate - attraverso il passaggio al sistema elettorale maggioritario
e la prassi di una competizione politica bipolare - la posizione del Governo
in Parlamento, la governabilità del Paese e la stabilità
dell'azione di Governo, l'attuale opposizione ha continuato e continua
a presentare proposte volte a sancire in sede costituzionale tale evoluzione
e a rafforzare i poteri del Primo Ministro rispetto alle formulazioni della
Carta del 1948.
E' dunque l'attuale opposizione che si
è preoccupata e si preoccupa di concludere, sulla base di un'ulteriore
e coerente maturazione, il percorso che venne bloccato nel 1998, non occorre
qui ricordare come e per responsabilità di chi.
Sono parte della conclusione di quel percorso
le proposte della relazione di minoranza relative alla composizione e alle
attribuzioni del nuovo Senato della Repubblica, ma anche tutte quelle riguardanti
un sostanziale adeguamento del sistema delle garanzie e dello statuto dell'opposizione
all'avvento e all'abuso di un meccanismo maggioritario.
Presidenza del presidente PERA (ore 17,25)
(Segue NAPOLITANO). Quel che anch'io giudico
inaccettabile è, invece, il voler dilatare in modo abnorme i poteri
del Primo Ministro, secondo uno schema che non trova l'eguale in altri
modelli costituzionali europei e, più in generale, lo sfuggire ad
ogni vincolo di pesi e contrappesi, di equilibri istituzionali, di limiti
e di regole da condividere.
Quel che anch'io giudico inaccettabile
è una soluzione priva di ogni razionalità del problema del
Senato, con imprevedibili conseguenze sulla linearità ed efficacia
del procedimento legislativo; una alterazione della fisionomia unitaria
della Corte costituzionale, o, ancor più, un indebolimento dell'istituzione
suprema di garanzia, la Presidenza della Repubblica, di cui tutti avremmo
dovuto apprezzare l'inestimabile valore in questi anni di più duro
scontro politico.
E allora, signor Presidente, onorevoli
colleghi, il contrasto che ha preso corpo in Parlamento da due anni a questa
parte e che si proporrà agli elettori chiamati a pronunciarsi prossimamente
nel referendum confermativo non è tra passato e futuro, tra conservazione
e innovazione, come si vorrebbe far credere, ma tra due antitetiche versioni
della riforma dell'ordinamento della Repubblica: la prima, dominata da
una logica di estrema personalizzazione della politica e del potere e da
un deteriore compromesso tra calcoli di parte, a prezzo di una disarticolazione
del tessuto istituzionale; la seconda, rispondente ad un'idea di coerente
ed efficace riassetto dei poteri e degli equilibri istituzionali nel rispetto
di fondamentali principi e valori democratici.
La rottura che c'è stata rispetto
al metodo della paziente ricerca di una larga intesa, il ricorso alla forza
dei numeri della sola maggioranza per l'approvazione di una riforma non
più parziale, come nel 2001, ma globale della Parte II della Costituzione,
fanno oggi apparire problematica e ardua, in prospettiva, la ripresa di
un cammino costruttivo sul terreno costituzionale; un cammino che bisognerà
pur riprendere, nelle forme che risulteranno possibili e più efficaci,
una volta che si sia con il referendum sgombrato il campo dalla legge che
ha provocato un così radicale conflitto.
Mi asterrò dal rivolgere alle forze
di Governo poco realistici appelli alla riflessione, ma non posso fare
a meno di esprimere la mia convinzione che la strada indicata qui dall'attuale
minoranza corrisponde all'interesse di entrambi gli schieramenti politici,
nel loro prevedibile alternarsi in posizioni di maggioranza e di opposizione.
Essa corrisponde all'interesse di una moderna e responsabile evoluzione
del nostro sistema democratico e anche, non da ultimo, alla ricostruzione
di un clima, che è purtroppo venuto meno, di più misurato,
impegnato e fecondo confronto in Parlamento: un clima che è condizione
per l'esercizio, con autorevolezza, del ruolo insostituibile di questa
nostra istituzione. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U, Misto-RC, Misto-Com
e Misto-Pop-Udeur. Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Sodano Tommaso. Ne ha facoltà.
SODANO Tommaso (Misto-RC). Signor
Presidente, signor rappresentante del Governo, colleghi, il valore del
patto fondativo di un Paese è stato a più riprese sottolineato
dai più illustri costituzionalisti.
La conquista di valori, di princìpi,
di norme in un processo storico che ha visto lotte, guerre, conflitti per
arginare e, si spera, estinguere la volontà di potenza che tanto
segna la politica, è cristallizzata in forma non ultima e definitiva
nelle Costituzioni. Esse sono un fondo di ragione che determina gli argomenti
pubblicamente ammissibili. In base ad essi le istituzioni della democrazia
costituzionale possono funzionare come mezzi fallibili, tramite cui i pubblici
interessi possono essere identificati nella pratica.
Ci piace sottolineare come la Carta fondativa
di una Nazione nasca non da contrattazioni sull'attualità politica,
ma dalla storia di un Paese, dal sangue delle sue genti, dalla necessità
di trovare delle linee di principio, delle garanzie che assicurino un adeguato
e giusto svolgimento della vita politica e sociale di un Paese. Chi ha
scritto la Costituzione non aveva certo la necessità di accontentare
i capricci di qualche esponente politico, come ci pare accada oggi. Chi
ha pensato la Costituzione del '48 aveva lo sguardo rivolto al futuro della
Nazione, non certo al proprio personale futuro politico.
Di fronte all'importanza del testo costitutivo
di una Nazione si può anche pensare che esista la necessità
di una revisione, di un'attualizzazione di alcuni suoi aspetti, ma il clima
in cui questo avviene dovrebbe essere di collaborazione fra le varie parti
politiche del Paese, di costante confronto con gli esperti della materia,
senza contare che sarebbe necessaria, come d'altronde prescrive l'articolo
138 della Costituzione stessa, la precisa circoscrizione delle materie
su cui legiferare.
Invece quello che è accaduto per
il progetto di riforma della Parte II della Costituzione, il clima in cui
esso è nato ed in cui si è svolta la discussione è
stato radicalmente opposto. Il testo è stato oggetto di discussioni,
all'interno di una logica politica, anzi politicista, che prefigura, ancora
una volta, una logica di scambio all'interno delle forze politiche della
maggioranza. Questa riforma si è caratterizzata così fin
dall'inizio.
Un progetto di riforma, quindi, che non
guardava ad un interesse generale e ad un'esigenza vera del Paese e ad
un'eventuale attualizzazione di qualche aspetto della Costituzione, ma,
al contrario, guardava ad interessi, sensibilità ed a sollecitazioni
particolari provenienti dalle diverse forze politiche presenti all'interno
della Casa delle Libertà.
Con la Costituzione non si scherza, Rifondazione
comunista è già stata contraria alla riforma del Titolo V
approvata di gran fretta nella scorsa legislatura e, pur pensando che quella
norma vada corretta, quella dell'attuale maggioranza è una vera
e propria riscrittura delle regole. In realtà nel nostro Paese si
sta verificando una pericolosa traslazione del «potere di revisione»
in «potere costituente»! Non ci si limita a rivedere un singolo
tema della Costituzione ma la si vuole stravolgere in toto.
Il disegno di legge costituzionale del
Governo lede - a nostro avviso - in profondità l'articolo 138 della
Costituzione in quanto non interviene su un singolo articolo, un istituto
specifico, ma sull'intera II Parte, così da contraddire lo spirito
e la lettera della norma che regola la revisione: qui l'insieme delle norme,
che vanno dal Parlamento al Presidente della Repubblica, alla giurisdizione
ordinaria e costituzionale, alla funzione legislativa, alla disciplina
di Regioni, Comuni e Province, viene travolto.
Troppo numerosi sarebbero i punti della
vostra proposta su cui soffermarsi a discutere in quanto decisamente pericolosi
per il mantenimento di un assetto democratico nel nostro Paese, ma su alcuni
vale la pena spendere delle parole in più.
L'aspetto più delicato della riforma
è quello che coinvolge l'equilibrio e l'assetto dei poteri che caratterizzano
la forma di governo. Fondamentale è il cosiddetto Premierato con
investitura diretta del Primo Ministro, espressione, questa, che ne esplicita
i caratteri essenziali e la sua primazia - segnalata, appunto, dal nome
di Primo ministro - e la sua ordinaria permanenza in carica, a scanso di
ribaltoni o altro, per l'intera legislatura.
Siamo di fronte ad una pessima personalizzazione
del potere, che nel disegno Berlusconi si precisa come Premier assoluto,
onnipotente che «conforma e controlla la sua maggioranza»,
si rovesciano i termini della relazione democratico-costituzionale per
cui il popolo esercita la sovranità, «nelle forme e nei limiti
della Costituzione». Al contrario, la democrazia d'investitura legittimerebbe
un «sovrano» che può tutto, perché eletto direttamente
dal popolo e solo a questo dunque dovrebbe rispondere. Essa è l'opposto
della democrazia costituzionale, che limita i poteri, pubblici e privati,
e rende indisponibili a essi i princìpi e le norme fondamentali.
Con la vostra proposta consegnate nelle
mani di un Primo Ministro plenipotenziario la funzione di governo del Presidente
degli USA, i poteri di scioglimento del Premier britannico, la funzione
«legislativa» del governo francese con il «voto in blocco».
Un vero e proprio «Premierato assoluto» che si concretizza
non prevedendo la «fiducia iniziale al Governo», fornendo al
solo Primo ministro la responsabilità di scioglimento della Camera.
Ma, come al solito, la maggioranza ha
voluto farci dono anche del paradosso, che in questo caso si raggiunge
prevedendo la possibilità di sfiducia da parte della Camera, con
conseguenti dimissioni del Premier ed obbligo di scioglimento della stessa.
Come dire «muoia Sansone con tutti i Filistei»! Il ricatto
che eserciterà quello che ormai possiamo definire un «Premier-monarca»
è evidente.
Nel panorama costituzionale degli ordinamenti
democratici il modello proposto non ha eguali. In questa prospettiva, chi
potrà esercitare una sia pur minima forma di controllo sull'attività
del Premier monarca? Sicuramente non il Parlamento, costantemente sottoposto
al ricatto dello scioglimento, ma nemmeno il Presidente della Repubblica,
che perde le sue funzioni di organo super partes. I suoi poteri vengono
distorti, limitati e soprattutto rigidamente enumerati nell'articolo 26
della vostra proposta, così da impedire quel ruolo di arbitro, quell'ambito
di discrezionalità che consente ora al Presidente della Repubblica
di essere un regolatore della complessiva vita istituzionale, di garantire
in prima istanza la Costituzione, di bilanciare i diversi poteri.
Nei rapporti tra Governo e Parlamento,
secondo la Costituzione vigente, il Presidente della Repubblica opera come
«commissario delle crisi»: il suo potere di scioglimento è
garanzia della «sovranità» del Parlamento tramite la
fiducia e dell'indipendenza dell'Esecutivo.
La maggioranza sembra prodigarsi in un
lavoro minuzioso, di cesello, teso da un lato a scardinare qualsiasi meccanismo
di bilanciamento dei poteri presente nella nostra Costituzione, dall'altro
ad aiutare l'attuale maggioranza in improbabili equilibrismi che mirano
a risolvere i propri problemi interni.
E' questo il caso della cosiddetta devolution.
Appare del tutto evidente che la degenerazione devolutiva operata con il
progetto di riforma costituisce un ripiego operato sotto la spinta della
Lega nord, che, constatata l'impossibilità di raggiungere il suo
obiettivo originario, cioè la secessione, ha convertito la propria
strategia nella demolizione dell'ordinamento e della forma di Stato. Non
a caso, la devolution è stata prima di tutto un evento mediatico
e solo successivamente politico.
Sgombriamo subito il campo da qualsiasi
possibile fraintendimento, soprattutto tra le file della maggioranza: il
federalismo è nato storicamente per unire, per federare ciò
che era diviso, per mettere in relazioni culture, poteri, identità
statuali. Il caso italiano si presenta come un processo esattamente opposto,
che mira all'espropriazione di funzioni proprie di uno Stato per attribuirle
alle Regioni.
Tutte le nuove materie che si vogliono
attribuire all'esclusiva competenza delle Regioni incidono negativamente
innanzitutto sui diritti sociali. La devoluzione comporterà, in
questi casi, una differenziazione in termini di prestazioni garantite dalle
diverse Regioni, intaccando principi che sono alla base della nostra tradizione
costituzionale, civile e culturale, quali l'eguaglianza e la solidarietà.
I rischi sono alti e coinvolgono i più delicati profili relativi
alle garanzie ed all'effettività dei diritti, discipline che non
possono essere sottratte alla competenza del legislatore nazionale.
Un progetto sbagliato e pericoloso che
in più, come ha ripetutamente ammonito il costituzionalista Sartori,
rischia di avere un peso economico insostenibile per il nostro Paese. Ancora
una volta, la maggioranza, per rincorrere i capricci di una parte, non
solo non fa i conti con le necessità del nostro paese, ma manca
di prestare attenzione addirittura alla realtà.
Risulta chiaro quindi che, dietro la presunta
modifica formale della II parte della Carta costituzionale, si nasconde,
in realtà, anche lo smantellamento di molti principi contenuti nella
prima parte della Costituzione medesima, che qualificano la natura e l'ispirazione
del nostro ordinamento.
Strettamente collegato al progetto federale
dello Stato e alla nuova forma di governo è la trasformazione del
tradizionale bicameralismo disegnato dalla Costituzione. Il costituente
del 1948 configurò un Parlamento posto al centro dell'ordinamento,
a garanzia dell'intero sistema di potere, essendo rappresentate in esso
tutte le forze politiche democraticamente elette, minoranze comprese. La
riforma in atto ne stravolge funzioni e poteri, introducendo, tra l'altro,
un contorto iter legislativo.
Il nuovo Parlamento sarà composto
da una Camera dei deputati e da un Senato federale. Il progetto dice di
ispirarsi al federalismo, ma, nei fatti, il Senato prefigurato dalla riforma
ha ben poco di federale, in quanto non rappresenta direttamente le autonomie
locali ed i loro interessi, come nei modelli federali classici. Viene eletto
a suffragio universale e diretto su base regionale, e dovrebbe avere competenze
diverse da quelle della Camera, che resta l'unica Assemblea politica.
Ma il punto di maggiore criticità
della tanto auspicata riforma e dell'attuale bicameralismo perfetto è
costituito dal nuovo processo di formazione delle leggi. Il testo prevede,
infatti, tre distinti tipi di procedimento legislativo che si differenziano
tra loro per i diversi ruoli giocati dalle due Camere. Spetterebbe alla
Camera legiferare sulle materie di esclusiva competenza statale, mentre
al Senato sarebbero assegnate le cosiddette materie concorrenti.
Esiste, infine, un terzo tipo di leggi,
come quelle relative alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
che riguardano i diritti civili e sociali, oppure la legislazione elettorale
locale, su cui le due Camere legiferano alla pari. Se in questa ultima
ipotesi, però, le due Assemblee non dovessero trovare un accordo
sul testo, entrerebbe in campo una terza Assemblea derivata in cui 60 componenti
saranno indicati dai Presidenti delle due Camere. Questa Camera di compensazione
avrà il compito di redigere un testo unificato. Una vera "Camera
delle Regioni" avrebbe senso solo se esprimesse politicamente le realtà
regionali, il che comporta che, nel caso in cui nella maggioranza delle
Regioni prevalga un orientamento politico difforme da quello del Governo
(come accade oggi in Germania), la maggioranza del Governo debba cercare,
almeno su alcuni argomenti, un accordo con l'opposizione.
Se invece entrambe le Camere continuano
ad essere espressione della politica nazionale, la diversificazione dei
poteri e delle competenze fra di esse si riduce a una non ben giustificata
discriminazione tra le due Assemblee e all'introduzione di complicazioni
procedurali molto peggiori di quelle che qualcuno oggi lamenta per il bicameralismo
vigente.
Questo è infatti l'esito più
probabile che discenderebbe dall'attuazione del progetto. Le norme sulle
competenze e sul funzionamento delle Camere appaiono incredibilmente farraginose.
È facile prevedere che le conseguenze di questo nuovo iter legislativo
ricadranno, ancora una volta, sulla Corte costituzionale, la quale si vedrà
investita da una valanga di ricorsi volti ad appurare gli eventuali errori
in procedendo.
Questo discorso ci introduce all'ultimo
punto che intendiamo affrontare, ma che ci sembra ancora una volta esplicativo
del lavoro di demolizione di qualsiasi istituto di garanzia democratica
del nostro Paese che sta conducendo la maggioranza. Si diceva che le controversie
sommergeranno la Corte costituzionale. Vorrei capire, però, cosa
sarà la Corte costituzionale dopo questa riforma; cosa farete diventare
uno degli organi garanti, non di questo o quell'elettorato, non degli interessi
della maggioranza o della minoranza, ma dei princìpi su cui si basa
lo Stato italiano.
La Corte costituzionale ha avuto fino
ad oggi la funzione di dirimere questioni di sua competenza, applicando
solo ed esclusivamente la Costituzione repubblicana; per permetterle di
lavorare senza influenze esterne del mondo politico ne è stata pensata
una composizione perfettamente equilibrata. La vostra riforma propone di
infrangere questo equilibrio. Nei fatti, la vostra proposta ci restituisce
una nuova struttura rappresentativa della maggioranza: chi controlla sarà
in buona parte espressione di coloro che devono essere controllati. Si
tratta di un ennesimo paradosso regalatoci dall'attuale Governo.
Insomma, appare del tutto evidente la
pericolosità dei vostri propositi che denunciamo da quando avete
presentato questa proposta: stravolgere e mortificare la Costituzione italiana
è l'obiettivo primario.
Le revisioni costituzionali acquistano
significato nella misura in cui sono stabili e riconosciute, non se inseguono
improbabili modernizzazioni dettate da occasionali contingenze politiche.
Il patrimonio costituzionale può senz'altro essere adeguato ed aggiornato,
ma progressivamente, al mutare delle condizioni sociali, e su obiettivi
e regole di convivenza condivise; non è auspicabile, invece, che
venga esposto alle indeterminatezze delle strumentali congiunture.
Sotto questa prospettiva, il progetto
di revisione costituzionale proposto dal centro-destra si rivela nella
sua autentica natura: gli obiettivi di fondo, infatti, non sono tanto quelli
di avviare una modernizzazione dell'originario impianto costituzionale,
quanto piuttosto quelli di modificarne completamente l'impianto genetico.
Da questo punto di vista, abbiamo più volte dichiarato la nostra
contrarietà ad interventi di questo tipo, anche quelli proposti
da alcuni esponenti del centro-sinistra che, seppur temperandone gli aspetti
peggiori, finiscono poi per ricalcare le linee di principio del progetto
costituzionale delle destre e riprodurne il suo stesso impianto culturale.
Sul titolo di questo testo di legge è
scritto "Modifiche alla Parte II della Costituzione"; è fin troppo
evidente, però, che il vostro intento è quello di travolgere
in toto la nostra Carta costituzionale, a cominciare dal primo articolo
che - lo ricordiamo ai signori della maggioranza - recita: «L'italia
è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Purtroppo
quell'aggettivo «democratica» va perdendo sempre più
peso grazie all'agire del Governo Berlusconi. (Applausi dal Gruppo Misto-RC,
Misto-Com e del senatore Piatti).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore D'Onofrio. Ne ha facoltà.
D'ONOFRIO (UDC). Signor Presidente,
ho ritenuto opportuno prendere la parola in sede di discussione generale
perché preferisco contenere l'intervento di domani in dichiarazione
di voto sulle questioni essenziali di ordine politico-costituzionale; non
avrei avuto tempo per cercare di spiegare, se è possibile, qualcosa
di più di questa grande riforma costituzionale che il Gruppo dell'UDC
ritengo voterà con grande compattezza. Si tratta, infatti, di una
riforma che noi consideriamo importante e che, da questo punto di vista,
riteniamo completata dalla legge elettorale proporzionale e non contrastata,
come pure mi è stato dato di sentire in quest'Aula.
Signor Presidente, inizio con una considerazione
che può sembrare molto lontana; bisogna, però, partire da
lontano per capire di cosa si tratta. Per un lunghissimo periodo, dal 1947
fino a domani, quando si voterà questo testo costituzionale, siamo
stati di fronte ad una scelta di fondo: ritenere che la cultura e la Costituzione
del 1946-1947 debbano sopravvivere alle ragioni storiche che hanno condotto
a quella stessa Costituzione.
Quella Costituzione non fu, come pure
mi è stato dato di ascoltare in quest'Aula, oggetto di scambio e
di opinioni assolutamente regolari; essa fu un serio, durissimo e forte
patto politico, come è normale che sia, perché la Costituzione
di un Paese è normalmente un grande patto politico. Quella Costituzione
non nacque per caso in Italia tra il 1946 e il 1947, ma nacque all'indomani
di una lunga e sanguinosa guerra civile, combattuta tra il 1943 e il 1945
e condotta ad una vittoria conclusiva dai partiti del Comitato di liberazione
nazionale.
A quelli dei colleghi che si fregiano
del titolo di costituzionalisti (cosa per la quale, ovviamente, non basta
aver vinto un concorso a cattedra di diritto costituzionale) suggerirei
di leggere con attenzione il libro di Costantino Mortati del 1940 sulla
Costituzione in senso materiale: la nostra Costituzione repubblicana è
di fatto legata alla cultura dell'arco costituzionale.
Di che cosa si tratta? Di un accordo in
base al quale le parti politiche decisive dei Comitati di liberazione nazionale,
soprattutto democristiani e comunisti (non solo, ma soprattutto loro) concordano
che si può anche essere al Governo in formazioni diverse, ma che
non si può essere diversi sulla riforma della Costituzione, la quale,
una volta che l'accordo è realizzato in Parlamento tra le grandi
forze politiche nella formula dei due terzi delle Assemblee parlamentari,
non consente al corpo elettorale di pronunciarsi. Il patto partitocratico
del 1947 questo significava e ha significato e su questo accordo di fondo
è vissuto dal 1947 in poi.
Non si tratta di un'affermazione casuale,
perché un personaggio di grande rilievo politico e costituzionale
dell'epoca, cioè l'onorevole Togliatti, disse il 19 febbraio 1947
nell'Assemblea costituente una cosa che è rimasta a segnare l'intera
storia politica del nostro Paese, appunto dal 1947 fino ai giorni nostri:
non pose il contrasto tra le forze politiche che avevano dato vita alla
Costituzione nei termini di un contrasto di alternativa democratica; pose
la questione in termini di alternativa di legittimità: legittime
erano le forze politiche che avevano concorso al patto costituzionale,
illegittime - sottolineo illegittime - le forze politiche che non avevano
concorso a tale patto.
E Togliatti lo disse in un momento nel
quale si stava preparando, ma non si era ancora giunti, da parte di De
Gasperi, alla estromissione dei socialisti e dei comunisti dal Governo.
Lo disse quindi all'Assemblea costituente e sanzionò di fatto la
nascita, anche nella Repubblica italiana, di quel contrasto sulla legittimazione
a decidere sulla Costituzione che ha rappresentato purtroppo una costante
negativa della storia politica italiana, come ripetutamente detto in un
libro di poco tempo fa, del quale consiglierei la lettura a quelli che
non lo avessero fatto, curato da Di Nucci e Galli della Loggia, intitolato
«Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell'Italia
contemporanea». Di questo si trattava e si è trattato.
Noi non abbiamo potuto discutere di fatto
nel merito di una riforma costituzionale perché dall'altra parte,
non tutti, ma prevalentemente e in modo decisivo, si contestava la legittimità
della proposta costituzionale da parte di chi non aveva concorso alla Costituzione
vigente. Questo era il patto costituzionale dell'articolo 138 della Costituzione
e questo è il motivo per il quale noi cambiamo tale articolo.
Non si tratta, presidente Napolitano,
di un'alternativa tra conservatori e innovatori: si tratta di un'alternativa
tra chi vuole mummificare la Costituzione secondo quel patto costituzionale
e chi ritiene che quel patto ha avuto un valore storico compiuto, concluso
e che, come tale, va ripensato.
In che senso proponiamo un cambiamento?
Il cambiamento che proponiamo (e in questo risiede la nostra grande forza
democratica rispetto alla proposta alternativa) è che, qualunque
maggioranza parlamentare - sottolineo qualunque - non può più
impedire che si ricorra al referendum popolare confermativo sulla riforma
della Costituzione.
Nel testo costituzionale vigente è
scritto che, quando in Parlamento si mettono d'accordo due terzi dei parlamentari,
il popolo rimane estraneo alla riforma costituzionale, mentre noi vogliamo
che il popolo entri nel dibattito costituzionale, decida esso, sulla base
del voto parlamentare, se confermare o meno la decisione parlamentare.
Questo è il cambiamento radicale che con questa riforma costituzionale
viene proposto e di questo si è trattato nel corso di questi lunghi
anni.
Perché dico «questi lunghi
anni», signor Presidente e onorevole Ministro? Perché noi
abbiamo iniziato a discutere di riforma costituzionale nel 2002, quando
la Lega Nord, in particolare il ministro per le riforme Bossi, presentò
un disegno di legge soltanto relativo alla devoluzione, non un disegno
costituzionale completo. Perché si è andato completando quel
disegno costituzionale e in che consiste questo completamento? E perché
questa grande riforma costituzionale vede l'intera maggioranza di centro-destra
a sostegno di questa riforma costituzionale?
Quel disegno è partito dall'ipotesi
di completare l'ordinamento federale della Repubblica e di questo va dato
merito a chi ha avuto la forza di porre il problema all'inizio di questa
legislatura e mi riferisco in particolare alla Lega Nord.
Rispetto alla domanda che questa poneva
di un completamento del disegno federalista della Repubblica, rispetto
alla modifica del Titolo V della Costituzione deliberato nell'altra legislatura
dall'altra maggioranza, noi come UDC, Forza Italia ed AN abbiamo posto
condizioni politiche a quella richiesta: quelle condizioni politiche sono
state tutte conseguentemente accolte dal partito della Lega Nord a dimostrazione
del fatto che tale Gruppo politico è passato dalla cultura del cartello
elettorale alla cultura dell'alleanza politica.
E' ovvio che sulle singole questioni ci
possa essere una discussione di merito, su questa o quella parte, ma occorre
capire che noi siamo passati con questa riforma costituzionale, dal contesto
del cartello elettorale con il quale la Lega Nord aveva iniziato la legislatura,
proponendo la questione della devolution, alla logica dell'alleanza politica
in tre modi tutti e tre essenzialmente rilevanti.
È stata posta la necessità
di una forma di Governo che garantisca il divieto di ribaltone; abbiamo
ribadito che la volontà popolare, una volta manifestatasi eleggendo
un componente del Parlamento, non può essere disattesa con la concorrenza
alla formazione di un altro Governo.
Egli rimane libero di determinarsi come
vuole sulle leggi, e di determinarsi politicamente come vuole passando
anche da uno schieramento all'altro, ma non può concorrere a formare
la maggioranza di Governo dell'altro schieramento.
Altro che violazione della rappresentanza
dell'intera nazione: c'è la riaffermazione forte del principio di
rappresentanza della nazione. L'elettore si esprime sulla maggioranza di
Governo, non su una persona. Ho detto ripetutamente che non vi è
la sola elezione del Presidente del Consiglio, non vi è l'iper-personalizzazione
della forma di Governo. Si eleggono contestualmente maggioranza di Governo
e Presidente del Consiglio: contestualmente essi vivono o contestualmente
cadono.
Di questo si tratta, non della subordinazione
del Parlamento al Governo ma del rispetto in quanto tale della volontà
che il voto popolare esprime eleggendo maggioranza, programma e capo del
Governo.
Noi stiamo affermando il principio di
volere rispettare la volontà popolare che si esprime formando maggioranze,
programmi e Governi. Vogliamo tutto questo oppure no? Vogliamo che il corpo
elettorale si esprima sulle riforme costituzionali comunque votate dal
Parlamento o no?
Di questo si tratta ed è per questo
che chi continua a dire di non volerlo, vuole soltanto la mummificazione
del vecchio arco costituzionale.
L'onorevole Togliatti lo diceva nel 1947,
ma quella affermazione è rimasta scolpita nel corso degli anni e
fino ad oggi non è risultata ferma; è una lettura molto utile
per chiunque volesse partecipare a questo dibattito non solo su argomenti
di dettaglio ma sulla questione di fondo. Diceva il Presidente Togliatti:
"Soltanto una maggioranza che corrisponda a questo blocco" - rappresentato
dal CLN - "è una maggioranza democratica, legittima, e oltre che
possibile, vitale e direi necessaria".
La questione posta nel 1947 da Togliatti
è stata riproposta nel 1964 quando i due poli, il polo del Nord
ed il polo del Sud, proposero una riforma costituzionale.
Fu scritto nel 1994 nel libro, che ora
posso non citare ma che è "Il futuro della Costituzione" a cura
di Zagrebelsky ed altri, che quella maggioranza eletta nel 1994 era formata
da partiti che non avevano concorso alla Costituzione del 1947 e non potevano
proporre la riforma costituzionale. Parlo del 1994; quando nel 1996, con
legge costituzionale, si stabilì (con il nuovo articolo 138) che
si poteva modificare con legge costituzionale la II parte della Costituzione,
vi furono illustri colleghi costituzionalisti che dissero che non si poteva
usare il potere di revisione costituzionale rispetto al patto costitutivo
originario.
Di questo si trattava e di questo si tratta.
Questo è l'oggetto del dibattito davanti a noi, non è la
questione di un procedimento legislativo più o meno farraginoso,
di una forma di Governo sulla quale si può essere più o meno
d'accordo.
Siamo di fronte alla questione di fondo,
ribadita nell'altra Camera dai colleghi Adornato e Gasparri nei confronti
di chi sostiene non di contestare la riforma, bensì il proponente
della riforma. Questa è la questione di fondo: si contesta il proponente.
In realtà non si sta discutendo soltanto dei contenuti ma anche
del proponente.
Questa riforma si colloca nel solco di
questa Costituzione, pur modificando l'arco costituzionale in quello che
io definirei il patto costituzionale tra una qualunque maggioranza parlamentare
ed il voto popolare. Questa è la nostra proposta. Alla vecchia cultura
dell'arco costituzionale proponiamo in alternativa la cultura del patto
costituzionale. Di questo è chiamato a decidere il corpo elettorale
italiano, ma non solo nel referendum finale. Lo deciderà anche al
momento in cui si terranno le prossime elezioni politiche. È del
tutto evidente che questa materia sarà considerata in modo particolare
nel corso del dibattito politico prossimo. Ci mancherebbe altro.
Chiederemo agli elettori in modo chiaro
e preciso di dirci se vogliono che la maggioranza che essi eleggono abbia
anche una capacità di proposta costituzionale o no. Di questo si
tratta ed ecco perché la materia del referendum, una volta assunta
una decisione in proposito, costituirà comunque materia decisiva
anche per le prossime elezioni. La domanda da porsi è se si è
dentro il solco della Costituzione del 1947, cambiando l'arco costituzionale
in patto, o no?
Anch'io voglio leggere la Costituzione
del 1947 come ha fatto il collega Sodano Tommaso poco fa. Secondo l'articolo
1: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e
nei limiti della Costituzione». Questa riforma dà al popolo
più o meno poteri? Mi sembra di tutta evidenza che dà più
poteri. Quando il popolo decide del programma, della maggioranza e del
Capo del Governo ha più poteri di quanti non ne abbia oggi. È
quindi certamente nel solco dell'articolo 1 della Costituzione. Questo
nel nostro testo costituzionale è scritto in modo molto chiaro.
L'articolo 2 della Costituzione mi sta
molto a cuore, signor Presidente, e credo dovrebbe stare molto a cuore
non solo ai cattolici ma anche ai molti liberali di questo Parlamento,
e non solo dello schieramento di centro-destra. Secondo l'articolo 2: «La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia
come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».
Ebbene, signor Presidente, l'articolo
2, nei lunghi anni di governo democristiano, non siamo stati capaci di
attuarlo fino in fondo perché è prevalsa la cultura del partito-Stato,
la cultura secondo cui pubblico vuol dire statale, non quella secondo cui
il sociale alternativo allo statale può essere preferito. Noi per
la prima volta in questa riforma costituzionale scriviamo, all'articolo
40, che il sociale non è necessariamente statale. Non diciamo più
società meno Stato, ma solo più società meno statalismo.
Sono due cose diverse.
Si vuole ciò o no, come lettura
della Costituzione vigente? La Costituzione vigente è intrisa di
una lettura potenzialmente socialista e di uguaglianza dei punti di arrivo,
di una lettura possibilmente liberale dell'uguaglianza dei punti di partenza
e certamente di una cultura della solidarietà e della sussidiarietà
di provenienza cattolica. La nostra formulazione è del tutto coerente
con questa impostazione. Lo si vuole o no?
Nel 1977 ebbe luogo un importante dibattito
che ho più volte ricordato, tra l'allora vescovo di Ivrea, monsignor
Bettazzi, e l'allora segretario del Partito comunista italiano, Enrico
Berlinguer, nel quale il primo sosteneva la necessità di battersi
per una pluralità delle istituzioni, mentre il secondo sosteneva,
coerentemente con il suo punto di vista, la pluralità nelle istituzioni.
Purtroppo, siamo stati per quarantacinque
anni legati a quella cultura della pluralità nelle istituzioni,
in cui si dice che le istituzioni promuovono le formazioni sociali, l'associazionismo
e l'individuo. Noi invece scriviamo «riconoscono» le formazioni
sociali e l'individuo. È un'alternativa radicale al modello statocentrico,
non una centralità statale rispetto alle Regioni, ma alla cultura
dello statalismo. Quello che ho appena indicato è un punto fondamentale.
Un discorso analogo può essere
fatto anche per l'articolo 5 della Costituzione vigente secondo cui: «La
Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali».
Chi garantisce l'unità e l'indivisibilità della Repubblica?
Il Capo dello Stato e in questa riforma costituzionale lo si spiega. Chi
garantisce l'unità e l'indivisibilità della Repubblica? Il
potere di riconoscere l'interesse nazionale come limite comunque estremo
al potere dell'autonomia legislativa anche esclusiva delle Regioni. Lo
abbiamo scritto in questa riforma ma non era indicato nel Titolo V della
Parte seconda della Costituzione approvata dal centro-sinistra nella scorsa
legislatura. Credo che siano punti fondamentali.
Il federalismo verso il quale ci muoviamo,
e che non è realizzato - non ci si deve scordare che questo è
un primo significativo passo politico verso una riforma federalista dello
Stato - si vedrà realizzato quando si potrà parlare di federalismo
fiscale nella prossima legislatura. In questa riforma costituzionale viene
ribadito il principio nel quale si compongono l'autonomia legislativa anche
esclusiva della Regione - la famosa questione della devoluzione - con l'unità
della Repubblica.
Quindi, anche in questo senso, la riforma
costituzionale proposta, signor presidente Napolitano, completa la Costituzione
vigente, e la completa in un senso che non era stato possibile completare
fino ad ora. Certo, la completa in termini che non sono graditi all'altra
parte politica. Su questo, devo dire che capisco le ragioni della resistenza,
ma si tratta di capire se tali ragioni consentono di attuare la Costituzione
anche in questo modo o no.
Noi non stiamo stravolgendo la Costituzione;
stiamo attuando la Costituzione in una delle due possibilità che
essa prevede. Nella forma della sovranità popolare che determina
i programmi, la maggioranza parlamentare e il Presidente, nella forma del
riconoscimento delle formazioni sociali e nella forma della potestà
legislativa esclusiva delle Regioni. Questo è un modo di attuare
la Costituzione.
Non dico che quello adottato fino ad ora
era un modo di non attuare la Costituzione, dico che era un altro modo,
un modo statocentrico, statolatrico, nel quale prevaleva lo Stato contro
il privato. È chiaro: è un altro modo. Questa è l'alternativa
bipolare della quale si parla.
Occorre capire che c'è anche una
cultura di alternativa bipolare nella lettura della Costituzione, non c'è
solo un bipolarismo da giocattolo, nel quale si giochicchia soltanto sulle
leggi marginali. C'è un bipolarismo anche di cultura costituzionale,
altroché!
La cultura costituzionale da noi proposta
indica una volontà bipolare di attuare la Costituzione compiutamente
nel senso della sovranità popolare, del riconoscimento del privato
e del riconoscimento dell'autonomia regionale dentro l'unità della
Repubblica, non contro di essa.
Ho sentito dire che questa riforma costituzionale
è una sorta di pegno che si paga alla Lega Nord. Su questo occorre
essere chiari fino in fondo e domani, in sede di dichiarazioni di voto,
lo ribadirò ancora una volta, da meridionale quale sono e quale
mi sento.
La Lega Nord ha avuto il merito strategico
di porre la questione della riforma dello Stato in termini politici all'inizio
di questa legislatura e non in termini verbali. Questa proposta della Lega
Nord è andata completandosi, come ho detto poc'anzi, con una seria
di connessioni politiche nel corso dei tre anni, a cominciare ovviamente
dall'incontro, molto importante e che fu percepito da tutti come tale,
a Lorenzago.
Fu a Lorenzago che fu detto da chi vi
parla in questo momento: "siamo qui per discutere ognuno di una parte che
gli sta a cuore, o siamo a discutere di un progetto costituzionale nel
quale si riconosce l'intera maggioranza politica, che è cosa diversa
dal mettere ognuno la propria bandierina?". La risposta fu: "andiamo verso
un patto politico di maggioranza".
La riforma che presentiamo è il
cemento politico di questa maggioranza, perché non si presenta soltanto
più con il volto della richiesta della Lega della devoluzione, bensì
con il volto complessivo nel quale la devoluzione diventa parte della sovranità
nazionale, nel quale la forma di Governo diventa parte della sovranità
popolare, nel quale il primato della società civile diventa parte
dell'equilibrio pubblico nuovo.
Queste sono le tre questioni che hanno
fatto diventare la riforma, nel corso di questi tre anni, non più
la stessa. Domani non voteremo il testo votato nel dicembre 2002: allora
votammo il testo della devoluzione e basta; domani, se il Senato voterà
il testo della riforma, voterà una riforma che prevede l'avvio del
federalismo attraverso la devoluzione, la forma di Governo con il primato
popolare, la forma di Stato di tipo federale e, da questo punto di vista,
anche la fine di quel bicameralismo abbastanza anomalo che, vorrei ricordare
ai colleghi del centro-sinistra, non fu voluto dalla Costituente come doppione
dell'una o dell'altra Camera.
Il Costituente scelse una soluzione eccentrica,
ma non voleva che le due Camere fossero l'una identica all'altra; voleva
che il Senato fosse a base regionale, mentre la Camera fosse a base nazionale;
voleva che il Senato durasse sei anni e la Camera cinque; voleva ovviamente
che potessero esprimere maggioranze politiche diverse. Dov'è l'anomalia?
L'anomalia avviene nel 1953, quando si
scioglie il Senato perché si fa la legge maggioritaria alla Camera
e si vadano a rileggere le critiche mosse al presidente della Repubblica
dell'epoca, Einaudi, quando sciolse il Senato dopo cinque anni mentre aveva
durata di sei anni!
Fu sciolto il Senato nel 1958 per farlo
durare cinque anni e fu modificata la Costituzione nel 1963, dicendo che
il Senato dura cinque anni come la Camera. Allora, nasce il bicameralismo
perfetto anomalo.
Con questa riforma finisce di vivere il
bicameralismo anomalo e si torna all'origine della Costituzione in modo
diverso: il Senato a base regionale e quindi federale, e alla Camera sarà
la base politica il principio di maggioranza.
La legge elettorale proporzionale è
dentro questa riforma o è contro di essa? Ma mi chiedo se avete
letto l'articolo 30 della legge costituzionale? Oppure si fanno affermazioni
senza leggere quali sono i termini delle questioni? Do lettura dell'articolo
30 soltanto perché qualche volta ho l'impressione che si facciano
affermazioni che non corrispondono a quel che si è letto (sono contrario
a queste forme di dettaglio, ma questo non è un dettaglio).
L'articolo 30 (sono contrario alle formule
di dettaglio, ma questa non lo è) della riforma costituzionale afferma
che «la legge disciplina l'elezione dei deputati in modo da favorire
la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di
Primo ministro».
La legge proporzionale è basata
sul principio che chi ha più voti riceve un premio di maggioranza,
esattamente quello che prevede l'articolo 30, il cui testo prevede altresì
che «la candidatura alla carica di Primo ministro» - ci vuole
veramente una riforma costituzionale - «avviene mediante collegamento
con i candidati, ovvero con una o più liste di candidati all'elezione
della Camera dei deputati». Eleggeremo una Camera dei deputati con
le liste di candidati, quindi non capisco quale contrarietà vi sia.
Non è detto che sia obbligatorio, poteva anche essere prevista una
legge elettorale maggioritaria, a uno o due turni, ma quella proporzionale
è una delle leggi elettorali compatibili con questa riforma costituzionale.
Si può gradire o no, si può dire che piace o meno, ma non
si può dire che è contraria alla riforma costituzionale.
Un'ultima considerazione, signor Presidente,
riguarda la Corte costituzionale. Vorrei onestamente che i colleghi non
si facessero prendere dal culto dell'ipocrisia. La Corte costituzionale
attualmente in carica, non quella prevista dalla riforma, si compone di
cinque giudici costituzionali nominati dalle magistrature superiori, cinque
nominati dal Parlamento in seduta comune e cinque dal Capo dello Stato.
Non credo che il Capo dello Stato li sorteggi, non lo ha mai fatto; temo
persino che abbia considerato la provenienza politica dei giudici. Questo
è del tutto evidente quando nomina giudici costituzionali persone
che sono state Ministri della Repubblica; non mi risulta che i Ministri
della Repubblica siano totalmente privi di appartenenza politica, anzi
normalmente appartengono ad uno schieramento politico.
Tra i giudici costituzionali vi sono alcuni
che sono stati Ministri della Repubblica, non è una cosa scandalosa.
Ma non diciamo che diventano sette i giudici costituzionali eletti dalla
maggioranza di Governo. In realtà diventano tre, mentre oggi quelli
eletti in seduta comune dai parlamentari che sono espressione della maggioranza
sono cinque. Quindi, da cinque si passa a tre: si tratta di una riduzione.
Gli altri quattro non sono eletti dalla maggioranza di Governo; rimane
ferma la riforma costituzionale, in base alla quale i giudici sono eletti
a maggioranza di due terzi o dei tre quinti dei componenti del Parlamento
in seduta comune. Da questo punto di vista la garanzia è totale.
Dove sta scritto che il Senato federale
è composto dalle forze politiche della maggioranza di Governo? Diciamo
le cose come stanno: la Corte costituzionale attualmente in carica è
fortemente intrisa di valori politici ed è giusto che sia così.
Cinque giudici costituzionali su quindici sono eletti dal Parlamento in
seduta comune e normalmente sono scelte persone che appartengono ad uno
schieramento politico; cinque sono nominati dal Capo dello Stato e normalmente
egli tiene conto dei loro orientamenti politici. Quindi dieci giudici su
quindici sono figli diretti o indiretti dello schieramento politico.
Nella nuova formulazione, invece, tre
giudici sono nominati dalla Camera, quattro dal Senato federale e quattro
dal Presidente della Repubblica. Dov'è questo snaturamento delle
funzioni della Corte costituzionale? Ho dovuto ascoltare in questi due
giorni, ancora una volta, dopo averle giustamente e doverosamente sentite
nei mesi precedenti, cose assolutamente incomprensibili rispetto a quanto
è accaduto. Sono lieto soltanto che, se domani - come mi auguro
- il Senato voterà questa riforma, il dibattito che ci sarà
per il referendum popolare, ci consentirà per la prima volta di
spiegare con attenzione di che cosa si tratta.
Noi vogliamo il referendum, come proposta
costituzionale generale, di certo non lo subiamo; il referendum diventa
uno strumento normale con il quale si votano le riforme costituzionali,
quindi è del tutto normale che si svolga il referendum su questo
argomento.
Da meridionale, ritengo che questa scudisciata
per il Sud sarà molto favorevole, perché l'orgoglio del Sud
vincerà anche rispetto a questa riforma costituzionale. (Applausi
dai Gruppi UDC, FI, LP e del senatore Pellicini).
PRESIDENTE. È
iscritta a parlare la senatrice Dentamaro. Ne ha facoltà.
DENTAMARO (Misto-Pop-Udeur). Signor
Presidente, provo grande rammarico nel pensare che proprio il Senato metterà
il definitivo suggello allo scempio istituzionale che la maggioranza sta
perpetrando in questo quinquennio, prima con i suoi comportamenti all'interno
delle istituzioni, poi con l'attività legislativa a coronamento
di questa riforma della Carta fondamentale.
Uno scempio che non ha risparmiato nessuna
delle istituzioni repubblicane e ha colpito in particolare e più
profondamente i presidi più alti che la Costituzione pose a garanzia
del principio democratico, dei diritti di libertà e della coesione
sociale, i tre pilastri sui quali dovrebbe poggiare, nello spirito dei
Padri costituenti, la convivenza civile degli italiani.
Si è cominciato con il Parlamento,
depotenziandone ruolo e funzioni mediante l'uso distorto e l'abuso sistematico
degli strumenti disponibili: dai decreti legislativi, troppi e troppo spesso
viziati da eccesso di delega, oltre che politicamente scorretti per aver
sottratto completamente al Parlamento materie delicatissime, alle forzature
clamorose dei Regolamenti parlamentari, alla brutta prassi dei maxiemendamenti
nei quali si lasciano scivolare, malcelati, i peggiori obbrobri, al continuo
ricorso al voto di fiducia, la spia più drammatica della debolezza
di un Governo costretto ad essere autoritario con la propria maggioranza,
tanto ampia quanto sbandata e rinunciataria a supportarlo dignitosamente
nel confronto parlamentare e, tuttavia, prona nel balbettare ogni volta
un "sì".
In questi quattro anni abbiamo visto la
prefigurazione del Parlamento disegnato ed ulteriormente peggiorato nella
odierna riforma costituzionale: una Camera dei deputati ostaggio del Primo
Ministro (dove anche la denominazione riflette, accanto ad una pacchiana
esterofilia, il superamento di quel principio di collegialità, con
un primus inter pares, che a noi piace tanto di più) e anche del
manipolo dei suoi fedelissimi pretoriani, unici deputati davvero di serie
A, un gruppetto marginale (nell'accezione del linguaggio economico, vale
a dire dall'elevatissima utilità marginale), potenzialmente ristrettissimo,
dal quale potrà dipendere la sopravvivenza o meno del Parlamento.
Ci saranno poi i deputati di serie B, dai quali potrà dipendere,
all'interno della maggioranza uscita dalle urne, il cambio del Primo ministro
con il meccanismo della sfiducia costruttiva. Infine, i deputati di serie
C, quelli di opposizione, che dovranno forse ringraziare se sarà
lasciato loro diritto di parola.
Sarebbe stato più dignitoso se
la maggioranza avesse avuto il coraggio di andare fino in fondo e, anziché
menar vanto della demagogica riduzione del numero, avesse più semplicemente
soppresso il Parlamento: per come è ridotto in questa riforma, è
davvero una ipocrisia costituzionale ed un inutile costo, non della democrazia,
sia chiaro, ma della demagogia.
Il rapporto Governo-Parlamento, tra l'altro,
è concepito avendo chiaramente sullo sfondo la legge elettorale
maggioritaria e ad essa, sia pur malamente e con mille torsioni, è
adeguata. Con l'ultima trovata del sistema proporzionale si è chiesto
il Presidente della 1a Commissione, relatore di entrambi i provvedimenti,
come si possa conciliare questo vero e proprio vincolo di mandato, istituito
dalla riforma costituzionale, con la fragilità estrema del vincolo
di coalizione derivante da un collegamento appena appena dichiarato di
una lista di partito ad un candidato Premier.
Passiamo al Senato, sul quale è
difficile anche rintracciare un filo logico: né carne né
pesce, né rappresentanza territoriale né rapporto fiduciario
con il Governo; invece, un rapporto equivoco, oscuro, con i territori e
con le istituzioni regionali, affidato ad una caotica contestualità
di elezione, ad una odiosa restrizione dell'elettorato passivo (anche qui
non è dato capire la coerenza con il nuovo sistema elettorale) e
ad una sorta di diritto, neanche di tribuna, ma di partecipazione senza
diritto di voto dei rappresentanti regionali e locali.
Altrettanto indecifrabile e quindi foriero
di impasse istituzionale è il rapporto con il Primo Ministro, che
del Senato non ha la fiducia ma ne è condizionato su scelte fondamentali
per l'indirizzo politico nazionale e può comunque vanificarne il
voto in ogni momento.
Il procedimento legislativo non esito
a definirlo manicomiale. Non vorrei essere d'ora in poi nemmeno nei panni
dei poveri studenti di diritto costituzionale.
C'è una istituzione che ancora
non siete riusciti ad imbarbarire e nella quale gli italiani ripongono
piena fiducia: ebbene, questa riforma riesce ad appannare e a compromettere
anche il ruolo del Presidente della Repubblica. Qualcuno ricorda sicuramente
il Capo dello Stato "taglianastri", così sarcasticamente definito
in alcuni passaggi della Bicamerale D'Alema.
Con questa riforma non siamo lontani da
quella figura: al Quirinale sono conferiti marginali poteri di nomina di
cosiddette autorità indipendenti (alle quali, nel frattempo, il
ministro Tremonti ha provveduto solerte a tagliare i fondi, tanto per garantirne
e rafforzarne l'indipendenza), ma lo si è privato per converso della
vera e fondamentale funzione di garanzia istituzionale: quella di assicurare
continuità e flessibilità del sistema nelle situazioni di
impasse della politica.
Attraversando la strada dal Quirinale
al Palazzo della Consulta, lo scenario non è più rassicurante.
Anche la Corte costituzionale vede alterato quell'equilibrio delicatissimo
tra scelta parlamentare, magistratuale e presidenziale che i Padri costituenti
hanno concepito e che per cinquant'anni, piaccia o no, ha assicurato la
coerenza tra la produzione ordinaria del Parlamento e la Carta fondamentale.
Si altera quell'equilibrio, naturalmente, in favore della politica, quella
politica che certo non sta dando il meglio di sé in questi anni
e nella quale i cittadini sempre meno si riconoscono e ripongono fiducia.
Anche questo presidio, quindi, si indebolisce.
Il giudice delle leggi subisce sorte analoga a quella degli altri giudici,
completandosi così l'opera sistematica di demolizione della magistratura
e delle sue possibilità di operare a presidio dei diritti, delle
libertà e dell'uguaglianza di tutti; quell'opera iniziata con la
sequela delle leggi ad personam, proseguita con la brutta riforma dell'ordinamento
giudiziario, sostenuta dai tagli di risorse e dai mancati interventi sull'organizzazione
degli apparati, sugli strumenti, sulla giustizia civile.
Ho lasciato per ultima e non per caso
la parte relativa all'ordinamento della Repubblica, quella che la corruzione
anche linguistica della Casa delle Libertà ci ha abituati a chiamare
con la disdicevole parola «devolution». Esistono in Europa
esempi felici, virtuosi di devoluzione, ma sono fondati su precise ragioni
di carattere storico, etnico, talvolta persino linguistico, non sulla scelta
miope ed anacronistica dell'egoismo territoriale che si traduce alla superficie
in frammentazione istituzionale, al fondo in rottura della coesione sociale.
Riconoscere una Catalogna non ha nulla a che fare con l'inventare venti
Catalogne!
La vostra devolution significa una cosa
sola: ogni Regione avrà il proprio modello di sanità, di
scuola, di polizia locale, comprensivo della quantità e qualità
delle prestazioni, dei requisiti per l'accesso alle stesse, delle norme
per il reclutamento del personale. Ogni Regione si darà il modello
di sanità, di scuola, di polizia che sarà in grado di finanziare
e questo sottrarrà risorse alla perequazione. L'Italia ne risulterà
più profondamente divisa. Sarà fratturata tra Nord e Sud,
tra Regioni ricche e Regioni povere, i cittadini italiani non saranno più
tutti uguali nella fruizione di diritti fondamentali.
Questa è rottura dell'unità
nazionale; è una forma di secessione vera, la più grave;
la secessione economica, quella dei diritti e delle garanzie sociali. A
nulla serve l'antidoto che un pezzo di maggioranza ha voluto iniettare
in questo sistema perverso nella logica di scambio mercantile, di mercimonio
politico tra pezzi di Costituzione che ha contrassegnato dall'inizio e
per intero il processo di revisione voluto dalla Casa delle libertà;
l'antidoto cioè dell'interesse nazionale. Una formula astratta,
sicuramente inefficace, ad incidere sulla concretezza degli effetti prodotti
dal potere organizzativo, comunque affidata alla decisione di una maggioranza
politica e quindi inidonea a garantire alcunché; comunque foriera
di interventi traumatici ed eccezionali che non servono a risolvere la
questione di fondo: la rottura del principio di universalità dei
diritti, l'inversione del rapporto tra regola la regola dell'universalità
e dell'uguaglianza, ed eccezione.
È la I Parte della Costituzione
che esce a pezzi da questa riforma. Semmai essa dovesse arrivare a compimento,
l'Italia, oltre a ritrovarsi con istituzioni più fragili e squilibrate,
meno garantite e meno stabili, si ritroverebbe assai meno democratica e
soprattutto non sarebbe più una. Ma io sono convinta che questo
non accadrà. Lo impediranno le cittadine ed i cittadini di questo
Paese con l'esercizio libero e democratico del voto referendario. (Applausi
dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U. Congratulazioni).
PRESIDENTE. E iscritto
a parlare il senatore D'Amico. Ne ha facoltà.
D'AMICO (Mar-DL-U). La ringrazio,
signor Presidente, e le chiedo scusa. Molti di noi hanno preso la discussione
un po' alla lontana; anch'io, senza farla lunga, farò altrettanto.
Non c'è dubbio che nel dopoguerra abbiamo conosciuto una democrazia
bloccata: anche volendo accogliere una definizione limitata di democrazia,
quella secondo la quale democrazia è la possibilità per i
cittadini di cambiare il Governo senza spargimenti di sangue, quella non
era una democrazia compiuta.
Furono gli italiani che, con il referendum
del 1991 e soprattutto con il referendum del 1993, hanno imposto ad un
sistema politico recalcitrante la regola dura dell'alternanza. Per la prima
volta nel 2001 è successo che si è determinato un ricambio
di Governo e di maggioranza per effetto del libero voto degli italiani;
non era mai successo, non solo in questo dopoguerra, ma nella storia dell'Italia
unita. Restava da adeguare al nuovo impianto della legge elettorale maggioritaria,
al nuovo impianto bipolare del sistema politico, il sistema istituzionale.
Vorrei ricordare, in particolare al presidente
D'Onofrio, che la proposta della maggioranza nasceva dall'esplicito riconoscimento
dell'esigenza di adeguare il sistema istituzionale all'impianto maggioritario
e bipolare del sistema italiano. Ricordo perfettamente che allora lo stesso
relatore D'Onofrio disse in Commissione che, se la maggioranza voleva andare
avanti sulla via della riforma in senso proporzionale della legge elettorale,
sarebbe stato necessario riscrivere questa riforma.
L'esito è paradossale poiché
ci troviamo di fronte ad una riforma fatta con uno scopo che oggi viene
travolto dalla decisione - a mio parere clamorosamente sbagliata - della
maggioranza di ritornare ad un impianto proporzionale della legge elettorale.
Ne discuteremo. Voglio solo anticipare che considero inaccettabile che
una riforma elettorale non solo contraddica l'espressa volontà degli
elettori del 1993 ma, così come essa è concepita, renda impossibile
domani agli elettori di pronunciarsi di nuovo. Ho anche presentato un emendamento
per rendere possibile la sottoposizione di questa legge elettorale al referendum.
Spero che, non oggi ma in futuro, sia
consentito agli elettori di pronunciarsi su quella riforma. Se direte no,
noi spiegheremo agli elettori che non volete che essi si pronuncino. Come
dicevo, è una proposta di riforma schizofrenica, nata per adeguare
l'assetto istituzionale al maggioritario bipolare, che si accompagna all'abrogazione
del maggioritario, con effetti paradossali sulla forma di Governo.
La questione decisiva, relativa alla possibilità
o meno che venga concesso al Premier di disciplinare la propria maggioranza
riconoscendogli un potere di scioglimento della Camera politica, è
una questione sulla quale ci siamo misurati molte volte in quest'Aula.
In generale, non sono contrario al fatto che al Premier venga concesso
un potere sostanziale di scioglimento della Camera politica.
Voglio ricordare in quest'Aula - riprendendo
la discussione che facemmo - che sicuramente questo potere è previsto
per il Premier della Gran Bretagna; è palese per tutti che ce l'ha
il titolare dell'indirizzo politico nel caso francese (il Presidente della
Repubblica ne ha fatto recentemente uso); in questa sede erano stati espressi
forti dubbi se l'avesse anche il cancelliere tedesco, ma i fatti ci hanno
confermato che ce l'ha; è evidente a tutti che lo stesso potere
è previsto in Spagna, non solo in astratto, visto che è stato
concretamente utilizzato dall'allora premier Aznar.
La domanda a questo punto è: con
la proposta che, purtroppo, questa Camera si appresta ad approvare in via
definitiva, il potere di scioglimento il Premier italiano ce l'ha o non
ce l'ha? La risposta che emerge da un'analisi del testo è affermativa,
ma solo ad alcune condizioni.
Analizziamo allora, dal punto di vista
logico, la condizione alla quale il potere di scioglimento è subordinato.
Esprimendola in termini logici, la condizione è che, rispetto all'ipotesi
di scioglimento, concordi con il Premier un numero di parlamentari almeno
pari alla differenza tra il numero complessivo di parlamentari del suo
polo e la maggioranza assoluta della Camera dei deputati, che ha il potere
di concedere e negare la fiducia. Questa condizione è assolutamente
folle! Basta spiegarla per comprendere quanto sia folle.
È folle per due motivi, il primo
dei quali è che si tratta di un numero variabile e, in larga misura,
casuale. Inoltre, questa condizione è tanto più restrittiva
quanto più consistente è stata la vittoria del Premier e
della sua maggioranza: anche questo punto è francamente folle. Il
Premier può esercitare il potere di scioglimento se è d'accordo
con lui un certo numero, variabile, di parlamentari; tuttavia questa condizione
è tanto più restrittiva quanto più grande è
stata la sua vittoria. Qualcuno dovrebbe spiegarmi sul terreno logico il
senso di una condizione così posta!
Ricordo che con la riforma elettorale
che vi apprestate a votare questo numero di parlamentari è abbastanza
contenuto. Infatti, come è noto, la riforma elettorale sostanzialmente
riduce il vantaggio che avrebbe una maggioranza di voti in termini di seggi
in Parlamento rispetto al sistema attuale. Quel numero, però, non
è soltanto la condizione alla quale è sottoposto il potere
di scioglimento del Premier, ma è anche il numero minimo di deputati
al quale noi attribuiamo un potere di scioglimento. Ciò vuol dire
che, con la proposta oggi in esame, se un certo numero di deputati, almeno
pari a questa differenza, decidesse comunque di procedere allo scioglimento,
avrebbe in mano il potere di farlo.
Ho detto che per effetto della riforma
che vi apprestate a votare questo numero diventa particolarmente piccolo.
Ciò vuol dire che il potere di condizionamento - e possiamo dire
anche di ricatto - delle forze più piccole si accresce con il congiunto
operare della riforma elettorale e di quella costituzionale. Il potere
di condizionamento - in questo caso, la minaccia di scioglimento - esercitabile
da piccoli Gruppi parlamentari o da piccoli gruppi di parlamentari si accresce:
governabilità e stabilità di Governo vanno a farsi friggere,
e con essi i problemi del Paese. In particolare, il congiunto operare delle
due riforme riduce drasticamente la capacità del Governo democratico
di fare fronte ai problemi del Paese.
Senatore D'Onofrio, c'erano molte proposte
alternative rispetto al potere di scioglimento, e non necessariamente conservatrici.
Personalmente avevo presentato una proposta semplice, cioè che fosse
possibile attribuire. in via generale e sostanziale. il potere di scioglimento
al Premier e che le Camere avessero la possibilità di evitare lo
scioglimento eleggendo un altro Premier, ma che in qual caso si andasse
velocemente a votare. In tal modo, sostanzialmente si sarebbe costituzionalizzato
quanto è avvenuto tre o quattro volte nella storia della Gran Bretagna
e, da ultimo, con la sostituzione in corsa dell'allora Premier, signora
Thatcher.
C'erano varie proposte, ma si è
scelta una strada folle, che è il risultato di complicate mediazioni
politiche all'interno della maggioranza; essa, però, purtroppo va
contro gli interessi del Paese e, in particolare, contro la capacità
di dare al Paese un Governo stabile, efficace, efficiente e forte.
Ricordo che ogni degenerazione della democrazia
verso posizioni autoritarie, di cui noi abbiamo purtroppo memoria, nasce
sempre da Governi democratici deboli. Non vi è un caso di Governo
democratico forte che sia degenerato in sistemi autoritari; abbiamo invece,
purtroppo, numerosi esempi di Governi deboli che hanno conosciuto degenerazioni
verso sistemi autoritari. La debolezza del Governo democratico è
il vero pericolo per una democrazia; non lo è mai la sua forza.
Veniamo all'altro terreno, sul quale vi
sono carenze veramente gravissime. Mi riferisco al cosiddetto terreno delle
garanzie. L'assenza di una seria disciplina delle incompatibilità
e delle ineleggibilità è un problema evidente, che io non
credo sia strettamente collegato alla questione personale del Presidente
del Consiglio, ma c'è un problema serio in ogni democrazia per una
disciplina severa del regime delle incompatibilità e delle ineleggibilità.
Vi è poi un'altra questione, anche
quella un po' paradossale. La migliore dottrina concorda sul fatto che
i costituenti del 1946-1947 esagerarono con gli interna corporis. Ciò
vuol dire che, di fronte al tentativo di ricostruire la forza del Parlamento,
che era stata compressa drasticamente e tragicamente nel ventennio fascista,
esagerarono nella direzione degli interna corporis. Un esempio evidente,
sul quale tutti sono d'accordo, è che non è possibile immaginare
che la verifica dei titoli di legittimazione dei componenti di una Camera
siano nella mano della maggioranza pro tempore di quella Camera. Questo
si presta ad abusi dei quali, purtroppo, temo cominciamo a vedere degli
esempi.
Tanto più rimane in piedi la regola,
di per sé sbagliata, che la maggioranza di una Camera abbia la possibilità
di giudicare dei titoli di legittimazione di coloro che ne fanno parte,
tanto più è probabile che si producano degenerazioni. Su
questo terreno esiste un accordo generale della dottrina, eppure neanche
questo è stato fatto: la possibilità di ricorrere alla Corte
costituzionale avverso le decisioni di una delle Camere riguardo alla legittimazione
dei propri componenti.
Poi abbiamo conosciuto (il Presidente
ne ha piena coscienza) in questa legislatura spiacevolissime polemiche
relative alla regolarità del procedimento legislativo. Temo che
queste polemiche possano crescere nel futuro, chiunque governi, e sono
polemiche pericolose per la democrazia, perché sostanzialmente investono
la legittimità della legge.
Da questo punto di vista avevamo formulato
più proposte; alcune prevedono il ricorso alla Corte costituzionale
della minoranza parlamentare sulle ipotizzate violazioni delle norme anche
regolamentari sul processo legislativo. Una norma di questo genere avrebbe
svelenito il clima e forse avrebbe aiutato il funzionamento migliore delle
Assemblee legislative.
Avevamo proposto, inoltre, non già
un ricorso generale della minoranza alla Corte costituzionale per vizi
di costituzionalità della legge, ma una soluzione più limitata,
cioè la possibilità che anche la minoranza parlamentare potesse
ricorrere alla Corte per violazione della Costituzione da parte di leggi
sull'organizzazione dello Stato e della pubblica amministrazione. Esiste
cioè un'area riservata alla legge, quella relativa all'organizzazione
dello Stato e della pubblica amministrazione, che per sua natura è
difficile possa essere sottoposta a controllo di legittimità della
Corte, perché è difficile che il problema di legittimità
possa essere sollevato in via incidentale nel corso di un procedimento.
Vi è poi il punto decisivo, quello
relativo al capo dell'opposizione. La soluzione che adottate è assolutamente
insufficiente. Nei regimi parlamentari moderni del bipolarismo dell'alternanza
esistono o possono esistere più minoranze; esiste un'opposizione,
cioè il possibile Governo di domani, che pensa sé stessa,
appunto, come possibile Governo di domani e che è l'effettiva alternativa
che hanno i cittadini per mandare a casa il Governo che in quel momento
li governa, se pensano che quel Governo non sia adeguato alle necessità
del Paese.
Allora se questo è, nei regimi
moderni del bipolarismo dell'alternanza, il ruolo dell'opposizione, il
ruolo del suo capo non può essere disegnato nei Regolamenti parlamentari,
perché non è un ruolo esclusivamente parlamentare, è
un ruolo istituzionale. E poi, se vogliamo difendere questo fragile bipolarismo
italiano, abbiamo bisogno di strumenti che aiutino la coesione della maggioranza
(ho provato a dire la mia sul potere di scioglimento), ma abbiamo bisogno
soprattutto di strumenti che aiutino la coesione dell'opposizione, perché
se l'opposizione si spappola, si frammenta, l'alternativa non c'è
più, e quindi la possibilità concreta per i cittadini di
determinare il ricambio non c'è più.
L'istituzionalizzazione del capo dell'opposizione
è uno strumento da utilizzare proprio a questo fine: per aiutare
la coesione dell'opposizione. Il che vuol dire rendere possibile un'alternativa
concreta di governo per i cittadini.
Circa il complesso federalismo-bicameralismo,
per dirla in forma tecnica, sostanzialmente la riforma federale trasforma
tutta la legislazione in legislazione concorrente. La sostanza è
questa. Si può argomentare che questa è l'unica strada possibile
in un Paese moderno e complesso; tuttavia, di fronte all'enorme estensione
dell'area della legislazione concorrente serve una vera Camera delle Regioni.
La soluzione che è stata concepita - quella di sostanziale coincidenza
temporale dell'elezione dei componenti del Senato con l'elezione delle
amministrazioni regionali - rischia di essere addirittura controproducente.
Non do affatto per scontato che questo
determini la regionalizzazione delle elezioni del Senato perché
c'è un altro esito possibile e, forse, probabile: la sostanziale
nazionalizzazione delle elezioni regionali. Quando si voterà per
una Regione, l'oggetto della contesa, la posta in palio, sarà in
sostanza la possibilità di cambiare la maggioranza in una delle
due Camere nazionali, non già la scelta chi è più
adatto a governare quella singola Regione. L'effetto può essere
paradossale.
Vi è la strana possibilità,
che è stata concepita affinché il Governo possa superare
il voto del Senato. Come immaginiamo che evolva questa possibilità?
L'evoluzione più probabile è quella più auspicabile
in termini relativi, cioè che il Senato si trasformi sul piano sostanziale
in Camera morta. Ogni volta che si apre un conflitto rispetto alla maggioranza
politica - dato che la dichiarazione di aderenza del singolo tema al programma
di Governo è, appunto, una dichiarazione, anche considerando come
sono fatti in particolare i programmi di governo in Italia - l'obiezione
del Senato verrebbe sistematicamente superata: è sostanzialmente
la trasformazione del Senato in Camera muerta.
Trovo un po' paradossale che quest'Aula
voti così, con tanta leggerezza, una proposta il cui esito più
probabile è quello di trasformare se stessa in Camera muerta e,
tuttavia, le alternative sono ancora peggiori perché, se non sarà
così, potremmo avere la paralisi. Vista la differenziazione estrema
dei meccanismi di elezione - osservo peraltro che già quello che
verrà introdotto con la legge elettorale che vi apprestate a votare,
prima che entri in vigore quello previsto da questa riforma costituzionale,
comporta la possibilità che non ci siano le stesse maggioranze nelle
due Camere - si determinerebbe, in assenza dell'effettiva operatività
dello strumento di superamento che voi immaginate nella riforma costituzionale,
la paralisi dell' attività di governo. Lo spettro weimariano incombe
sulla Repubblica.
Una seconda alternativa è il coinvolgimento
del Presidente della Repubblica nella polemica politica. E' questo singolo
atto rilevante ai fini della realizzazione del programma di governo? Si
tratta di una decisione squisitamente politica.
Mi appresto a concludere, signor Presidente.
Purtroppo gli inviti alla ragionevolezza che vi giungono dall'opposizione
e dagli studiosi e gli inviti impliciti che giungono dall'esperienza del
resto del mondo sviluppato temo cadranno nel vuoto. Purtroppo questa maggioranza
si conferma inadeguata a governare il Paese, ma anche a guidare la riforma
istituzionale del Paese. Ci penseranno gli italiani con le elezioni e con
il prossimo referendum! (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U, DS-U e Misto-Com).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Marino. Ne ha facoltà.
MARINO (Misto-Com). Signor Presidente,
proprio qualche minuto fa sono stati rievocati gli anni Quaranta, dal 1946
al 1948, e indubbiamente non c'è il clima, non c'è la coscienza
di allora, non è più la stagione dei 75, dei Padri costituenti,
di Mortati, di Calamandrei, di Terracini. Non c'è più la
coscienza di tenere insieme i tre princìpi richiamati dal senatore
D'Onofrio, quello della solidarietà cristiana, quello dell'uguaglianza,
proprio delle sinistre, e quello della libertà e dei diritti civili,
espressione delle forze azioniste e liberali, che, in sostanza, costituiscono
ancora la dimensione moderna dell'unità nazionale.
Si realizzò allora un sincretismo
istituzionale ed ideale insieme, contro il sovversivismo dall'alto ma anche
dal basso, intendendosi con quest'ultimo il gretto individualismo, le chiusure
corporative e nazionalistiche.
Presidenza del vice presidente FISICHELLA
(ore 18,40)
(Segue MARINO). Quando si è realizzata
nel corso della nostra storia la convergenza delle forze democratiche e
progressiste che si sono ispirate a questi princìpi, la nostra Repubblica
è andata avanti e ha superato anche i momenti più difficili
e i nodi più spinosi.
Noi Comunisti Italiani riteniamo che oggi
più di prima occorra difendere e rafforzare quei princìpi,
rafforzare dunque la Repubblica parlamentare, perché riteniamo vi
sia l'esigenza di rovesciare la tendenza a restringere gli spazi di democrazia,
di lottare contro le derive plebiscitarie per riaffermare il primato della
partecipazione dei cittadini attraverso il Parlamento e la democrazia rappresentativa,
ma anche attraverso le tante società intermedie, a partire dal sindacato
dei lavoratori.
La democrazia non può esaurirsi
nelle elezioni, ma deve trovare realizzazione anche nel rispetto dell'opposizione
e nella valorizzazione delle Assemblee rappresentative e delle formazioni
sociali in cui il cittadino svolge la sua personalità.
Qualcuno ha parlato di queste riforme
costituzionali come riforme incostituzionali ed è stata anche ricordata
la sentenza della Corte costituzionale del 1988, laddove si dice espressamente
che le leggi di revisione non possono contenere norme in contrasto con
i princìpi fondamentali dell'ordinamento costituzionale.
A nostro avviso, in questi anni sono stati
portati attacchi gravi anche alla stessa Parte I della Costituzione, con
le scelte di politica internazionale, con la partecipazione ad un'occupazione
militare recente di un Paese straniero aggredito senza un casus belli e
contro la Carta delle Nazioni Unite e dello stesso diritto internazionale,
scelte che hanno violato quel principio di ripudio della guerra sancito
all'articolo 11 della Costituzione.
Gli attacchi alla Parte I sono venuti
anche con la legislazione ordinaria in materia di fisco, contro il principio
della capacità contributiva e della progressività delle imposte,
in materia di lavoro, di sanità, di scuola, contro i princìpi
della pari dignità sociale, in materia di giustizia, infrangendo
princìpi costituzionali e conducendo una lotta contro la magistratura
anziché, in maniera coerente e costante, contro la criminalità
organizzata e anche con queste cosiddette riforme costituzionali e con
la devoluzione, tutte norme che non possono non incidere sulla Parte prima
della Costituzione.
Le nostre critiche vanno poi anche al
metodo. Sono stati modificati più di 50 articoli, con norme aggiuntive
e tante disposizioni transitorie. Viene però utilizzato in proposito
l'articolo 138 della Costituzione che, secondo la giurisprudenza costituzionale,
come è noto, non può modificare i princìpi fondamentali.
Ci troviamo di fronte ad una grave forzatura, se non ad un vero e proprio
abuso, perché l'articolo 138 non è volto ad una riscrittura
totale, ma parziale del testo, per affrontare aspetti specifici.
Lo stesso referendum confermativo viene
ridotto a un prendere o lasciare. Quando si abusa dell'articolo 138 della
Costituzione, anche il referendum confermativo viene depotenziato, costringendo
ad accettare o a rigettare in toto il testo.
E questo testo, voglia o non voglia il
senatore D'Onofrio, è il frutto di un do ut des: chi ha avuto la
legge elettorale, chi la devoluzione, chi il premierato forte, chi si è
accontentato delle parole "interesse nazionale", ingoiando però
la devoluzione che è in contrasto con la coesione nazionale.
Il testo è il risultato inevitabile
di una logica spartitoria e di una lunga mediazione tra posizioni contrastanti
all'interno del centro-destra. Soprattutto è stato rifiutato il
confronto. C'è stato unilateralismo anche nella riscrittura: non
si sono volute scrivere regole comuni in funzione di un interesse generale
e superiore.
Noi Comunisti Italiani riteniamo necessari
aggiustamenti alla riforma del Titolo V approvato in passato, ma la maggioranza
attuale si è sottratta anche al confronto sulle modifiche da apportare
al Titolo V che, comunque, è stato frutto di una lunga negoziazione.
Infatti, la Conferenza Stato-Regioni e i Presidenti delle Regioni avevano
espresso il loro consenso, ma bisogna avere anche il coraggio di ammettere
che quel metodo è criticabile; quindi, perché ripeterlo?
Noi allora esprimemmo contrarietà
e riserve sino alla fine su alcuni aspetti della riforma del Titolo V,
a partire dall'articolo 114, che afferma che la Repubblica è costituita
dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni
e dallo Stato, mettendo lo Stato sullo stesso piano, confondendo lo Stato-ordinamento
con lo Stato-apparato.
Esprimemmo critiche anche rispetto all'elezione
diretta dei Presidenti delle Regioni con tutte le norme di contorno, comprese
quelle relative allo scioglimento dei Consigli regionali, che ha comportato,
a nostro avviso, lo svuotamento del ruolo delle Assemblee elettive e degli
stessi partiti. E nei contenuti, in relazione all'articolo 117 nella nuova
formulazione, noi siamo per un regionalismo cooperativo e solidale.
Queste cosiddette riforme alterano l'equilibrio
tra i poteri, e quindi lo stesso funzionamento della democrazia. Siamo
di fronte ad uno stravolgimento degli equilibri e dei princìpi della
Carta costituzionale in vigore dal 1° gennaio 1948. Siamo di fronte
a sbreghi consistenti, ad attacchi alla I parte, anche perché esalta
il sistema di pesi e contrappesi.
La Costituzione italiana, infatti,è
un tutto armonico, c'è un equilibrio tra la I e la II parte e, oltre
agli elementi di democrazia progressiva e avanzata che ho ricordato, sia
pure sinteticamente, la Carta costituzionale attuale è il risultato
di un patto per bilanciare i poteri, patto ispirato quasi ad una tecnica
di limitazione dei poteri. Di qui, allora, la previsione di garanzie e
contrappesi. Anche in questo la nostra Carta costituzionale è molto
avanzata perché non è ispirata ad un'ideologia decisionista.
Ebbene, noi lanciamo un allarme istituzionale
e sociale, perché riteniamo che la Costituzione sia complessivamente
a rischio. Queste controriforme indeboliscono tutti gli organi che hanno
posto limiti all'arroganza nell'azione del Governo di centro-destra. Parlo
degli istituti di garanzia, a partire dal Presidente della Repubblica fino
alla stessa Corte costituzionale.
Sono stati ritenuti sgarbi le leggi rinviate
o dichiarate parzialmente incostituzionali e il Parlamento in questi anni
è stato ritenuto solo un intralcio. Ma soprattutto lanciamo un allarme
sociale: che significato ha, in concreto, una legislazione esclusiva delle
Regioni in materia di sanità e di assistenza e di sicurezza, quando
si sa che ci sono Regioni più sviluppate e altre meno (è
proprio di stamattina una recente indagine sull'analfabetismo di ritorno),
quando la legislazione esclusiva non riguarda solamente l'organizzazione
sanitaria, ma la stessa assistenza sanitaria, come recita la norma, e non
riguarda solo l'organizzazione scolastica, ma anche i contenuti, i programmi
scolastici e formativi?
Noi, dal vecchio Stato corporativo e attraverso
i diversi enti, siamo passati da forme di assistenza corporativa della
sanità al Servizio sanitario nazionale. E così pure nella
conquista della scuola media dell'obbligo, con il superamento di una vecchia
divisione di classe.
Questa devoluzione, lo voglia o non lo
voglia il senatore D'Onofrio, è stata scritta sotto il ricatto della
Lega e non corrisponde affatto agli interessi nazionali sui quali si sofferma
Alleanza Nazionale. Stravolge il principio di uguaglianza, è contro
l'unità e l'indivisibilità della Nazione, contro i principi
espressi agli articoli 3, 4 e 5 della nostra Costituzione e contro il principio
dell'universalità dei diritti, in quanto, differenziando la tutela
sociale dei cittadini a seconda delle Regioni di appartenenza, costituisce
un gravissimo attacco al principio di uguaglianza e solidarietà.
Non esiste un modello simile in nessun
altro Paese o in nessun altro Stato federale. Voglio ricordare che gli
stessi Stati Uniti d'America hanno dei programmi federali per la sanità.
Il regionalismo è fatto per esaltare
i diritti di libertà e la dignità della persona, come scrive
Gramsci; invece questa devoluzione amplierà il divario tra Nord
e Sud. È ipocrita parlare di rafforzamento dei poteri locali, mentre
ancora con la finanziaria appena approvata dal Senato si è avuta
l'ultima raffica di tagli alle Regioni e agli enti locali, che incide negativamente
sui bilanci delle famiglie più deboli; per non citare l'esemplare
sentenza della Corte costituzionale in ordine alla finanziaria del 2004.
L'allarme è anche istituzionale.
Vi è una concentrazione di poteri nelle mani del Primo ministro
senza alcun contrappeso, tant'è che il presidente Elia non ha esitato
a parlare di premierato assoluto. Il Primo ministro trova la sua legittimazione
sostanzialmente nella elezione diretta, non più quindi nella fiducia
espressa dal Parlamento; ha la responsabilità dello scioglimento
della Camera, qualora fosse sfiduciato dalla stessa.
Vi è poi la norma su una finta
sfiducia costruttiva, secondo cui la sostituzione del Primo ministro avviene
solo se viene approvata una mozione di sfiducia con indicazione di nuovo
Primo ministro da parte dei deputati appartenenti alla sua maggioranza,
cosa assolutamente irrealizzabile. Il Primo ministro è dominus del
processo legislativo, dispone della sua maggioranza, determina - così
dice la norma - la politica generale del Governo, il che non ha nulla a
che fare con il principio di collegialità del Governo.
Oggi qual è l'esigenza prioritaria?
È quella di assegnare ulteriori poteri al Capo del Governo? Non
ne ha già abbastanza? Non è forse, invece, quella di recuperare
la partecipazione, stante anche la crescente sfiducia dei cittadini e la
disaffezione per le istituzioni previste dalla nostra Carta costituzionale?
Occorre individuare un modello di riferimento?
Negli Stati Uniti d'America c'è indubbiamente un Presidente forte,
ma c'è anche un Parlamento forte. In questo caso, invece, ove queste
norme dovessero veramente trovare attuazione, noi avremmo un Primo ministro
assoluto, ma un Parlamento indebolito per la moltitudine di decreti-legge,
per i tanti voti di fiducia, per le leggi delega, per le authority, ma
anche in ragione dello stesso sindacato ispettivo. Voglio in proposito
ricordare che spesso alle interrogazioni non si fornisce risposta, oppure
si risponde a distanza di mesi se non di anni, quando ormai hanno perso
assolutamente di senso.
Si registra uno svuotamento dei poteri
e delle prerogative del Presidente della Repubblica, che non rappresenta
più l'unità nazionale, ma la Nazione; non autorizza più
la presentazione dei disegni di legge governativi. Scompare, quindi, una
norma di garanzia contro il rischio di infrangere i principi fondamentali,
che evita l'uso del potere per fini illegittimi. Il Presidente della Repubblica
perde il potere di scioglimento del Parlamento, sottrattogli dal Primo
ministro. Insomma, dall'equilibrio dei poteri si passa ad un vero e proprio
squilibrio tra i poteri.
La Camera dei deputati è assoggettata
al Primo ministro sotto il ricatto dello scioglimento, ove la maggioranza
non voglia approvare i provvedimenti legislativi; il Parlamento diventa
un ostaggio, perde la sua centralità nell'impianto istituzionale
voluto dai Padri costituenti: questo è sovversivismo dall'alto!
Il Parlamento è ridotto a un votificio.
È inutile negarlo: viene rotto
anche l'attuale equilibrio per quanto riguarda la Corte costituzionale,
che diventa inevitabilmente più politicizzata con l'aumento in percentuale
dei giudici di nomina parlamentare.
Qualche parola sul Senato cosiddetto federale.
Noi Comunisti Italiani siamo sempre stati contrari al bicameralismo perfetto;
ancor prima di questa discussione, abbiamo sottolineato che occorre il
monocameralismo, con la conseguente riduzione del numero complessivo dei
parlamentari, perché non sussistono più le ragioni storiche
che spinsero, usciti dalla dittatura, ad avere una seconda Camera - la
Camera del ripensamento, come la definiva Terracini - considerato che l'80
per cento della legislazione in materia economica, ma non solo, è
ormai di derivazione europea ed è in questa nuova dimensione, nonché
in relazione alla stessa legislazione regionale, che andava affrontato
seriamente il problema del superamento del bicameralismo perfetto.
Scendendo nel merito delle norme che riguardano
il Senato cosiddetto federale, la cui elezione, contestualmente a quelle
regionali, avverrà nel 2011, così come delineato dalla riforma,
esso non è realmente rappresentativo dei territori, delle autonomie,
non è né regionale, né federale, ma è un colossale
pasticcio.
Si tratta di un bicameralismo ambiguo,
che prefigura percorsi legislativi di difficile comprensione, farraginosi
e complicati: tre percorsi legislativi pasticciati, a seconda delle materie,
per cui in qualche caso sarà la Camera a decidere per ultima, in
qualche altro caso sarà il Senato in via definitiva.
Di fronte ad un disegno di legge contenente
norme diverse, si dovrebbe forse disfare il testo normativo in itinere
a seconda delle diverse competenze tra Camera e Senato? Insomma, un pasticcio
con una perla: una norma assurda per cui, ove il Primo ministro decida
che una legge fa parte del programma di Governo, quel testo viene esaminato
dalla Camera cambiando la competenza costituzionale.
Riteniamo che la portata complessiva delle
norme al nostro esame aprirà inevitabilmente un ampio contenzioso
e conseguenti ricorsi alla Corte costituzionale.
Si tratta di un pasticcio quasi da dimenticare:
riteniamo che il referendum popolare cancellerà questo obbrobrio
giuridico-costituzionale. Saremo molto presenti nei Comitati di difesa
dell'attuale Costituzione, che non debbono essere formati solo da giuristi
perché la questione delle garanzie democratiche non riguarda solo
gli addetti ai lavori; in essi devono operare le organizzazioni sindacali,
quelle di categoria, le istituzioni culturali, gli intellettuali, i collettivi,
insomma tutti i rappresentanti intermedi della società, perché
noi Comunisti Italiani riteniamo che non si possa cancellare così
la storia che ha dato origine alla legge fondamentale della Repubblica!
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Vitali. Ne ha facoltà.
VITALI (DS-U). Signor Presidente,
colleghe senatrici, colleghi senatori, il senatore D'Onofrio nel suo intervento
ha citato Costantino Mortati, il principio della Costituzione materiale
da lui richiamato e anche la logica dell'arco costituzionale, figlia ed
insieme connaturata alla Costituzione del 1948 e alla lunga stagione che
quella Carta ha garantito ed assicurato al Paese, una stagione di democrazia
e di salvaguardia dei diritti fondamentali, di libertà e di espressione
politica.
Occorre ricordare che l'arco costituzionale
è stato superato nel momento in cui fu superata la ragione politica
e storica che diede vita a quella logica, cioè la democrazia bloccata.
Prima con la caduta del muro di Berlino, poi con le leggi elettorali maggioritarie
a partire dal 1993, vi sono maggioranze che si alternano alla guida del
Paese e questo introduce, rispetto a ciò che i Padri costituenti
ipotizzavano, cioè il mantenimento di una legge elettorale proporzionale,
una novità sostanziale.
Il secondo elemento, quello della Costituzione
materiale, è certamente da valutare ma, tra i princìpi della
Costituzione materiale che hanno retto la Costituzione del '48, vi è
stato quello per cui la medesima Costituzione non poteva essere modificata;
si conveniva non potesse essere modificata solo sulla base di una maggioranza
politica ma che qualora dovesse essere modificata, aveva bisogno appunto
di un largo consenso. Da qui l'istituzione, a partire dagli anni Ottanta,
delle diverse Commissioni bicamerali che giustamente il senatore Napolitano
ha ricordato nel corso del suo intervento.
Ebbene, questa logica, cioè quella
della Costituzione che viene modificata solo a larga maggioranza, è
stata formalmente interrotta nel corso della precedente legislatura, ma
tengo a questo avverbio formalmente. Come abbiamo ricordato nel corso di
questo dibattito quella modifica era figlia della Commissione bicamerale
della precedente legislatura ed anche di una richiesta, di una volontà
che veniva coralmente ed unanimemente da tutto il fronte delle autonomie,
delle Regioni e degli enti locali.
In realtà, quella consuetudine
è stata modificata nella sostanza solo e per la prima volta in questa
legislatura ed è stata modificata a partire da ciò che mai
la Costituzione materiale, che finora ha retto le sorti della Repubblica,
e neanche lo spirito della Costituzione del '48 avrebbero potuto immaginare
o consentire, cioè il mercanteggiamento sulla Costituzione della
Repubblica italiana perché questo è stato Lorenzago, senatore
D'Onofrio; altro che spirito costituente! Lorenzago è nato dopo
che il Senato della Repubblica aveva già votato la proposta di devolution,
voluta dalla Lega Nord.
A questo si è aggiunto il Premierato,
voluto da Forza Italia, e poi ancora il cosiddetto interesse nazionale
voluto da Alleanza Nazionale e, infine, una legge elettorale in senso proporzionale,
inizialmente voluta dall'UDC, e poi a quanto pare sposata con entusiasmo
da tutta la maggioranza perché è una sorta di ancora di salvezza
rispetto ad una legislatura, la prossima, nella quale voi pensate di non
avere la maggioranza. Pertanto, avete ritenuto di creare le condizioni
di totale ingovernabilità ed instabilità del nostro sistema
politico.
Questa rottura ha dato luogo ad una modifica
costituzionale globale che affronta tutti i principali temi dell'ordinamento
della Repubblica: dai poteri del Capo dello Stato al ruolo del Presidente
del Consiglio alla Corte costituzionale, al tema dei poteri delle autonomie
locali e delle Regioni e lo avete fatto con la sola maggioranza vostra
e per di più contro il parere di tutta la cultura costituzionalista
italiana, di tutte le Regioni, di tutte le autonomie locali.
Per parte nostra ci appelleremo al popolo,
chiederemo un referendum di abrogazione di questo stravolgimento della
Costituzione democratica del nostro Paese, ma la cosa importante che ha
detto anche oggi Romano Prodi, nel momento in cui è stata resa pubblica
una proposta che sarà all'attenzione dei Gruppi politici dell'Unione
per la formazione del programma elettorale, è che proporremo come
prima misura che si modifichi il quorum necessario per le modifiche costituzionali.
È vero e giusto che le modifiche costituzionali si devono fare solo
a larga maggioranza.
Quindi, anche il precedente della scorsa
legislatura, quello del Titolo V deve essere superato ed è necessario
scrivere in Costituzione che non è più sufficiente la sola
maggioranza assoluta, ma ne occorre una qualificata per modificare la Costituzione
stessa. Dopodiché si potranno forse affrontare serenamente i veri
problemi di aggiornamento della nostra Carta costituzionale, che sono molto
diversi da quelli da voi proposti.
Interverrò in conclusione solo
su un punto rispetto al complesso delle questioni su cui sono già
intervenuti i colleghi del mio Gruppo e dell'opposizione. Parlo della devolution.
Lunedì, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità
del decreto taglia-spese del 2004. Ora, a parte che il Presidente del Consiglio
ed il Ministro dell'economia con la solita arroganza hanno detto che la
finanziaria va avanti ugualmente, che non se ne parla e che il parere espresso
non avrà effetti, in realtà, la pronuncia della Corte costituzionale
dovrebbe innanzitutto richiamare alla vostra attenzione il fatto che questo
Governo, di cui appunto fanno parte forze che propongono addirittura una
modifica della Costituzione italiana, è stato il più centralista
della storia di questa Repubblica. Altro che devolution!
Questo Governo ha costantemente ignorato
le Regioni e le autonomie locali, ha legiferato - come dice la Corte costituzionale
in questa sentenza - in modo invadente rispetto alle loro competenze e,
per di più, non ha dato attuazione al fondamento, al principio di
ogni federalismo solidale e cooperativo, quale è quello che è
scritto nella nostra Costituzione, cioè il federalismo fiscale.
L'articolo 119 della Costituzione non
è stato minimamente esaminato da parte vostra. Avete dato mandato
ad un'alta Commissione per il federalismo fiscale, presieduta dal professor
Vitaletti, di fare proposte; quando questa Commissione ha concluso i suoi
lavori e ha fatto delle proposte, non le avete neanche inviate al Parlamento,
come era doveroso fare, non ne avete tenuto minimamente conto, neanche
nella predisposizione della legge finanziaria per il 2006.
In più, la cosiddetta devolution,
che voi proponete, tradisce i princìpi del federalismo solidale,
perché non c'è dubbio che, introducendo legislazioni esclusive
in materie così delicate, quali scuola, sanità, polizia amministrativa
locale, si lede il principio dell'unitarietà dei diritti su tutto
il territorio nazionale, scritto nella prima parte della nostra Costituzione.
E ancora, attraverso l'elencazione, nel
secondo comma dell'articolo 117 delle materie oggetto di potestà
legislativa esclusiva dello Stato, nel terzo comma delle materie oggetto
di potestà legislativa concorrente, nel quarto comma di quelle oggetto
di potestà di legislativa esclusiva da parte delle Regioni, introducete
una pericolosa confusione, segnalata nel corso di questa discussione, ma
alla quale non è stata data nessuna risposta.
Come è possibile considerare la
tutela della salute tra le materie di competenza esclusiva dello Stato
su cui legifera la Camera politica con l'ultima parola e, contemporaneamente,
prevedere l'organizzazione sanitaria tra le materie di legislazione esclusiva
delle Regioni?
Non c'è dubbio che non sarà
possibile distinguere tra queste due materie; nasceranno, a quel punto
sì, conflitti continui e laceranti tra il sistema delle Regioni
e delle autonomie e lo Stato centrale, su cui interverrà lo stesso
Parlamento con il meccanismo dell'interesse nazionale, che è un
meccanismo abnorme in quanto regolato politicamente.
Credo che ci siano abbastanza motivi per
ritenere insensata questa modifica e per chiedere al popolo italiano di
azzerarla, attraverso il referendum, per poi passare ad una discussione
seria sulle modifiche, anche costituzionali, necessarie per rendere più
aggiornato e più moderno il nostro sistema istituzionale. (Applausi
dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e Misto Com).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Castellani, che - lo ricordo - ha a disposizione
sei minuti. Ne ha facoltà.
CASTELLANI (Mar-DL-U). Signor Presidente,
mi avevano detto che avrei avuto più tempo a disposizione, a seguito
della rinuncia di alcuni colleghi della maggioranza.
PRESIDENTE. Intanto inizi, poi vedremo.
CASTELLANI (Mar-DL-U). Signor Presidente,
onorevoli rappresentanti del Governo, credo che una riforma costituzionale
ampia, come questa, dovrebbe nascere in un clima diverso, un clima che
preveda un concorso ed un consenso di ampi strati della società,
che preveda soluzioni condivise da un'ampia maggioranza del Parlamento,
che preveda la condivisione della maggioranza degli addetti ai lavori,
cioè dei costituzionalisti, dei professori di diritto delle nostre
università, che preveda anche un diffuso clima di speranze e obiettivi
condivisi da lasciare al futuro del nostro Paese.
Credo che di questo si tratti - mi riferisco
all'intervento del collega D'Onofrio - non già di far rivivere un
patto costituzionale oramai storicamente superato, ma che, nello spirito,
dovrebbe essere certamente rivisitato, perché prevedeva quantomeno
la necessità di una larga condivisione delle scelte adottate.
Nulla di tutto questo c'è oggi.
Non c'è questo clima, ma c'è una forte contrapposizione.
Addirittura siamo arrivati al voto finale di questo ramo del Parlamento
anche se, all'inizio della procedura, autorevoli esponenti della maggioranza
ci hanno detto che il percorso iniziava, ma certamente non si sarebbe concluso
perché si sarebbe perso nei corridoi del Parlamento. Quindi, chi
abbiamo visto oggi difendere la riforma per fedeltà alla coalizione
di centro-destra, già allora non ci credeva ed anzi minimizzava
la portata della procedura.
Ci troviamo all'atto finale perché,
alla fine, la Lega ha trascinato la maggioranza, che si è vista
costretta a pagare questa cambiale per tenere in vita un Governo agonizzante:
questa è la verità, piaccia o non piaccia! Questo è
il clima in cui ci si accinge a varare una riforma, che invece è
largamente non condivisa. Mi auguro che ciò verrà dimostrato
dagli elettori quando saranno chiamati al referendum confermativo.
Entrando nel merito, la riforma pone sostanzialmente
tre questioni: il problema della cosiddetta devolution, quello della forma
di Governo e quello del superamento del bicameralismo. Intendo soffermarmi
brevemente su tutte e tre le questioni.
La devolution dovrebbe essere il vero fatto
innovativo, ma per innovare quanto meno bisognava prevedere la sostituzione
della novella del Titolo V approvata nel 2001; invece, con un metodo certamente
non coerente, la devolution non innova, ma si innesta sul Titolo V ed aggiunge
materie esclusive per le Regioni quando il Titolo V prevede le materie
esclusive per le Regioni con il metodo residuale.
Quindi, su un impianto che definisce soltanto
le competenze esclusive per residualità, si innestano materie esclusive
di competenza regionale su questioni che, invece, sono fondamentali. Mi
riferisco all'assistenza ed organizzazione sanitaria, all'organizzazione
e alla gestione degli istituti scolastici e di formazione, alla definizione
di parte dei programmi, alla Polizia amministrativa regionale e locale.
Vorrei capire come si concilia la potestà
legislativa esclusiva dello Stato nelle stesse materie. Infatti, così
come novellato, il Titolo V della Costituzione assegna allo Stato competenza
esclusiva sulla tutela della salute, sulle norme generali relative all'istruzione,
sull'ordine pubblico e sicurezza.
Signor Presidente, noto che lampeggia
la luce rossa del mio microfono, ma non ho ancora terminato l'intervento
e non mi bastano neanche due minuti per concluderlo. Mi era stato detto
che avrei potuto parlare di più!
PRESIDENTE. Vada pure avanti, senatore
Castellani.
CASTELLANI (Mar-DL-U). Signor Presidente,
le ripeto che due minuti non mi bastano.
PRESIDENTE. Lei vada avanti.
CASTELLANI (Mar-DL-U). Tutto ciò
comporta l'acuirsi di conflitti, il rischio di una vera rottura della solidarietà
nazionale.
Oggi si parla molto di Patria e di Patrie
e se ne parla in rapporto allo Stato. Infatti, nel momento in cui viviamo
una forte internazionalizzazione dei nostri problemi, si parla di molte
Patrie che, però, possano avere una composizione in un unico Stato.
Il vero federalismo, infatti, sta proprio nel prevedere la coesione di
molte Patrie e di molte identità all'interno di uno Stato.
Con questo progetto invece,rischiamo di
avere molte Patrie e molti Stati, rischiamo quindi una rottura forte della
solidarietà nazionale, dello Stato-Nazione come l'abbiamo vissuto
fino adesso.
Per quanto riguarda la forma di governo,
si prevede il cosiddetto Premierato forte, si pone il rapporto tra elezione
dei rappresentanti e scelta del Premier attraverso una sostanziale elezione
diretta, sminuendo il ruolo del Presidente della Repubblica.
Si dice che, in questo disegno, a un Governo
forte corrisponde un Parlamento forte: questo non è vero, il rapporto
che viene ipotizzato è tutto a svantaggio del Parlamento. Come si
può controllare, stimolare il Governo, quando il Parlamento, la
Camera politica è sotto il ricatto dello scioglimento da parte del
Premier?
Qui viene in luce una diversa concezione
della democrazia, viene in rilievo una concezione meramente formale della
democrazia, che è quella del pensiero liberale. In molti si riconducono
a Popper quando dice che sta nella scelta del Governo, o meglio nel suo
cambiamento, il valore essenziale della democrazia. Io credo che oggi questo
non basti, che non basti più questa visione meramente formale della
democrazia concentrata tutta sulla formalità delle elezioni, che
pure è essenziale; non basta perché, tra un'elezione e l'altra,
la democrazia deve diventare partecipazione, momento di controllo e di
stimolo continuo, quotidiano, non già ogni cinque anni. Non basta
la delega, occorre che vi sia il momento forte del controllo e della partecipazione
che, nelle democrazie di oggi, si realizza soprattutto attraverso un Parlamento
forte, oltre che attraverso l'autonomia della società civile.
Ma come può il Parlamento esercitare
questo suo ruolo se è sotto ricatto, se non può liberamente
esercitare questo ruolo in una dialettica tra Esecutivo e Parlamento, che
è garanzia reciproca di rispetto dei propri ruoli? Per una democrazia
della partecipazione non meramente formale, è essenziale il ruolo
del Parlamento e la riforma che viene proposta non assicura la libertà
del Parlamento e la sua dialettica democratica.
Occorre poi aggiungere, signor Presidente,
che tutto questo avviene perché non si è scelto tra presidenzialismo
e parlamentarismo. Si è fatto un ibrido, che è il peggio
dell'uno e dell'altro, perché il Premier è forte, ma non
ci sono i contrappesi (come giustamente veniva ricordato da qualche collega);
il Parlamento c'è, ma è sotto ricatto permanente del Premier
o di una minoranza di parlamentari della maggioranza che possono impedire
la sfiducia costruttiva.
Si introduce un meccanismo con il quale
i parlamentari dell'opposizione non hanno alcun ruolo: contano meno degli
altri, non perché sono di meno, ma perché sono ricondotti
ad un recinto, quello dell'opposizione, che non possono valicare, con un
vincolo di mandato, quindi, che non ha precedenti e che impedisce una libera
dialettica parlamentare.
Insomma, non si è imboccata la
strada vera del presidenzialismo: basti pensare agli Stati Uniti d'America,
dove il Presidente non può sciogliere certamente il Parlamento;
qui invece si ricorre a una via di mezzo, che nulla prevede in termini
di reali garanzie. Dove sta lo statuto dell'opposizione? Che ruolo ha il
Presidente della Repubblica, che è ridotto a una funzione meramente
notarile?
Vi è poi la questione del superamento
del bicameralismo (e cerco di chiudere). Si parla del passaggio da un bicameralismo
perfetto a un bicameralismo «imperfetto», rispetto al quale
la stessa parola la dice lunga: fare le leggi diventerà una corsa
a ostacoli.
Vi è poi l'ultima questione. All'articolo
127 viene introdotto il cosiddetto interesse nazionale, che dovrebbe essere
il fiore all'occhiello di Alleanza Nazionale, ma certamente viene introdotto
in un contesto molto diverso. L'interesse nazionale può essere richiamato
dal Governo senza limiti, e allora perché federalismo? Come può
la Lega accettare questa introduzione e veder vanificare i suoi sforzi?
È tutto e niente. Dove sono le garanzie per le Regioni che un Governo
con una determinata maggioranza non invada le loro competenze e che si
applichi il principio dell'interesse nazionale per ragioni politiche? Dove
sono queste garanzie? Un Governo… (Il microfono si disattiva automaticamente).
PRESIDENTE. Senatore Castellani, sono
undici minuti che lei parla, ne aveva sei, mi dica che debbo fare.
CASTELLANI (Mar-DL-U). Ne avevo ben di
più, signor Presidente, comunque pazienza.
PRESIDENTE. Concluda la frase, almeno.
CASTELLANI (Mar-DL-U). Avevo almeno quindici
minuti.
PRESIDENTE. Prego, concluda la frase.
CASTELLANI (Mar-DL-U). Dove sono le garanzie
e gli strumenti? Non dovrebbero bastare le leggi cornice nelle materie
concorrenti a difendere l'interesse nazionale?
La verità è che senza un
coerente disegno complessivo, questa riforma è il risultato degli
apporti più svariati da parte delle componenti del centro-destra.
Ne risulta una specie di vestito d'arlecchino che non sta coerentemente
in piedi, ma del resto è proprio questo; questa maggioranza, federalista
solo a parole, è la più centralista in assoluto, com'è
dimostrato dalla recente sentenza della Corte costituzionale.
Tutto ciò avviene nel disinteresse
generale; il senso di estraneità rispetto a questo disegno che si
avverte nel Paese lo conferma. Un senso di estraneità che è
anche un rifiuto di questa politica e di questa maggioranza e la prossima
primavera lo evidenzierà. Mi auguro con tutta la forza necessaria
che gli elettori lo sapranno dimostrare. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U
e DS-U).
PRESIDENTE. E' iscritto
a parlare il senatore Maconi. Ne ha facoltà.
MACONI (DS-U). Innanzitutto credo
che, come abbiamo già ammesso, abbiamo sbagliato, sul finire della
scorsa legislatura, ad approvare la riforma del Titolo V della Costituzione
con una stretta maggioranza.
Certo, era una riforma molto più
limitata rispetto all'attuale e avevamo non voglio dire giustificazioni,
ma attenuanti derivanti dal fatto che c'era stato un lungo lavoro condiviso
nella Commissione bicamerale e che in pratica tutte le Regioni erano d'accordo
su quelle modifiche. Tuttavia, l'errore ci fu, e il timore di tanti di
noi che di quell'errore la futura maggioranza, cioè l'attuale, avrebbe
approfittato si è dimostrato purtroppo fondato.
Solo che nemmeno io, signor Presidente,
avrei pensato che l'arroganza di questo Governo potesse arrivare fino a
questo punto: a modificare ben 45 articoli della Costituzione, avendo praticamente
ignorato qualsiasi possibilità di confronto all'interno del Parlamento.
Questo però non mi sorprende perché,
leggendo la nuova Costituzione, risulta evidente che è il risultato
di faticosi compromessi, di giochi di ricatto intrecciati all'interno della
maggioranza. Non si tratta, quindi, di una riforma costituzionale disegnata
sulla base degli interessi generali del Paese, ma essa rispecchia le divisioni,
gli interessi particolari, gli interessi di parte di ogni singola componente
di questa maggioranza. E' quindi una riforma incoerente che provocherà
risultati negativi per il funzionamento delle istituzioni del nostro Paese.
Questo è evidente se andiamo, sia pure sinteticamente, al merito.
Intanto c'è una rottura degli equilibri
istituzionali; i rapporti tra il Presidente del Consiglio e il Parlamento
sono squilibrati, a tutto vantaggio del primo. Viene quasi da dire che
siamo più in presenza di un rapporto tra consiglio d'amministrazione
e amministratore delegato; il Parlamento viene svuotato e marginalizzato,
il ruolo del Presidente della Repubblica - è già stato sottolineato
- viene svuotato anch'esso e ridotto a una figura di rappresentanza poco
più che simbolica.
La Corte costituzionale, forse per una
punizione preventiva, è stata anch'essa sottomessa al volere politico;
ne risulta, quindi, una rottura dell'equilibrio istituzionale, dove c'è
un predominio pressoché unilaterale del potere politico, mentre
tutti gli altri poteri che dovrebbero servire da controllo e da controaltare
ne sono sminuiti. Questo in virtù di una visione decisionista che
vede nelle istituzioni non il luogo del confronto, ma il luogo dove chi
vince ha il dritto di prendersi tutto e non di governare, ma quasi di comandare.
In secondo luogo, viene compromesso anche
il tessuto unitario e di solidarietà del Paese. Molti colleghi l'hanno
ricordato. La devolution, così come è disegnata, non è
improntata ad un decentramento e ad un federalismo - se vogliamo usare
un termine che abbia connotazione solidale - quale quello che noi avevamo
impostato. Emerge invece un egoismo di carattere localistico, nonché
la possibilità e il rischio che questioni fondamentali, legate all'organizzazione
della sanità, della scuola e della polizia locale, non rispecchino
più i princìpi dell'universalità e dell'uguaglianza
dei cittadini di fronte all'esercizio di diritti fondamentali, quanto piuttosto
divisioni territoriali che rendono i cittadini diversi a seconda della
loro appartenenza territoriale.
Si dice anche che viene modificata la
Parte II della Costituzione, mentre non viene intaccata la Parte I. In
realtà, mettendo mano a queste tre questioni fondamentali, rompendo
l'unicità e l'universalità dei servizi e quindi la tutela
e la garanzia dei diritti dei cittadini, si mette mano anche a princìpi
fondamentali che appartengono alla I parte della Costituzione. Anche per
questa strada la riforma della Costituzione si presenta non come un rimaneggiamento
o un ritocco, ma come uno stravolgimento che intacca princìpi fondamentali.
Anche rispetto alla questione relativa
al privato sociale, lo ricordava il collega D'Onofrio sostenendo che si
è esaltato il valore dell'iniziativa privata e si è ridotto
lo statalismo, vorrei ricordare che l'articolo 118 della Costituzione fu
modificato da noi. Il principio della sussidiarietà, infatti, fu
introdotto da noi. La modifica che si introduce nell'attuale testo costituzionale
sembra invece rispondere ad un altro principio che non è tanto quello
della sussidiarietà quanto quello della visione di uno Stato minimo,
che si ritrae dall'esercizio dei diritti fondamentali dei cittadini e che
consegna maggiormente all'iniziativa privata la garanzia e la tutela della
solidarietà.
È una visione che non può
starci bene. Credo che vada invece ribadito, come fondamentale, il primato
del ruolo pubblico che certamente si deve integrare con quello della sussidiarietà,
ma che non può in alcun modo essere sostituito dall'iniziativa privata.
Anche questo contribuirebbe a minare profondamente il principio dell'universalità
e dell'uguaglianza dei cittadini.
Signor Presidente, avviandomi alla conclusione,
credo che in quest'Aula non vi sia il clima proprio dell'importanza di
una riforma costituzionale. I banchi della maggioranza sono vuoti, a testimonianza
del fatto che non c'è alcuna volontà di confronto. Qui si
aspetta soltanto l'ora finale, il momento del voto, magari in attesa di
qualche sceneggiata o dell'arrivo di qualche personaggio ripreso dalla
televisione.
Manca lo spirito fondamentale che deve
improntare una riforma della Costituzione, quello cioè della discussione,
del confronto, della partecipazione e del coinvolgimento. Purtroppo questa
discussione avviene anche in un relativo vuoto di attenzione da parte dei
cittadini. Credo che sia nostro compito colmare questo vuoto. Ce ne faremo
carico in occasione dell'organizzazione e della promozione del referendum
che - ne sono sicuro - porterà alla bocciatura di questa riforma
della Costituzione.
Infine, credo che vi sarà anche
la possibilità di toglierci una piccola soddisfazione. In questo
ultimo scorcio di legislatura si stanno predisponendo molte leggi nell'idea
di favorire una parte contro gli interessi dell'altra parte presente in
Parlamento. Mi riferisco alla legge elettorale, alla riforma della Costituzione,
in particolare con il predominio del Premier rispetto al Parlamento.
Ebbene, credo che oltre alla soddisfazione
che ci toglieremo con la vittoria nel referendum, un'altra piccola soddisfazione
sarà data da una sorta di nemesi legata al fatto che la maggioranza
ha pensato a queste leggi per favorire se stessa, mentre gli elettori la
smentiranno e, purtroppo per voi, di questi benefici potremo usufruirne
noi, considerato che i cittadini utilizzeranno le elezioni della prossima
primavera e il referendum per bocciare sia il vostro disegno politico sia
quello di riforma costituzionale. (Applausi dal Gruppo DS-U).
PRESIDENTE. È
iscritta a parlare la senatrice Baio Dossi. Ne ha facoltà.
BAIO DOSSI (Mar-DL-U). Signor Presidente,
la riforma costituzionale è giunta al suo vaglio finale e credo
che sia fondamentale soffermarci su alcune riflessioni prima di entrare
nel merito.
Innanzitutto, stiamo modificando parecchi
articoli (cinquanta, e ne vengono aggiunti anche tre), quindi è
una modifica radicale. Certo, sono modifiche della II parte della Costituzione,
anche se poi cercherò di entrare nel merito almeno di un aspetto,
quello sanitario, che mi interessa specificatamente anche per l'argomento
che affronto solitamente nei lavori del Senato.
Il provvedimento in esame modifica la
II parte della Costituzione ma, di fatto, anche alcuni princìpi
fondamentali del patto tra cittadini. Un patto che è tra cittadini
e generazioni, e credo che queste due definizioni siano tra le più
belle della nostra Costituzione; un patto che però viene impoverito
e dimezzato da questa riforma.
Viene sostanzialmente rinnegato lo spirito
dei Padri costituenti, ma questo non è un atteggiamento nostalgico,
non è che vogliamo mantenere lo status quo, assolutamente.
Voglio ricordare due fatti che hanno caratterizzato
il 22 dicembre del 1947, non perché siamo in un'Aula in cui è
necessario ricordare la cronaca storica, ma perché la storia e anche
quei fatti ci devono insegnare qualcosa.
Innanzitutto, la Costituzione allora è
stata approvata con 453 voti favorevoli e 62 contrari; i numeri alcune
volte sono importanti, e in questo caso sono importantissimi per dimostrare
quanto essa sia stata interpretata, scritta, pensata e poi votata, vuol
dire condivisa, dalla maggioranza degli eletti dal popolo.
Voglio però ricordare anche un
altro fatto, sperando che in queste ultime ore di dibattito, perché
siamo in quarta lettura, si recuperi un po' quello spirito positivo e propositivo
che vi è stato allora.
Si legge nelle cronache di quel giorno
che il pubblico ha fatto la fila per ore per entrare nel Palazzo di Montecitorio;
quando sono state aperte le porte le tribune si sono riempite del popolo,
un popolo che aveva dentro di sé tutta la speranza di una Carta
in cui si riconosceva. Dopo la votazione il Presidente ha proclamato solennemente:
«L'Assemblea approva la Costituzione della Repubblica italiana»,
e in quell'istante è scattato un momento di festa: è stato
fatto suonare l'Inno di Mameli, si è riempita la sala, ha suonato
il campanone di Palazzo Montecitorio e, ancora, sono state accese le luci
sulla facciata del Palazzo di Montecitorio, proprio per comunicare a coloro
che erano rimasti fuori che si era compiuto un momento importante. Un momento,
se vogliamo, che ha portato una luce nuova per tutte le donne e gli uomini,
e voglio ricordare soprattutto le donne, che avevano votato per la prima
volta nel 1946 e che finalmente vedevano una democrazia in cui si potevano
riconoscere meglio e di più rispetto al passato.
Si tratta di una cronaca importante, cioè
la condivisione della Costituzione sia dentro l'Aula, sia fuori, princìpi
che sono stati ricordati, anche se sommariamente, dal collega Castellani.
Ma dalla cronaca voglio venire alla Costituzione di oggi, a questa modifica
che oggi è alla nostra attenzione, ricordando le parole di uno dei
Padri costituenti: Dossetti, un uomo in cui mi riconosco profondamente
e il cui pensiero credo sia ancora oggi molto attuale.
Dossetti, che era stato un Padre costituente,
afferma - poi lascerò il testo integrale del mio intervento - che
sostanzialmente la Costituzione non può e non deve essere letta
solo come il frutto di una battaglia antifascista, di un ideale o di un'ideologia
antifascista; la Costituzione era qualcosa di più. Del resto, Dossetti
ce lo ha detto anche pochi anni fa, poco prima di morire.
Egli, che ha dato tanto a quel testo costituzionale,
ha affermato che la Costituzione italiana del 1948 si può ben dire
nata da questo crogiolo ardente e universale, più che dalle stesse
vicende italiane del fascismo e del post-fascismo, più che dal confronto-scontro
di alcune ideologie importanti, ma pur sempre ideologie. Questa Costituzione,
che resterà in vigore ancora per alcune ore, porta l'impronta di
uno spirito universale e in un certo senso anche transtemporale; è
la Costituzione che vive ancora oggi, dopo quasi sessant'anni.
Mi permetto di fare un'osservazione sulla
riforma che proponete, con umiltà, perché non sono un'esperta
costituzionalista, ma, essendo stata eletta dal popolo, voglio cercare
di interpretare la profonda crisi che stiamo vivendo e tentare di offrire
un contributo.
Voi che rappresentate la maggioranza del
2001 non avete accolto la nozione storica, ma anche fortemente etica, che
ci deriva dal passato. Non avete accolto le nostre proposte, che non sono
di parte, ma derivano da un altro pezzo di cultura che c'è dentro
questa società e che non può e non deve essere dimenticata,
se si vuole riscrivere una parte della nostra Costituzione.
Oltre a questa chiusura, avete messo in
evidenza anche un'affermazione; avete voluto affermare con la forza dei
numeri una concezione liberistica della democrazia. Peccato, perché
questa democrazia è in crisi, e lo riconosciamo tutti. Anche noi,
quando siamo stati eletti nel 2001, sapevamo che questa sarebbe stata una
legislatura costituente, nel corso della quale sarebbe stato necessario
modificare una parte della Costituzione, però non ci saremmo immaginati
questo atteggiamento da parte vostra.
Vorrei offrire alcuni spunti di riflessione
sul tema di cui mi occupo all'interno del Senato, la sanità. Il
progetto che l'attuale maggioranza vuole approvare genera purtroppo molta
confusione e non risponde più ai principi fondamentali della I parte
della Costituzione. Cercherò di dimostrare questa affermazione.
Nell'articolo 117 si eliminano le materie
di competenza concorrente, cioè quelle in cui le Regioni legiferano,
ma lo fanno in un quadro di riferimento e di coerenza di cui è garante
lo Stato. Dovremmo invece essere garanti noi, cittadini eletti dal popolo.
Si eliminano quindi le materie su cui le Regioni dovevano legiferare in
base ai principi stabiliti dallo Stato e si trasferisce alle Regioni l'esclusiva
competenza in materia di scuola, di sanità e di polizia locale.
Quando si parla di scuola e di sanità
non si parla di diritti banali, di piccoli diritti, ma si parla di quei
princìpi e di quei valori che ci hanno permesso (richiamando il
principio universale e transtemporale cui faceva riferimento Dossetti)
di essere testimoni viventi nel mondo grazie alla Carta costituzionale.
Con questa riforma l'assetto sanitario
subirà invece un regresso, non solo e non tanto dal punto di vista
costituzionale e legislativo, sicuramente importante, ma anche e soprattutto
per ciò che concerne il servizio offerto al cittadino nella sua
concretezza. Oggi le Regioni hanno forti competenze, nel quadro degli indirizzi
generali stabiliti dallo Stato, sulle gestioni delle politiche di cura
e di assistenza.
Ho ricordato all'inizio i princìpi
fondamentali. C'è un articolo, l'articolo 32, che non viene cancellato,
ma resta lettera morta, è come se non esistesse più. Infatti,
rischiamo di mettere in atto - lo pavento come rischio, ma può diventare
davvero una certezza che può compromettere tutti noi, non come singoli
cittadini ma come comunità che deve riconoscersi in questa Carta
- 21 spettri di applicazione del diritto alla salute e alla cura e del
diritto all'istruzione, due elementi fondamentali del nostro essere cittadini
italiani.
Immagino che anche voi abbiate ascoltato
i cittadini nelle varie Regioni d'Italia che vi hanno chiesto di tutelare
questo diritto, ma anche di armonizzarlo ed uniformarlo, perché
il rischio era proprio la mancanza di armonizzazione e di uniformità.
La riforma al nostro esame offre da questo
punto di vista una risposta contraddittoria e banale, in quanto è
semplicistico delegare alle Regioni poteri assoluti senza considerare princìpi
fondamentali come il diritto alla salute e il diritto all'istruzione.
Capisco che c'era bisogno di una riforma
dopo quella del 2001, in cui magari non vi siete riconosciuti; c'era bisogno
della riforma fiscale, perché non è possibile dare un potere
assoluto - come state facendo voi - senza una autonomia dal punto di vista
finanziario che è essenziale per garantire i diritti ai cittadini,
soprattutto a quelli più deboli. Oggi in Piazza Montecitorio erano
presenti tutte le associazioni dei genitori delle persone disabili, che
rivendicavano con molta dignità questo diritto, ma elemosinavano
di essere ricevuti dalla maggioranza: ma dove sono le autonomie sociali
citate nell'articolo 117 della Costituzione?
La riforma è anche contraddittoria
perché mette in atto un concetto contorto e non chiaro, dove non
si capisce chi deve fare che cosa: lo faranno le Regioni, lo farà
lo Stato? Rischiamo di generare confusione su due diritti essenziali.
Una confusione ed una incertezza che non
danno risposta alla crisi evidente e consapevole della democrazia, quella
di cui tutti siamo testimoni. La democrazia, invece, è colloquio
in ogni luogo sociale, un colloquio nella sua istituzione fondamentale,
il Parlamento: la responsabilità educativa del Parlamento soverchia
di gran lunga quella di ogni altra istituzione, perché rispecchia
il pluralismo sociale e culturale della Nazione e non può essere
ridotta ad uno stadio dove si affrontano rabbiosamente due squadre di giocatori,
peraltro di numero impari. Queste non sono mie parole, ma di una persona
che è stata un alto giurista ed anche presidente della Corte costituzionale,
Casavola.
A mio parere, serviva almeno un minimo
di concetto di limite: di fronte alla crisi della democrazia avremmo dovuto
rispondere, magari in modo insufficiente, ma comunque rassicurante per
i nostri cittadini.
Concludo ricordando le parole di un uomo,
che è stato Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat «Fate
che il volto di questa Repubblica sia un volto umano. La democrazia non
è soltanto un rapporto fra maggioranza e minoranza, non è
soltanto un armonico equilibrio di poteri sotto il presìdio di quello
sovrano della Nazione, ma è soprattutto un problema di rapporti
fra uomo ed uomo. Dove questi rapporti sono umani, la democrazia esiste,
dove sono inumani, essa non è che la maschera di una nuova tirannide
e i cittadini non vogliono sopportare un'altra tirannide».
È per questo che ricorreremo al
referendum.
Chiedo, infine, di allegare agli atti
il testo integrale del mio intervento. (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e
DS-U. Congratulazioni).
PRESIDENTE. La Presidenza l'autorizza
in tal senso, senatrice Baio Dossi.
È iscritto
a parlare il senatore Legnini. Ne ha facoltà.
LEGNINI (DS-U). Signor Presidente,
signor Ministro, onorevoli colleghi, quella che ci accingiamo a concludere
è una discussione che dura, in sede parlamentare, da ormai oltre
due anni, nel corso della quale ciascuna delle coalizioni e ciascuno dei
Gruppi ha avuto modo di esprimere le proprie valutazioni e posizioni, illustrando
argomentazioni politiche e di merito di ogni genere.
Non voglio, pertanto, ripetere le motivazioni
addotte in ogni fase della discussione da autorevoli colleghi della mia
parte politica, che hanno dimostrato con dovizia di argomentazioni giuridico-costituzionali
che questa riforma è gravissimamente dannosa per il nostro Paese,
perché colpisce al cuore quell'ordinamento statale, quell'organizzazione
e bilanciamento dei poteri centrali, regionali e locali che ci hanno consentito
di essere fieri della Carta fondamentale del nostro Stato, dei princìpi,
dei valori, delle garanzie che, anche nei momenti più duri ed oscuri
della storia repubblicana, hanno consentito di preservare il nostro sistema
democratico.
E neanche mi illudo, nessuno di noi si
illude, che voi vogliate prestare ascolto, dopo anni caratterizzati da
sordità assoluta, al nostro grido di dolore per la gravissima ferita
che state producendo alla vita democratica del nostro Paese e tanto meno
sono, siamo, ingenui da ritenere che appelli di qualsivoglia genere, peraltro
efficacemente ripetuti in quest'Aula, possano farvi ravvedere.
Voglio limitarmi ad un compito più
modesto, ma per me importante, che è quello di farvi semplicemente
osservare che voi, Governo, maggioranza, singoli parlamentari consenzienti
su questo non commendevole articolato costituzionale, non potrete vantarvi,
non potrete andar fieri del principale esercizio della più alta
funzione parlamentare, quella di aggiornare, innovare, adeguare la Carta
Costituzionale, presidiata, come è noto, dal procedimento complesso
e garantista dettato dai nostri Padri costituenti a tutela della mutevolezza
delle maggioranze, del rischio di approssimazione riformatrice, della volontà
di attuare colpi di mano, come voi state facendo, all'atto dell'esercizio
del potere di modifica della, per me, sacra Costituzione.
Non potrete essere fieri di aver profuso
le vostre energie e di aver prestato il vostro voto, perché innanzitutto
avete platealmente tradito il primo, in termini di importanza, principio
che la Costituzione si incaricò di affermare, e cioè che
la sua rigidità non costituiva una declinazione della voglia di
conservatorismo, ma un impegno solenne a non toccare, se non in nome del
popolo italiano, della volontà del popolo italiano che non può
che esprimersi attraverso una larga base parlamentare, i princìpi
fondanti del nostro consesso civile, della nostra comunità, che
non sono soltanto quelli scanditi nei princìpi fondamentali e nella
I parte della Costituzione, che sono stati e sono l'angelo custode, il
lievito delle libertà e dei diritti dei cittadini italiani, ma anche
quelli contenuti nella II parte della Costituzione.
L'organizzazione della Repubblica prefigurata
dal Costituente repubblicano non era una delle tante modalità di
assetto dei poteri possibili, ma era la modalità concreta di garantire
l'equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, una costruzione che poteva,
potrà, essere adeguata al mutato contesto politico nazionale ed
internazionale, ma non poteva e non può esser demolita proprio in
quelle parti che più furono a cuore dei Costituenti: e cioè
quei presidi di garanzia costituzionali felicemente organizzati, quegli
argini all'arbitrio del Governo, della maggioranza parlamentare, quegli
antipodi ad ogni rischio di prevaricazione di un poter sull'altro, ad ogni
tentazione di autoritarismo.
Non potrete andare fieri di questa pessima
riforma, perché essa non prefigura affatto, come andate stancamente
sostenendo, uno Stato migliore, un'organizzazione dei poteri centrali più
efficiente, una distribuzione di potestà legislativa e di funzioni
di governo tra centro e periferia più corrispondente agli interessi
e alle aspettative dei cittadini.
No! Non potete vantarvi, come inutilmente
tentate di fare rimanendo inascoltati dai cittadini italiani, di aver prefigurato,
a mezzo della riforma della Costituzione, una democrazia più matura
e consapevole, più predisposta all'ascolto della volontà
popolare e all'esercizio di un governo più vicino ai bisogni dei
cittadini.
No! Voi state facendo mercimonio, il contrario
di quella felice sintesi di culture diverse che si determinò nell'Assemblea
costituente, mercimonio di princìpi e scelte tra loro contrapposte
che non funzioneranno, che renderanno il procedimento legislativo pressoché
ingestibile, il conflitto (non la cooperazione) fra Stato e Regioni immanente,
che annulleranno quel potere di garanzia ed equilibrio del Capo dello Stato,
che affievoliranno quell'indipendenza e autorevolezza del massimo organo
di controllo giurisdizionale, quella Corte Costituzionale la cui alta funzione
nessuno mai aveva osato attenuare o indebolire.
Voi state tentando di costituire uno Stato
più autoritario, rafforzando i poteri centrali dello Stato e delle
Regioni. Altro che devoluzione, federalismo, sussidiarietà! I territori,
le autonomie locali, le formazioni sociali, i cittadini non avranno più,
come oggi, livelli di governo tra loro sovraordinati e dialoganti. No!
Avranno due poteri centrali, quello statale e quello regionale, con meno
garanzie; due padroni, arbitri del loro destino.
E' proprio brutta questa riforma. E i
rischi di autoritarismo e di svilimento del ruolo del Parlamento, che riassume
la volontà popolare, sono oggi enfatizzati dal combinato disposto
dell'enorme rafforzamento dei poteri del Primo ministro, contenuto nel
vostro progetto di riforma costituzionale, e del brutto sistema elettorale
che state per imporre al Parlamento e al popolo italiano, sistema che si
pone peraltro in aperto contrasto con i princìpi maggioritari di
cui avete intriso la nuova organizzazione statale prefigurata in questa
riforma.
I partiti scelgono i parlamentari (ai
cittadini non sarà più dato neanche decidere chi deve rappresentarli),
i partiti (non più il Presidente della Repubblica, non più
il Parlamento) scelgono il Primo ministro. Il Primo ministro, se e quando
i propri parlamentari non vorranno più obbedire, potrà mandarli
a casa, potrà sciogliere il Parlamento. Di conseguenza, una persona,
nella migliore delle ipotesi poche persone, saranno i titolari, gli arbitri
non solo del Governo, ma anche del Parlamento e della volontà popolare.
A cosa somiglia questo sistema che andate
prefigurando? Ad una democrazia moderna, efficiente, dialogante, vicina
ai cittadini, o invece ad un regime autoritario? Non potrete certo vantarvi,
dovrete arrossire di fronte al popolo italiano e alla storia.
Nei banchi di scuola, nelle università,
in ogni luogo di formazione, in ogni istanza di esercizio della democrazia,
quando si parlava e si parla di Costituzione, di quella vigente, si respirava
e si respira il profumo di quei principi costituzionali che hanno formato
la coscienza democratica di diverse generazioni. Noi ci sentiamo orgogliosi
di appartenere alla casa costruita dai nostri Padri costituenti. Benedetti
i nostri Padri costituenti!
Voi oggi tentate di rovinare, di demolire
quella casa cara ai cittadini italiani. Dovremo essere noi, i cittadini
italiani, a difenderla da questo attacco per poi poterla più meditatamente
ristrutturare e rinnovare. Non ci avete voluto ascoltare. Ora la parola
passa al popolo italiano, che è più saggio e consapevole
di quanto voi possiate immaginare. (Applausi dal Gruppo DS-U).
Presidente. E' iscritta
a parlare la senatrice Soliani. Ne ha facoltà.
SOLIANI (Mar-DL-U). Signor Presidente,
signor rappresentante del Governo, colleghi senatori, ciò che sta
accadendo in queste ore nell'Aula del Senato in realtà è
già accaduto. È l'ultimo atto di una storia già scritta.
Tuttavia, ciò che sta accadendo ora sarà cancellato tra pochi
mesi dal popolo italiano e si aprirà un nuovo ciclo della Repubblica:
la primavera democratica dopo l'inverno rigido che il centro-destra ha
fatto calare sulla democrazia del nostro Paese.
Questa è l'ultima tappa parlamentare,
ma non sarà l'ultima parola sulla Costituzione italiana. L'ultima
parola sarà quella dell'unico sovrano, il popolo, che cancellerà
questo testo e la maggioranza che, da sola, l'ha scritto e votato. Un popolo
che non è, come qualcuno continua a pensare, un semplice spettatore
di fronte al proprio destino.
Questo è oggi il luogo, lo spazio
politico in cui ci troviamo, tra lo stravolgimento che si sta portando
a compimento e l'attesa di un referendum che lo boccerà. Viene in
mente il Qoèlet: «C'è un tempo per ogni cosa sotto
il sole ». Questa è l'ora in cui si scardina l'architettura
democratica dello Stato e si mutano i suoi equilibri; si perde la semplicità
e si mina l'efficacia della Carta costituzionale.
L'architettura democratica è sbilanciata,
anzi sbilenca, non più in equilibrio, e il disequilibrio dei poteri
riduce la libertà, l'espressione dei bisogni e degli interessi,
lo spazio della partecipazione, della trasparenza e della mediazione, a
cominciare dall'insignificanza del Parlamento e perciò del popolo
italiano nei processi decisionali del Paese.
È qui colpito il punto basilare
della democrazia, quella nata 2.500 anni fa ad Atene, nel cuore del Mediterraneo.
Pericle affermava, secondo il resoconto di Tucidide: «Abbiamo un
ordinamento politico che non imita quello dei vicini; lungi dall'imitare
altri, siamo noi d'esempio. Il suo nome è democrazia o governo del
popolo perché il governo è affidato a molti e non a pochi».
Qui oggi siamo sulla strada dell'oligarchia.
La Carta costituzionale perde la sua semplicità, quell'essenzialità
che ne assicura la durata. Voi, colleghi della maggioranza, da tempo avete
perso il tempo dell'essenziale, cioè l'idea del bene comune.
Qui emerge la verità di un'intera
legislatura: l'interesse di pochi, anzi di uno solo, contro l'interesse
della democrazia, che è lo spazio di tutti. Nelle mani di uno solo
si restringe il potere che chiede, invece, di essere distribuito, effettivamente,
tra molti. Questa asimmetria che travolge i princìpi di unità
e di uguaglianza lascia il posto alla divisione e al prevalere degli uni
sugli altri e indebolisce gli organi di garanzia, in primis il Presidente
della Repubblica e la Corte costituzionale. Non è l'armonia istituzionale,
ma è il disordine.
È qui che fallisce anche l'efficacia
della Carta costituzionale; le cose funzioneranno assai peggio e non meglio,
perché qui regnano sovrane la confusione, la sovrapposizione e la
rigidità che genereranno paralisi.
Si parla di devoluzione, ma in realtà
intanto si pratica il centralismo. Cito un solo esempio, denunciato ieri
a Parma dalla terza Conferenza del bacino del Po: lo schema di decreto
legislativo sulle norme in materia ambientale cancella, per quanto riguarda
il Po, le autorità di bacino, la partecipazione degli enti e dei
soggetti interessati ai processi di governo dell'acqua, la consultazione
delle parti sociali, colpendo a morte la rete della governance con le comunità
locali.
In questa alterazione dell'impianto costituzionale,
la scuola cessa di essere uno dei fondamentali fattori dell'unità
nazionale. Non è neppure più chiamata con il suo nome sostanziale:
è «organizzazione scolastica», cioè un fatto
meramente organizzativo; affidata alle Regioni, non è più
una, perché vi sono venti sistemi regionali diversi.
Non vi è più uguaglianza
delle opportunità per tutti fin dai primi anni; non vi è
più diritto universale all'istruzione. È l'esplosione delle
differenze sociali. Mi chiedo dov'era il ministro Moratti? Non è
mai stata pronunciata una parola sulla devoluzione della scuola alle Regioni,
anzi il Consiglio dei ministri l'ha approvata irresponsabilmente. Un tempo
era «cuius regio, eius religio»; ora è «cuius
regio, eius educatio», cioè l'istruzione non è più
uguale per tutti, ma cambia a seconda della Regione in cui ci si trova.
Colpita nel suo fondamento costituzionale,
nella sua missione civile, la scuola vede prosciugata la sua autonomia,
cioè la sua libertà. Infatti, sotto il potere di un assessore
regionale anche l'autonomia delle istituzioni scolastiche è messa
a dura prova.
Resta salva nel testo, grazie ad un emendamento
presentato dall'opposizione, l'autonomia delle istituzioni scolastiche.
Ben altro respiro avrebbe questa autonomia se fossero forti il contesto
dell'unità nazionale ed il dialogo con le Regioni e le autonomie
locali: solo in questo contesto, che è quello della solidarietà,
sarebbe possibile costruire quel sistema nazionale autonomo delle istituzioni
scolastiche che ne assicurerebbe la terzietà rispetto alle altre
istituzioni e agli stessi schieramenti politici, cioè ne assicurerebbe
libertà e responsabilità.
È in gioco l'idea di comunità
autonoma, ma con essa è in gioco l'idea stessa di comunità;
se ne è persa la nozione. Si parla di devoluzione e non si rispetta
nessuno: non la scuola, che ricordo è comunità di studenti,
insegnanti, famiglie, protetta dagli articoli 33 e 34 della Costituzione;
non le Regioni e le autonomie locali, ridotte a casse - peraltro magre
- da saccheggiare, come ha ben visto la recente sentenza della Corte costituzionale
dichiarando l'illegittimità del decreto del 2004 sul contenimento
delle spese pubbliche.
Signor Presidente,colleghi senatori, questo
testo non è la nuova Costituzione degli italiani. È lo sgorbio
di quello che era un disegno delle istituzioni; è la rottura di
un patto che ha unito il popolo alle istituzioni e che non è stato
- come ha affermato Giuseppe Dossetti - un qualunque compromesso.
Questo è un grande inganno del
popolo italiano. È l'apertura di un vaso di Pandora da cui usciranno
mostri: il diritto civile travolto dalle diverse legislazioni regionali,
il contenzioso moltiplicato, le discriminazioni non solo di genere o di
razza, ora anche di Regione.
Questa operazione, maldestra e truffaldina,
è soltanto un pasticcio, un coacervo di incompetenza e di cinismo,
l'ennesimo scambio all'interno della maggioranza per tentare di sopravvivere.
Quando tutto sarà concluso, non
resterà che il ricorso al giudice ultimo di ogni cosa, il popolo
italiano. Saranno i cittadini allora a riprendere in mano, dal fango e
dalle macerie in cui l'avete trascinata, la bandiera della Costituzione
italiana, innalzata sessant'anni fa dalla Resistenza prima e dall'Assemblea
costituente poi, quando le donne e gli uomini di quella stagione raccolsero
in quel testo ciò che allora restava, nella coscienza dei sopravvissuti
dopo la grande tragedia: il senso della dignità dell'uomo e della
sua libertà, l'orizzonte della democrazia, della solidarietà
senza confini, della pace. Parole e sostanza scritte con il sangue.
Voi tentate di abbattere ora quell'architettura
e quel disegno perché già ne avete smarrito il senso, la
cultura, la memoria. Tutta questa legislatura lo dimostra, dall'inizio
del falso in bilancio a questo sinistro trittico finale: devoluzione, legge
elettorale, par condicio, l'una di volta in volta sovrapposta, intrecciata,
in contrasto con l'altra.
Vedete, per essere rappresentanti del
popolo in Parlamento non basta fare numero: bisogna saperne interpretare
storia e prospettiva. Non siete riusciti a farlo né per l'una, né
per l'altra. Non state dicendo nulla ai giovani.
Ora il vostro tempo sta scadendo e con
voi vorreste che scadesse anche il tempo dell'Italia e della sua Costituzione.
Non sarà così. Il vostro tempo si va allontanando, ma un
altro tempo si avvicina. E sarà il tempo della ricostruzione nazionale.
Se ora è notte, si farà giorno; come dicono in Romagna, «se
l'è not, us farà dè». (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U,
DS-U, Verdi-Un e Aut. Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritta a parlare la senatrice Stanisci. Ne ha facoltà.
STANISCI (DS-U). Signor Presidente,
fa impressione: da ore la parte destra di quest'Aula è vuota. Simbolico
questo disinteresse da parte della maggioranza, che sceglie di non esserci
in un momento in cui l'ascolto delle ragioni dell'opposizione e di una
buona parte del Paese sarebbe quantomeno doveroso.
Eppure, ciò che si sta discutendo
non è una norma qualsiasi di una legge qualsiasi. Oggi, in quest'Aula,
stiamo discutendo non di federalismo, ma di devolution, che mira solo a
frammentare lo Stato nazionale. La devolution, infatti, prevede la divisione
economica, sociale, culturale delle venti Regioni italiane. Con essa si
tenta di scrivere la parola fine ai diritti uguali per tutti, alla solidarietà,
alla sanità, alla scuola ed alla cultura.
Finisce l'idea di Stato nazionale, perché
finiscono le ragioni per cui esso è nato. Ci sono voluti quattro
secoli di discussione politica e circa un secolo di guerre risorgimentali
per unire i territori italiani ed ora questo Governo, con un colpo di spugna,
intende cancellare l'Italia e la sua Costituzione.
Voi della maggioranza - che non siete
presenti - siete talmente bravi da compiere in poco tempo una lacerante
divisione su un territorio che ha visto Mazzini, Cavour, Garibaldi lottare
e soffrire per dare dignità al nome d'Italia. Siete davvero molto
bravi!
In un lasso di tempo molto breve avete
promosso leggi come la Cirielli, la legge elettorale, la riforma della
scuola, che sta destabilizzando il sistema dell'istruzione e dividendo
gli studenti in studenti di serie A e di serie B, affidando le sorti dei
licei allo Stato e relegando alle Regioni gli istituti professionali.
La Costituzione prevede che l'istruzione
sia di competenza dello Stato e già questo, proposto prima della
devolution, è un fatto di inaudita gravità, che penalizza
tanti giovani, soprattutto nel Mezzogiorno.
Per non parlare di un patrimonio di saperi
e di esperienze, rappresentato dagli istituti tecnici e professionali,
che si perderebbe, con il conseguente arretramento culturale di molti territori
del nostro Paese. Leggi non condivise dai cittadini italiani perché
non utili e, anzi, per loro dannose.
Presidenza del vice presidente DINI (ore
20)
(Segue STANISCI). In questi anni avete
fatto esercizio di baratto scambiando le istituzioni, lo Stato e i poteri
per tenere insieme una maggioranza il cui cemento è costituito solo
dal ricatto. Vi siete divisi le vesti: la devolution alla Lega e la riforma
scolastica, la legge elettorale e la Cirielli a Forza Italia. Non è
invece chiaro cosa ne viene ad AN. Questa parte dell'eredità non
è molto chiara soprattutto se si considera che il simbolo di questo
partito è il tricolore, spesso usato a meri fini di propaganda,
che dovrebbe parlare di unità nazionale e di Stato unitario. Alleanza
nazionale ha regalato il tricolore alla Lega ricevendone in cambio uno
straccio verde della Padania, infliggendo un grave vulnus alla Carta costituzionale
che rappresenta un patto: il patto tra le forze politiche e lo Stato sovrano.
La modifica di 50 articoli della Costituzione
non è merce di scambio. Vengono riscritti in modo pasticciato i
rapporti tra Stato e Regioni, vengono riformati tutti gli organi di garanzia,
svuotati di poteri essenziali. C'è un rischio per il Paese se non
vi fermate: il rischio di una deriva nella quale l'Italia potrebbe annegare.
La maggioranza parla sempre di riduzione di spese, di sprechi e di tagli
e su questo ha costruito anche la finanziaria del 2006. Chi pagherà
ora i costi di questa che viene chiamata devolution?
Al danno riveniente dalla disgregazione
delle garanzie di uguaglianza si aggiunge quello del costo che i cittadini
sopporterebbero a causa della devolution in un periodo in cui le risorse
pubbliche scarseggiano e il sistema produttivo versa in una grave crisi.
La maggioranza spesso ha parlato anche del Meridione d'Italia in termini
di assistenzialismo, accusando il Sud di essere una palla al piede per
lo sviluppo del Paese.
Da meridionale sarei quindi tentata di
credere che questo sia uno degli scopi: sganciare definitivamente il Mezzogiorno
dall'Italia. Spesso ho sognato, sapendo di sognare, un'Italia ricca, bella
e istruita, dal Capo di Leuca ad Udine; un'Italia piena di opportunità,
a Brindisi come a Milano, che riesce a garantire cura, formazione, istruzione
e sicurezza a tutti i cittadini italiani.
La maggioranza non sa che sta sognando
e confondendo il sogno di una grande riforma con questa cosa chiamata "devolution".
Se non fosse confusa avrebbe capito che il messaggio inviato dai cittadini
italiani il 16 ottobre è: manderemo a casa il centro-destra che
sta governando senza più maggioranza e che con le sue scelte manca
di rispetto agli italiani, a coloro che lo hanno votato e a coloro che
non lo voteranno più.
E' forse giunto il tempo che si incominci
a capire che nessuno è padrone dell'Italia. Solo la disperazione
può aver spinto la maggioranza a tale grave attacco alla democrazia;
un attacco senza futuro per chi lo ho sferrato. A quattro anni dal suo
insediamento questo Governo mostra ogni giorno di più l'incapacità
di condurre l'Italia verso la modernizzazione e il rilancio. Per il terzo
anno consecutivo la crescita economica è inferiore all'1 per cento.
Le famiglie italiane sono in forte difficoltà:
non c'è prospettiva per i nostri giovani che tornano ad emigrare
come negli anni Cinquanta. L'Italia non riesce a competere con il resto
dell'Europa; cresce la spirale dell'illegalità e il Meridione è
sempre più debole e solo. Il Governo, anziché occuparsi di
come far uscire dalla crisi il nostro Paese investendo su settori trainanti
dell'economia, gioca con la Costituzione.
Non si vogliono rafforzare le Regioni,
non c'è una seria proposta di federalismo. Si sta cancellando ciò
che già esiste: la possibilità di accedere a contributi finalizzati,
atti a valorizzare il Mezzogiorno.
Nel 2001, con la riforma del Titolo V
della Costituzione, si disponeva la destinazione di risorse aggiuntive
e si prevedevano interventi atti a promuovere la coesione e la solidarietà
sociale, rimuovendo gli squilibri economici e sociali. Fino al 2001 è
stata la solidarietà una costante del legislatore; poi, con l'avvento
del centro-destra, è iniziata per il Paese una parabola discendente.
Con la devolution si giunge ad un abbandono degli interventi di perequazione,
di distribuzione delle risorse
Il Sud d'Italia viene condannato al languore
grazie anche ai continui tagli che
derivano dalle finanziarie. Cosa pensano
di questo i colleghi meridionali? Dove sono? Quali territori rappresentano?
Quale scuola, quale sanità, quale agricoltura, quale società
stanno progettando, per la Puglia, la Calabria, la Sicilia, il Molise,
la Campania e tutto il resto del Meridione?
Questa che stiamo discutendo è
l'involuzione del sistema Italia, perché si sta calpestando il principio
cardine dello Stato democratico, cioè la sovranità, la tutela
di tutti.
Di fronte ad un Meridione in ginocchio
occorre che lo Stato unitario dia una risposta facendo un salto in avanti,
non un salto nel buio. Occorre mantenere le garanzie dell'unità
nazionale per non allontanare le istituzioni dal Paese, per non mandare
il Sud alla deriva nell'indistinto mare Mediterraneo. (Applausi dai Gruppi
DS-U, Mar-DL-U e della senatrice De Petris. Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Peterlini. Ne ha facoltà.
PETERLINI (Aut). Signor Presidente,
onorevole signor Ministro, onorevoli colleghi, siamo arrivati alla fase
finale di un disegno che intende cambiare il quadro costituzionale del
nostro Paese. La domanda d'obbligo che si deve porre in questo momento
è sull'opportunità di uno stravolgimento costituzionale e
dell'assetto organizzativo della Repubblica.
Il progetto è partito con la spinta
propulsiva della Lega Nord per un grande obiettivo che il Gruppo per le
Autonomie, che può vantare un'esperienza storica sul tema dell'autogoverno,
condivide nei suoi princìpi.
In base alla sua storia, alla sua cultura,
e soprattutto in base agli accordi internazionali, l'Alto Adige/Südtirol
ed il Trentino godono di un'autonomia speciale e di una tutela delle minoranze
linguistiche delle quali i rappresentanti del Governo italiano a livello
internazionale giustamente esaltano la qualità ed il carattere,
oltre alla capacità di risolvere i problemi di territori di confine
e di minoranze etnico-linguistiche.
Spesso siamo invidiati per questa nostra
autonomia, che ci ha offerto l'opportunità di gestire il bene pubblico
con maggiore efficienza e con un impegno mirato delle risorse a favore
dei cittadini della nostra terra. Ne è palese dimostrazione il fatto
che recentemente un Comune del Veneto ha addirittura chiesto l'annessione
alla Regione Trentino-Alto Adige. La chiave di questo successo però
non sta solamente nell'autonomia, ma anche nella capacità di valorizzarla
ed attuarla.
Vorrei ricordare in questo contesto che
le Regioni a Statuto speciale in Italia sono cinque, le due grandi Isole
e le tre Regioni ai confini del Nord. La più ampia autonomia costituzionalmente
garantita è quella della Sicilia, perché quest'ultima è
diventata Regione a Statuto speciale prima dell'entrata in vigore della
Costituzione italiana e pertanto ha potuto usufruire di una specialità
assai maggiore di quella del Trentino-Alto Adige/Südtirol e della
Valle d'Aosta.
A dispetto del fatto che non in tutte
le Regioni speciali sia riuscita la valorizzazione di questa autonomia
allo stesso modo, rimane il fatto comune che la gestione autonomistica
ha dato al proprio territorio frutti visibili sotto gli occhi di tutti:
ospedali che funzionano, scuole a livello europeo, case popolari, lavoro,
promozione dell'industria e del turismo.
Ho avuto l'onore per dieci anni di presiedere
il consiglio regionale del Trentino- Alto Adige e come tale di partecipare
alle riunioni dei Presidenti delle assemblee e dei consigli regionali del
nostro Paese. In questo ambito è stato spesso posto il problema
della disparità tra le varie Regioni con l'intento di portarle tutte
allo stesso livello. Le strade per raggiungere questo obiettivo sono due;
una è quella di togliere la specialità alle Regioni autonome
riducendo il loro potere, impoverendo le loro competenze e portandole a
livello delle Regioni ordinarie.
Non è il momento di soffermarci
sulle implicazioni internazionali di questa strada, visto che ciò
violerebbe accordi internazionali ai quali l'Italia ha solennemente aderito,
ma vorrei evidenziare che questa soluzione darebbe luogo ad un livellamento
verso il basso.
L'altra via è quella di valorizzarle
tutte e di portarle, passo dopo passo, al livello delle autonomie speciali.
Ed è questa la via che suggeriamo a tutti coloro che ci invidiano
per il livello raggiunto dalla Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.
Ed è questo il motivo per il quale
- e lo ripeto - condividiamo la volontà e i nobili princìpi
di trasformare l'Italia in uno Stato federale, in cui tutte le Regioni
possono godere di una propria autonomia e gestire il bene pubblico in modo
efficiente e vicino alla gente.
La Lega Nord di questi nobili princìpi
ha fatto il proprio cavallo di battaglia ed in questo intento la sosteniamo
e la ringraziamo. Tuttavia, l'impegno di trasformare l'Italia in un moderno
Stato federale è stato contrastato all'interno del Governo da forze
politiche che perseguono obiettivi completamente opposti.
Il disegno che nel gergo popolare si chiama
"devolution" prevede quattro competenze che dovrebbero passare dallo Stato
alla competenza esclusiva delle Regioni: l'assistenza e l'organizzazione
sanitaria, l'organizzazione scolastica e la gestione degli istituti, i
programmi scolastici e formativi di interesse regionale e, infine, la polizia
amministrativa regionale e locale.
Sono competenze importanti, che daranno
sicuramente alle Regioni la possibilità di migliorare e ampliare
il proprio raggio d'azione in questi settori. Tuttavia, non comportano
alcuna rivoluzione e destabilizzazione dello Stato, come qualcuno in quest'Aula
ha voluto far credere. Anzi, si tratta di competenze di cui le Regioni
a Statuto speciale in gran parte già godono e che sono ben delimitate
e circoscritte. Sono però, soprattutto, contrappesate da una serie
di misure e competenze che ampliano, in completo contrasto con l'obiettivo
federalista, il potere dello Stato.
A dimostrazione di ciò, basta guardare
le nuove competenze, sempre all'articolo 117, che con questa riforma vengono
tolte alle Regioni e riportate nella competenza degli organi centrali dello
Stato, come ad esempio la tutela della salute, che viene direttamente ad
incidere e limitare la competenza sull'assistenza ed organizzazione sanitaria,
la sicurezza del lavoro, le grandi reti strategiche di trasporto e navigazione,
l'ordinamento delle comunicazioni, delle professioni e dello sport, la
produzione strategica e tante altre. C'è da pensare che la lista
delle competenze ricondotte alla sfera dello Stato sia più lunga
di quella delle nuove competenze regionali.
Ciò che maggiormente ci preoccupa
è il nuovo centralismo, richiesto dalle altre forze di Governo per
controbilanciare la devolution, richiesta e ottenuta dalla Lega Nord. Ne
sono palese dimostrazione, oltre alle competenze ricondotte alla sfera
dello Stato, la figura centrale del cosiddetto Primo Ministro, nonché
il potere del Governo di impugnare tutte le leggi regionali davanti al
Parlamento in seduta comune, che può annullare le relative leggi
o disposizioni.
Per quanto riguarda il primo aspetto,
ci preoccupa che lo strapotere affidato al Primo Ministro vada a scapito
del Parlamento e della funzione di garanzia del Capo dello Stato. Nel caso
di approvazione di una mozione di sfiducia del Parlamento verso il Primo
Ministro (cito l'articolo 94), il Presidente della Repubblica decreta lo
scioglimento della Camera dei deputati ed indìce le elezioni. Lo
stesso si verifica nel caso in cui la mozione di sfiducia sia stata respinta,
ma con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza
espressa dalle elezioni.
Questo cosa significa? Significa, in parole
povere, che il Parlamento ogni qualvolta non condivida le impostazioni
date dal Primo ministro debba accettare la drammatica conseguenza dello
scioglimento e di nuove elezioni. Questo significa, inoltre, diminuire
la libertà d'azione del Parlamento, espressione democratica del
popolo e del corpo elettorale, sottoponendola alle direttive del Primo
ministro.
Apprezziamo, in questo disegno, lo sforzo
di trasformare una delle due Camere in una Camera delle Regioni, che dia
espressione al nuovo contesto federale costituito dalle Regioni. Ho però
già lamentato in quest'Aula che ritengo storicamente sbagliato usare
per questo obiettivo il Senato, che trova le sue radici nell'antichità
classica romana. Nel rispetto della grande storia del nostro Paese, sarebbe
stato molto più opportuno trasformare la Camera dei deputati nella
Camera delle Regioni. Il Senato cosiddetto federale, infatti, non sarà
l'espressione delle varie assemblee regionali, come succede in Germania,
in Austria e in altri Stati effettivamente federali. Esso verrà
eletto a suffragio universale diretto e pertanto verrà eletto in
modo analogo alla Camera dei deputati.
L'unica connessione con le Regioni rimane
il fatto che le elezioni del Senato avverranno contestualmente con l'elezione
dei Consigli regionali. Non è pertanto un Bundesrat, secondo i modelli
degli Stati nordici. Una bella copia poteva essere una rappresentanza diretta
delle Regioni, un rafforzamento della già esistente Conferenza Stato-Regioni,
con vere rappresentanze regionali e una vera camera delle Regioni; ma il
Senato federale, come lo stiamo costruendo, sarà una brutta copia
di questo modello e ne sono dimostrazione soprattutto le sue competenze,
il cui nucleo centrale è costituito dalle stesse competenze attribuite
alle Regioni nelle materie di competenza concorrente. In altre parole,
il Senato federale è condannato a fare leggi quadro per delimitare
tali competenze delle Regioni, per fissare i principi direttivi e limitare
così le autonomie regionali.
Ci preoccupa, inoltre, uno strumento lasciato
alla discrezionalità del Governo e del Parlamento, quello di impugnare
e annullare le leggi delle Regioni per il cosiddetto interesse nazionale.
Mentre nella Costituzione vigente le leggi regionali e provinciali possono
essere impugnate giustamente davanti alla Corte costituzionale, ora si
vorrebbe introdurre uno strumento politico, che offre alla maggioranza
la possibilità di rinviare ogni legge e disposizione varata dalle
assemblee regionali.
Queste sono le nostre principali obiezioni
ad una riforma costituzionale che condividiamo nei suoi obiettivi, che
tuttavia non si concretizzano in questa riforma. Prendiamo però
atto con soddisfazione che il Governo abbia voluto rispettare gli accordi
internazionali e l'assetto speciale delle Regioni autonome.
Vorrei cogliere l'occasione per ringraziare
soprattutto il Ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione,
l'onorevole Roberto Calderoli, che qui ci sta seguendo, per la sua sensibilità
verso le rivendicazioni delle Regioni a statuto speciale e verso le nostre
preoccupazioni. Prendiamo atto con soddisfazione soprattutto dell'articolo
54 del disegno di legge, che prevede che «Le disposizioni di cui
al Capo V della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni
a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano, per
le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto
a quelle già attribuite».
Per togliere ogni dubbio interpretativo
sull'ampiezza di questa clausola di salvaguardia prevista dalla Costituzione,
abbiamo posto sia in quest'Aula, sia per iscritto al Governo la questione
di applicabilità del nuovo articolo 45 del disegno di legge, che
va a modificare l'articolo 127 della Costituzione e che introduce il ricorso
alle Camere per l'annullamento delle leggi regionali. Il Ministro per le
riforme istituzionali e la devoluzione ci ha risposto con lettera datata
20 gennaio 2005 fornendo una chiarificazione importante, che cito testualmente.
Chiedo, signor Presidente, se possibile,
di poter allegare agli atti lo scambio di lettere con il ministro Calderoli,
affinché diventi parte integrativa degli atti parlamentari.
PRESIDENTE. Va bene, senatore Peterlini,
consegni il testo alla Presidenza.
PETERLINI (Aut). Il Ministro, in risposta
ad una mia nota del 15 dicembre 2004, precisa che «in base all'articolo
54 del disegno di legge costituzionale n. 2544, le modificazioni concernenti
il Titolo V della Parte II della Costituzione si applicano in via transitoria,
ovvero fino all'adeguamento dei rispettivi Statuti, anche alle Regioni
speciali per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie
rispetto a quelle già attribuite». Il Ministro analizza poi
la questione «se possa applicarsi alle Regioni speciali la modificazione
dell'articolo 127 della Costituzione, introdotta dall'articolo 45 del disegno
di legge costituzionale, concernente il procedimento di verifica circa
il rispetto dell'interesse nazionale da parte delle leggi regionali».
Conclude, pertanto, il Ministro per le
riforme istituzionali: «Ritengo di dover sottolineare come una disposizione
del genere - ove riferita alle Regioni speciali in modo incondizionato
e senza distinzione di materia - determinerebbe una compressione dell'autonomia
già attribuita, in quanto in nessuno degli Statuti di autonomia
è previsto un procedimento analogo. È dunque mia opinione
che la disposizione recata dell'articolo 54 del disegno di legge costituzionale
porti ad escludere l'applicabilità del procedimento relativo all'interesse
nazionale alle leggi delle Regioni speciali e delle Province autonome».
Ringrazio il ministro Calderoli per la
chiara interpretazione in fase preliminare della prima lettura al Senato,
che ci ha portato - lo sottolineo - come rappresentanti delle minoranze
linguistiche alla decisione di non presentare emendamenti al riguardo al
disegno di legge, non ritenuti opportune e necessari alla luce di questa
chiara interpretazione.
Ci è, inoltre, di conforto che,
durante la trattazione del relativo articolo nel dibattito nell'Aula del
Senato, nonostante la difficoltà di poter accettare per motivi tecnici
un nostro ordine del giorno, il presidente della Commissione affari costituzionali
del Senato, senatore Andrea Pastore, abbia confermato la chiara interpretazione
del Ministro che abbiamo sottoposto in forma di ordine del giorno.
Cito le parole del presidente Pastore
dal verbale della seduta n. 770 del 22 marzo 2005: «Credo che nessuno
possa dubitare della correttezza dell'interpretazione contenuta nell'ordine
del giorno. E' evidente che nessuno può sognarsi di ritenere che
norme che si considerano restrittive delle autonomie regionali possano
essere applicate anche al campo delle autonomie previste dagli statuti
approvati con leggi costituzionali speciali e protetti da accordi internazionali,
dove ci sono regimi, procedure, sistemi di controllo, di verifica e di
collaborazione assolutamente diversi e fino ad oggi utilmente sperimentati.
Quindi, ritengo di poter confermare che
l'interpretazione data dall'ordine del giorno è corretta, ma è
corretta proprio sulla base del testo della riforma costituzionale. Laddove
si dice che alle Regioni a statuto speciale si riconoscono le maggiori
autonomie attribuite dalla riforma costituzionale, è ovvio e lapalissiano
che si voglia dire, a contrario, che le norme restrittive non si applicano
alle Regioni a Statuto speciale. Quindi, interpretazione letterale, interpretazione
logica e buon senso ci portano a questa soluzione».
Ringrazio il presidente Pastore per questa
chiara interpretazione, che sarà di ulteriore lume qualora qualcuno
- nonostante la chiarezza - dovesse ricorrere ad una limitazione delle
competenze delle Regioni e delle Province autonome, annullando le loro
rispettive leggi.
Voglio, in conclusione, ricordare le parole
del presidente Giulio Andreotti, che ha lanciato un monito in quest'Aula.
Egli ricordava la Costituente, ricordava come i Padri della nostra Costituzione
formulavano la Costituzione italiana, trovando la mediazione sulle formule,
cercando soluzioni condivise da tutti e coinvolgendo tutte le istituzioni
e le università. Era una sala di pensiero e di studio.
Riteniamo che una riflessione più
approfondita sarebbe utile ed opportuna. Prendiamo atto con favore che
sono state rispettate le nostre istanze, ma al tempo stesso ci dispiace
che sia stata persa l'occasione di trasformare il nostro Paese in una vera
democrazia federale secondo i modelli più avanzati a livello europeo.
(Applausi dai Gruppi Aut, DS-U e delle senatrici De Petris e Soliani).
PRESIDENTE. Senatore Peterlini, per quanto
riguarda lo scambio di lettere cui lei ha fatto riferimento, le preciso
che queste non potranno essere allegate al suo intervento, da cui si evincerà
un'indicazione in merito a questa corrispondenza, ma rimarranno depositate
presso la segreteria dell'Assemblea per la consultazione dei senatori.
È iscritta
a parlare la senatrice De Petris. Ne ha facoltà.
DE PETRIS (Verdi-Un). Signor Presidente,
il disagio di chi deve intervenire in quest'Aula deserta è molto
forte, una immagine che rappresenta bene la sostanza ed il processo di
questa cosiddetta controriforma costituente.
Il collega Peterlini si augurava, a conclusione
del suo intervento, di poter arrivare a costruire alla fine nel Paese una
moderna democrazia federale. Bene, credo che il processo di riforma avvenuto,
prevalentemente della II parte della nostra Costituzione, non abbia nulla
a che fare con la costruzione di un moderno processo federalista.
Il federalismo di Trentin, di Cattaneo,
che in questo Paese ha avuto una produzione teorica di grandissimo livello,
quel federalismo che poteva anche con successo tentare, nelle spinte risorgimentali,
di trovare una possibilità di costruzione di uno Stato più
unito e più moderno, non ha davvero nulla a che fare con il cosiddetto
processo riformatore, con questa devolution-involution.
Personalmente comincio ormai, se non fosse
appunto per il rispetto teorico nei confronti dei teorici padri fondatori
del federalismo, a provare un forte disagio all'utilizzo di questa parola.
È significativo che la fase finale di questo processo di controriforma
avvenga all'indomani del pronunciamento della Consulta sul cosiddetto provvedimento
taglia-spese nei confronti delle Regioni e delle autonomie locali. È
forse un segno del destino.
Quel pronunciamento fotografa una realtà
molto diversa, quella di un centralismo nuovo e rinnovato e molto forte,
che davvero non ha nulla a che vedere con l'idea di federalismo.
Ma forse siamo noi ad esserci sbagliati;
in realtà, forse, la vostra idea di federalismo, a partire dai cosiddetti
saggi riuniti in una baita a Lorenzago (non dimentichiamo come è
iniziato tutto questo grande percorso), era esattamente legata a quella
che ormai possiamo definire non devolution ma involution perché
sancisce competenze esclusive nella sanità, nella scuola, nella
polizia regionale e locale, e ha evidentemente a cuore non l'idea di uno
sviluppo armonico, come ha il federalismo in un sistema di democrazia federale,
ma solo quella di spostare e di devolvere, di dividere tra le Regioni forti
e le Regioni più deboli. Smontare è forse davvero la traduzione
della spinta secessionista della Lega; è questa la vera traduzione
in termini di riforma costituzionale.
Tutto questo sta avvenendo con una manomissione
forte, non solo della II parte della Costituzione; come noi abbiamo continuato
a sostenere, ed è così, nei fatti si mettono in discussione
alcuni princìpi fondanti della I parte della Costituzione, il patto
condiviso, su cui si fonda il rapporto dei cittadini con lo Stato.
È evidente a tutti che nel momento
in cui si dà potestà esclusiva alle Regioni sulla scuola
e sulla sanità non si fa altro - è, da questo punto di vista,
assolutamente inoppugnabile - nei fatti che confliggere con la competenza,
per esempio del Parlamento, nella determinazione dei livelli essenziali
di assistenza, e quindi con il perseguimento degli obiettivi indicati dagli
articoli 2 e 3 della Costituzione. Si mette dunque in discussione il principio
di uguaglianza. Credo che questa sia la parte che maggiormente lede la
nostra Costituzione.
In tutti questi mesi di dibattito, voi
avete sostenuto che la riforma del Titolo V della Costituzione ha prodotto
molti problemi. Ma la risposta quale è stata? Si è cercato
di eliminare questi problemi, di intervenire per modificare e per rimuovere
anche quelli che si sono verificati dopo la modifica del Titolo V della
Costituzione? Come sapete, ci sarebbe stata la nostra disponibilità
a migliorare questo sistema, ad introdurre i necessari aggiustamenti; invece
no, in realtà di questa parte non vi siete occupati più di
tanto. Avete voluto mettere mano ampiamente al sistema stesso.
Ora mi chiedo e vi chiedo se si può
intervenire in modo così profondo e disarticolante sulla forma dello
Stato - ripeto, sulla forma dello Stato- sui suoi organi, sul sistema dei
pesi e dei contrappesi, sulla sostanza stessa della democrazia, senza alcun
rapporto ed un reale collegamento con i bisogni e le esigenze dei cittadini.
Lo spirito costituente che ha caratterizzato
la storia di tutti Paesi democratici, sicuramente di tutti i Paesi europei,
certamente non ha mai aleggiato in quest'Aula, ma forse era ingenuo da
parte nostra pensare che si potesse ricreare lo spirito ed il clima dei
Padri e delle Madri costituenti che hanno dato a questo Paese una Costituzione
che per noi continua ad essere una delle più avanzate a livello
europeo ed internazionale.
Torno a ripetere: si può intervenire
in modo così profondo e disarticolante, senza un collegamento con
un clima, con una spinta nel Paese? No, tutto questo è avvenuto
per un patto, per uno scambio: bisognava modificare, aggiustare, dare alla
Lega quello che aveva imposto e richiesto fin dall'accordo elettorale,
mitigare le sue spinte secessioniste. Anche in questi giorni stiamo vedendo
come questo passaggio finale è il frutto solo e unicamente di accordi
e di scambi.
Sapete perfettamente che senza quest'ultima
lettura in Parlamento sulla controriforma non passerà la legge elettorale,
perché appunto avete finito di "sistemare il sistema" attraverso
la proposta di legge elettorale che stiamo discutendo in questo momento
in 1a Commissione.
Quindi, cosa c'è di nobile, qual
è lo spirito veramente riformatore in ciò che si sta consumando
in questo passaggio finale? Credo che la storia della Costituzione europea,
nonché l'esito di alcuni referendum, lo dico anche al ministro Calderoli,
dovrebbe insegnarvi molte cose.
Quando si mette mano ad una riforma costituzionale,
alla riscrittura di un patto senza alcun collegamento con i cittadini,
questi ultimi la rimandano al mittente ed è quanto accadrà
tra breve con questo disegno di controriforma, con questa involution, come
noi la definiamo.
In questo caso, il Governo e la maggioranza
si sono fatti costituenti, facendo i conti solo al proprio interno e costruendo
pesi e contrappesi, non nel senso di pesi democratici tra i vari organi
dello Stato, ma degli accordi giunti fino all'atto finale, che è
- appunto - quello della legge elettorale. Ad ognuno il suo: ad Alleanza
Nazionale avete dato il contentino dell'interesse nazionale; la Lega è
la spinta a questo bel processo di controriforma costituzionale; Forza
Italia ha ottenuto in cambio la riscrittura pesante dell'assetto degli
organi dello Stato, soprattutto del Premierato, che rischia di comportare
(ripeto, però, che il pericolo non ci sarà, perché
i cittadini sapranno respingere al mittente la cosiddetta riforma costituzionale)
una deriva plebiscitaria per come è stato concepito ed organizzato.
Si propone, infatti, un Premier che tiene in ostaggio la sua maggioranza,
che non viene soltanto da essa indicato, ma che è il dominus all'interno
della sua stessa maggioranza.
Inoltre, il Senato federale è stato
ridotto ad avere una sorta di competenze eventuali, neanche residuali.
Non so cosa dire, poi, rispetto a quello che è stato fatto della
sua composizione. Non è neanche un Senato delle Regioni perché
i rappresentanti delle Regioni partecipano, ma non hanno diritto di voto.
Insomma, avete fatto un misto, che abbiamo
definito transgenico, perché l'ibrido sarebbe stato un prodotto
naturale, invece, avete fatto una serie di manomissioni ed anche alcune
scelte dal punto di vista del profilo istituzionale assolutamente ibride.
Certamente la parte più inquietante
di tutto l'impianto è rappresentato dalla messa in discussione dei
princìpi supremi della nostra Costituzione, che - ribadisco - è
il nostro patto condiviso: è il patto sociale, culturale e politico
che ci lega insieme e che oggi voi volete manomettere. I cittadini, però,
sono legati alla nostra Costituzione e rispediranno al mittente, con il
referendum, questo prodotto transgenico, di involution e di tentativo di
rottura dell'unità nazionale e del sistema Paese italiano. (Applausi
dal Gruppo DS-U e del senatore Peterlini).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Piatti. Ne ha facoltà.
PIATTI (DS-U). Signor Presidente,
molti senatori intervenuti hanno già messo in evidenza i rilievi
principali dell'opposizione alle modifiche costituzionali definite «devolution».
Essi riguardano anzitutto la supremazia
e la stabilità della Costituzione, cioè il fatto che le eventuali
modifiche non debbano essere alla mercé della maggioranza. Ciò
non avviene in alcun Stato democratico, dove modifiche costituzionali sono
avvenute (pensiamo agli Stati Uniti) sempre nella più ampia condivisione
politica.
Non vogliamo eludere che da molti anni,
con le Commissioni bicamerali, non sono riusciti i tentativi di aggiornare
ed innovare la parte ordinamentale per adeguarla ai cambiamenti del Paese.
Tale processo, però, ha messo in evidenza il fatto che tutte le
forze politiche riconoscevano l'esigenza di tale adeguamento e questi orientamenti
consegnavano al Parlamento l'esigenza, certo difficile, di trovare una
nuova sintesi.
Questo lavoro non è stato nemmeno
tentato, perché la maggioranza ha rivendicato il diritto a fare
da sola. È stato ed è un errore enorme, perché in
questi anni il sistema istituzionale italiano non è rimasto fermo,
immobile.
Come sappiamo, infatti, gli anni Novanta
hanno segnato profondi cambiamenti a Costituzione invariata: nel 1993,
sotto la spinta referendaria, si è realizzata la riforma elettorale,
passando dal sistema proporzionale a quello attuale, orientato in senso
parlamentare maggioritario, offrendo la possibilità agli elettori
di scegliere direttamente la maggioranza di Governo, senza deleghe in bianco
ai partiti (e non è casuale la controriforma che viene oggi proposta).
Sempre negli anni Novanta, è stato
poi profondamente cambiato il sistema delle autonomie locali, prima i Comuni
e poi le Regioni, con l'elezione diretta del sindaco e del presidente della
Regione, determinando un nuovo rapporto fra responsabilità tecnica
e indirizzo politico e istituzionale. Sempre gli anni 1996-1997 hanno visto
la nascita di nuove leggi che hanno cambiato e innovato la forma di Stato:
ricordiamo tutti, le leggi Bassanini, che hanno contribuito notevolmente
a determinare più responsabilità nella pubblica amministrazione,
più trasparenza, distinzioni di funzioni e, soprattutto, l'avvio
di un processo di grande riorganizzazione e di decentramento amministrativo
per funzioni, attribuendo poteri enormi agli enti locali, in base al principio
di sussidiarietà.
Dev'essere rilevato che tale processo,
che aveva contribuito anche al contenimento della spesa pubblica, è
stato negli ultimi anni interrotto: la maggioranza ha perseguito la logica
dei tetti di spesa, che, criticati oggi dalla Consulta, sono invece la
plastica affermazione dello status quo nella pubblica amministrazione,
che richiede invece un lavoro di continua riorganizzazione capace di valorizzare
nuove tecnologie e risorse umane. E non è casuale che la spesa pubblica,
soprattutto quella dei Ministeri, riprenda a salire.
Faccio questi esempi per dire che è
falsa la rappresentazione di un'opposizione ferma, che non vuole cambiare,
tanto che la necessità di modifiche costituzionali è stata
«annunciata» dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, confermata
dal risultato del referendum. C'erano perciò tutte le condizioni
per completare questo lavoro e questa transizione, sapendo però
che modifiche radicali nella parte ordinamentale dovevano essere coerenti
con i princìpi della prima parte della Costituzione. Il testo votato
dalla Camera e alla nostra attenzione produce invece una rottura con il
lavoro avviato negli anni precedenti.
Sulla forma di governo è stato
detto che avremo un Presidente del Consiglio dotato dei poteri sia del
Presidente degli Stati uniti, sia del Premier britannico, che giustifica
la definizione di «dittatura della maggioranza», poiché
un rafforzamento dell'Esecutivo, che nessuno disconosce, e una sua maggiore
stabilità dovevano convivere con un bilanciamento dei poteri di
garanzia, come avviene in tutti i Paesi democratici.
Sulla forma di Stato si poteva lavorare
per fare del Senato la Camera rappresentativa delle autonomie locali. Si
sceglie invece una strada confusa e pericolosa, con la composizione del
Senato riconducibile a personale politico che abbia avuto un'esperienza
nelle istituzioni locali, che rischia di accentuare la dimensione localistica.
La suddivisione di nuove competenze alle
Regioni (mi riferisco alle modifiche all'articolo 117) appare poi farraginosa,
sia perché inutile, se non si dà attuazione all'autonomia
finanziaria regionale e locale, sia perché i rapporti Stato-Regioni
richiedono cooperazione e collaborazione e non l'illusione di una separazione
rigida delle competenze, che sarà foriera di nuovi conflitti.
Volete devolvere poteri agli enti locali,
alle Regioni? I contenziosi aperti con gli enti locali sulla finanziaria,
i processi di neocentralismo che abbiamo sentito aperti in alcuni Ministeri,
dalla scuola all'agricoltura, vanno, ci sembra, in senso opposto.
In sostanza (ho concluso, signor Presidente),
una riforma-manifesto, che accontenta per un «pezzo», per una
parte le forze di maggioranza. I punti ancora aperti sono evidenti: il
ruolo del Senato, l'autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali,
le garanzie per le opposizioni.
Il compromesso raggiunto fra premierato
incontrollato e devoluzione di attribuzioni (senza risorse finanziarie)
non faranno una riforma. La riflessione che accompagnerà il referendum,
oltre a cancellare queste norme, dovrà rimettere sui binari corretti
il processo riformatore, e senza scorciatoie, anche per le opposizioni.
Il processo riformatore dovrà anzitutto
considerare che una società complessa, ricca di conflitti, che sono
sotto i nostri occhi, con una società civile fortemente organizzata
e autonomie funzionali che arricchiscono il nostro pluralismo, non potrà
essere «governata» da nessuna semplificazione autoritaria.
Abbiamo visto in questi anni quali danni ha provocato il «decisionismo».
La decisione e le differenze sono essenziali nella vita delle istituzioni,
ma tentare di eludere la complessità delle decisioni è esercizio
vano.
Qui serve la coerenza con la prima parte
della Costituzione. E poi permettetemi di rilevarlo, se c'è una
parola e una cultura politica centralista è quella della devoluzione
che raffigura uno Stato centrale che non cambia, ma devolve, forse, qualche
potere. Il contrario del federalismo che è mutamento solidale di
tutti i livelli istituzionali e anche e soprattutto riorganizzazione della
pubblica amministrazione. (Applausi dal Gruppo DS?U e dei senatori De Petris
e Peterlini).
PRESIDENTE. E'
iscritto a parlare il senatore Fasolino. Ne ha facoltà.
FASOLINO (FI). Signor Presidente,
onorevoli colleghi, non sono un costituzionalista né un giurista,
quindi ho seguito l'iter di questa importante legge dello Stato e oggi
il dibattito in Aula da un osservatorio che definirei privilegiato, perché
è l'osservatorio quasi dell'uomo della strada. Come l'uomo della
strada vede questa legge dopo tutto quanto è stato detto contro
di essa dal centro-sinistra, attraverso i mezzi di comunicazione di massa,
i dibattiti istituzionali e i convegni. Una legge, come è stata
dipinta, che mina l'unità nazionale, e penalizza soprattutto le
Regioni deboli del Paese, ovvero le Regioni meridionali.
In questa giornata è stato anche
detto - quasi come se si fosse attentato alla sacralità della Costituzione
- che né il Senato né la Camera dei deputati possono mettere
mano ad una modifica della Costituzione ad ogni piè sospinto, ad
ogni legislatura. I colleghi del centro?sinistra hanno dimenticato che
solo nel 2001 hanno approvato un testo di modifica del Titolo V della Costituzione
e che dal 1963 ad oggi sono state numerosissime le modifiche della Carta
costituzionale perché la Costituzione, secondo il mio parere, va
intesa non come un edificio scheletrico e immobile, inamovibile nel corso
degli anni, ma come un edificio che si deve coniugare alla società
nella quale viene ad operare attraverso le leggi di sua emanazione.
Certamente i pilastri fondanti della Costituzione
debbono rimanere inalterati; certamente i principi di dritto al lavoro,
di democrazia e di libertà debbono sempre accompagnare il cammino
della Costituzione, pur nelle variazioni che di volta in volta si intende
suggerire. Però, è necessario che le Costituzione sia aperta
alla società, alle mutevoli esigenze di essa, alle montanti richieste
di cambiamento che vengono dalla popolazione. Del resto, oggi noi siamo
in Europa e la Costituzione si deve adeguare ai mutamenti che la compagine
europea realizza.
Volendo analizzare i punti fondamentali
del discorso, partirei dal concetto di Premierato, dal concetto di Primo
ministro.
Il centro?sinistra si è accanito
contro questa visione del Primo Ministro, legato indissolubilmente al mandato
elettorale, con una maggioranza che deve costantemente rapportarsi a tale
mandato e che non può essere impinguata dal trasformismo, dai transfughi,
che sono la negazione della democrazia.
Quindi, un principio altissimo, secondo
cui il popolo è costantemente sovrano e rappresentato da un Parlamento
coevo con l'impostazione politica che lo ha generato e non con il Parlamento
dei trasformisti che, fin dall'altro secolo e nel corso di tutto il secolo
appena passato, tanto male hanno fatto al nostro Paese. Gli eletti nel
Mezzogiorno d'Italia venivano infatti sistematicamente adescati dalle potenze
industriali e finivano per portare avanti una politica contraria agli interessi
della loro terra. Quindi, un Premierato forte, come si addice ad una democrazia
moderna.
L'altro punto di attacco è il ruolo,
la funzione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Cari
colleghi, è possibile che ancora oggi si pensi che un bicameralismo
perfetto sia in grado di risolvere i mali del nostro Paese e di essere
strumento per adeguarsi in maniera funzionale e rapida ai bisogni che la
società esprime?
Per l'esperienza che ho potuto fare nel
corso di questa mia prima legislatura, ho notato che molte leggi hanno
vissuto un iter particolarmente estenuante, con continui passaggi da un
ramo all'altro del Parlamento. È possibile accettare che uno Stato
moderno, che deve dare risposte rapide ed efficaci, corrisponda ai bisogni
della società con tale lentezza?
Quindi, è stato giusto portare
avanti la separazione delle funzioni, tra l'altro, restituendo al Senato
la sua primigenia funzione di Camera delle Regioni che, fino ad oggi, si
era consumata soltanto attraverso il meccanismo elettorale in base al quale
i senatori venivano eletti nella circoscrizione regionale di appartenenza.
Oggi il Senato diventa protagonista di
un rapporto con la parte più dinamica, attiva e propositiva del
Paese: le Regioni. Nessuno può infatti negare che le Regioni hanno
soppiantato molti degli apparati statali antichi, producendo contestualmente
un'attività sia legislativa, nell'ambito di competenza, sia deliberativa,
che oggi è da considerare preminente nel Paese. Resta il fatto che
una tipologia di Regione come quella attuale resta disancorata dal livello
centrale. La si può considerare una Regione funzionante e corrispondente
agli interessi generali?
Amici della sinistra, anche se molto brevemente,
vi voglio raccontare la storia di Napoli e della Regione Campania. È
una Regione in cui l'assistenzialismo e la desuetudine dai concetti giusti
e basilari di etica politica, il ricorso sistematico alle convenzioni,
sia da parte delle strutture commissariali, sia da parte della giunta regionale,
è stato costantemente seguito, una Regione che praticamente esercita
un regime di assistenza sanitaria rispetto al quale non c'è spazio
per i poli di eccellenza ma solo per una miriade, una moltiplicazione di
strutture sanitarie uguali a se stesse, ripetitive nell'ambito dello stesso
territorio, che hanno notevolmente appesantito il discorso sanitario a
livello regionale. Ebbene, lo Stato come si pone rispetto a questo spreco?
Pagando a piè di lista le esuberanze della Regione Campania.
Noi invece immaginiamo una Regione nella
quale le azioni regionali siano in continuo e stretto contatto con quelle
di una Camera nazionale, come appunto il Senato, che ne possa ammortizzare
o ammorbidire gli effetti, che possa dare e realizzare certi indirizzi.
Quindi, paradossalmente, è una
tipologia di Regione come quella oggi esistente, svincolata da ogni rapporto
con lo Stato, che concreta una fattispecie amministrativa e legislativa
eccentrica e fuorviante mentre quella che noi immaginiamo, legata al Senato
delle Regioni, rappresenta un modo attraverso il quale un organismo periferico
si può mettere in simbiosi con quelli centrali dello Stato.
Sempre riguardo al Senato e alla Camera
dei deputati: se ne parla poco, ma noi abbiamo per la prima volta proposto,
dopo tanti anni, una riduzione del numero dei deputati e dei senatori.
E non è questo un meccanismo virtuoso?
E sempre a proposito del Senato e quindi
delle Regioni, vorrei chiedere ai rappresentanti del centro-sinistra: oggi,
l'organizzazione sanitaria chi la fa? Il Ministro della salute o l'Assessore
regionale alla sanità? E perché il Ministro si chiama "Ministro
della salute"? Perché, dopo la vostra riforma, nel 2001, quando
il Governo Berlusconi si è insediato, non c'era la possibilità
di avere il Ministero della sanità, tant'è vero che il Governo
si è dovuto inventare con un decreto l'istituzione del Ministero
della salute. L'organizzazione sanitaria autonoma delle Regioni, quindi,
è una scoperta fatta dal centro-sinistra nel disegno di legge, poi
diventato legge di modifica del Titolo V della Costituzione, approvato
nel 2001.
Ma non ci doliamo di questo. Riteniamo
che sia la Regione a dover organizzare il proprio lavoro e il proprio sistema;
però, riteniamo anche che finalmente lo Stato non debba più
pagare a piè di lista le esuberanze della Regione; riteniamo anche
che ci siano delle responsabilità e, personalmente, ritengo che
gli amministratori regionali che si rendano artefici di dissesti debbano
essere immediatamente rimossi, e che, se e quando lo Stato interviene attraverso
la salvaguardia del cosiddetto interesse nazionale, lo debba fare marcando
chiaramente le responsabilità personali e dell'istituto regionale.
Avviandomi alla conclusione desidero anche
dire: vedete, è questa la Regione che non si innesta nel tessuto
democratico del Paese; la Regione nostra, invece, dialoga con il livello
nazionale. E sempre a proposito del livello nazionale, come mai nel vostro
disegno di legge l'interesse nazionale non era previsto? Come mai abbiamo
dovuto prevederlo noi? Come mai siamo arrivati al punto in cui è
questa legge nostra, che voi dichiarate e denunziate come destruente degli
interessi nazionali, quella che sta ripristinando l'interesse nazionale?
Ma scusate, l'organizzazione scolastica
a chi appartiene, oggi che la legge di modifica della Costituzione che
stiamo portando avanti non c'è? A chi è affidata? È
affidata alle Regioni per mano della vostra stessa legge. E perché
allora andate nelle piazze a dire che vogliamo che l'assistenza scolastica
si regionalizzi per depauperare la Campania, le Puglie, la Calabria, la
Sicilia, il Mezzogiorno? Perché questa finzione, che continua a
livello popolare e si perpetua anche nelle nostre Aule, nelle Aule del
Senato e della Camera dei deputati?
E così, di polizia amministrativa
regionale non siamo stati noi i primi a parlarne! Ve l'ho detto: ho riguardato
questo aspetto con gli occhi dell'uomo della strada. All'inizio ero preoccupato,
anch'io, come uomo del Mezzogiorno.
Ero preoccupato perché potevo ritenere
che ci fosse un vulnus in atto nei confronti della mia Regione, la Campania,
ma guardando bene la vostra riforma costituzionale del 2001, mi rendo conto
che gli interessi della Regione Campania vengono difesi da questa riforma
e non dalla vostra. Del resto, nell'interesse nazionale, la tutela dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali
è stata una conquista di questa maggioranza.
Diamo atto alla Lega di aver voluto portare
il discorso fino in fondo, però vogliamo anche dare atto agli altri
partner della Casa delle Libertà, Alleanza Nazionale e Forza Italia,
di aver irrobustito e migliorato il disegno di legge in esame e di aver
voluto condividere fino in fondo il cammino di una legge che reputo la
più importante della legislatura, che la caratterizza. Per noi questa
riforma è il banco di prova di una maggioranza che non solo realizza
i propri programmi, ma pone le basi per una riedizione di un Governo di
centro-destra dopo le elezioni del 2006. (Applausi dal Gruppo FI. Congratulazioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Caddeo. Ne ha facoltà.
CADDEO (DS-U). Signor Presidente,
onorevoli colleghi, avremo quindi una nuova Costituzione. Con un voto a
maggioranza si delineano gli assetti futuri dell'Italia, i suoi valori
fondamentali, le finalità da perseguire. Ma l'analisi sottesa della
realtà nazionale è fondata? Le soluzioni prospettate rispondono
alle esigenze di sviluppo di uno dei Paesi più industrializzati
del mondo?
Il Paese è in crisi, invecchia.
Non conosce per ora gli incendi delle banlieue francesi né i frutti
avvelenati del multiculturalismo inglese, ma la mobilità sociale
è bloccata. Impoverisce il ceto medio e va in frantumi la coesione
sociale. Il tutto è ingigantito dai rischi crescenti di declino.
A questi problemi date una risposta autoritaria,
destrutturante degli assetti istituzionali, sociali e della stessa identità
nazionale. A capo di tutto mettete un Presidente del consiglio titolare
di poteri esorbitanti, capace di soggiogare la Camera politica, costretta
a dare a comando una fiducia sotto il ricatto dello scioglimento.
Il potere legislativo perde così
la sua autonomia, una delle prime conquiste del costituzionalismo, la divisione
tra potere esecutivo e potere legislativo subisce una profonda lesione.
La regolamentazione dei rapporti tra i
due poteri regredirà a forme premoderne, senza escludere l'azzardo
delle congiure di piccoli gruppi interni alla maggioranza.
Al Senato viene assegnato un ruolo marginale.
Avrà competenze di iniziativa legislativa sull'operato delle Regioni,
ma se si ostinerà a fare di testa sua, vedrà il capo del
Governo sottrargli gli argomenti in discussione per affidarli all'ubbidiente
approvazione della Camera.
La ripartizione del potere di iniziativa
legislativa tra Camera e Senato appare la più illogica, casuale,
e foriera di conflitti. I contrasti all'interno del potere legislativo,
quelli sempre più acuti tra Regioni e Stato centrale, faranno dell'Italia
il luogo della divisione, della lentezza delle decisioni, terra di conquista
delle realtà più dinamiche dell'economia mondiale.
Voi costruite un'Italia autoritaria ma
fragile, figlia di una classe dirigente debole, che rinuncerà a
competere sullo scenario mondiale. Dal declino dell'Italia si può
uscire, invece, percorrendo un'altra strada con uno sforzo convergente
di tutte le forze vive, capace di produrre unità d'intenti. Questa
è infatti la premessa per rientrare dal colossale debito pubblico
e per promuovere intense e durature politiche di accumulazione d'innovazione,
di nuove conoscenze, di moderne infrastrutture materiali ed immateriali.
Se si avesse una simile ambizione, si
dovrebbe costruire una Repubblica ben strutturata, forte del consenso,
della partecipazione della realtà territoriale e di un'equilibrata
coesione sociale.
La nuova Carta fondamentale non risponde
però a questi obiettivi, mira soprattutto ad approfondire la devoluzione
di poteri e di risorse finanziarie verso le realtà più ricche
del Paese, in mano cioè a coalizioni distributive regionali che
non vedono, né possono inquadrare la missione di guidare la Nazione
nel mare in tempesta della competizione globale.
Una classe dirigente di corte vedute,
frutto della giustapposizione di localismi, partorisce una Carta ingiallita
prima ancora di inverdire; e ciò avviene soprattutto perché
vuole approfondire oltre ogni misura la divisione, già irrazionale
di per sé, tra competenze esclusive statali e regionali contenute
nell'articolo 117.
Proseguite su una strada indicata come
sbagliata dalla Corte costituzionale, la quale ha affermato che tale divisione
non può esistere, che molte di quelle competenze sono e devono essere
considerate concorrenti, cioè sotto la responsabilità della
collaborazione tra lo Stato e le Regioni.
È la stessa impostazione ribadita
dall'Unione Europea che imposta una concezione concorrente ancora più
larga, che traccia la strada della collaborazione tra i livelli istituzionali
per garantire il buon esito dell'intervento pubblico e soprattutto dell'attuazione
dei diritti delle persone.
Ma perché questo incaponimento
cieco e distruttivo? Per approfondire l'utilizzo dell'articolo 119, del
sistema di finanziamento delle competenze regionali, delle politiche pubbliche,
dello Stato sociale con la sola capacità fiscale dei territori regionali.
L'intervento della perequazione risulta in effetti solo eventuale, affidato
a leggi ordinarie esposte a mutevoli rapporti di forza. L'Italia diventerà
così l'Eden dell'ingiustizia, della diseguaglianza, sempre più
esposta però all'esplosione di virulenti conflitti su base territoriale,
sociale, alla destabilizzazione e a rischi crescenti di declino.
A presidio di questa costruzione c'è
l'autoritarismo, un Senato privo di poteri reali, ma capace di formidabili
pressioni per politiche disgregatrici. Qualche giorno fa un attento osservatore
politico segnalava come il Senato, con il premio di maggioranza regionale
della nuova legge elettorale, rischia di avere una maggioranza fragilissima
ma condizionata da poche Regioni. Avete respinto l'idea di Senato federale
paritetico ed ora chi è più forte e più ricco presenta
il conto.
Questa stortura esalterà una caratteristica
insita negli assetti economici del Paese e prodotta negli ultimi lustri.
Per reggere alla concorrenza indotta dalla mondializzazione dell'economia
le imprese hanno ristrutturato la loro organizzazione, hanno anche delocalizzato
produzioni, ma hanno accentrato i loro servizi finanziari, legali e fiscali.
Ciò è avvenuto nell'industria, nella distribuzione commerciale,
nei servizi finanziari nella comunicazione.
La conseguenza è che la raccolta
fiscale imposta sulla ricchezza prodotta diffusamente sul territorio nazionale
viene versata al centro, a Roma o a Milano, città che possono così
vantare una capacità fiscale sovradimensionata. In questo modo,
saranno troppi gli italiani che parteciperanno alla produzione della ricchezza
nazionale ma rischieranno l'esclusione dai benefìci dello Stato
sociale. Detto in altro modo, saranno uguali nella contribuzione, nell'assolvimento
dei doveri, ma avranno diritti dimezzati; pagheranno la stessa aliquota
d'imposta ma riceveranno la metà dei servizi pubblici.
La vostra architettura costituzionale
è rigida, prescinde dallo sviluppo delle forze produttive, ignora
la forza dirompente dei processi storici. Può durare un'architettura
costruita con mattoni impastati con una furbizia di così bassa lega?
Non è forse una miopia dalle conseguenze devastanti?
La Penisola sarà affollata da chi
partecipa alla vita nazionale producendo opere d'ingegno, da chi si sacrifica
in armi per la Patria, da chi ospita in casa esercitazioni militari per
la difesa comune, ma avrà diritti labili perché non è
domiciliato dove le imprese hanno sede legale.
Una Costituzione di tal genere è
come una foglia morta, esposta a tutti i venti, l'Italia soffrirà
per questo. La Costituzione doveva essere rinnovata ed adeguata ad un mondo
profondamente cambiato, ad un'Italia protagonista della costruzione dell'Europa,
proiettata verso l'economia della conoscenza, verso una società
più evoluta e più giusta.
Di tutto questo il Parlamento tornerà
a discutere, dopo che il popolo avrà potuto prendere la parola,
dopo aver cancellato con il referendum questa vostra costruzione. Allora
potremo tutti assieme scrivere una nuova Carta costituzionale che innovi
coraggiosamente, ma che rispetti i valori che la Resistenza antifascista
pose a base della rinascita della nazione: la libertà democratica,
l'uguaglianza e la giustizia. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Basso. Ne ha facoltà.
BASSO (DS-U). Signor Presidente,
signor rappresentante del Governo, "ricatto costituzionale": penso sarà
questa da oggi l'espressione che sarà usata per ricordare il modo
con il quale si è arrivati alla nuova Costituzione.
Subito dopo la liberazione dell'Italia,
uomini liberi e coraggiosi, uomini con il senso dello Stato e delle istituzioni,
uomini che avevano a cuore le sorti del proprio Paese, pur appartenendo
ad ideologie diverse, ebbero la forza e la capacità di arrivare
ad un compromesso costituzionale, frutto dell'incontro delle grandi culture
popolari del Ventesimo secolo. Non il ricatto, quindi, ma il compromesso,
non lo scontro, ma l'incontro.
Altri tempi! Vien da dire che, oggi, rispetto
ad allora, altro sia il personale politico ed altro il modo di concepire
la stessa politica. Noi sappiamo che il Presidente del Consiglio è
l'ispiratore della pratica dei ricatti; ed è sempre il Presidente
del Consiglio ad approfittare del fatto che in quest'Aula e in quella di
Montecitorio muovono tante figure di politici che antepongono la propria
rielezione a parlamentari agli interessi dell'Italia.
Passerà così un'ampia modifica
della Costituzione, passerà in questo modo e per queste ragioni
la legge finanziaria 2006, così come in passato sono state approvate
ingloriose leggi ad personam.
Nei mesi scorsi è stata varata
la controriforma dell'informazione, la controriforma della scuola e della
università, la controriforma della giustizia; sono stati demoliti
importanti diritti in tema di lavoro, previdenza e sanità.
Passerà, ne sono certo, la riforma
elettorale; probabilmente passerà anche la riforma della par condicio,
entrambe proposte che toccano il punto nevralgico delle regole del rinnovo
della rappresentanza politica.
Passerà questo disegno di legge
che vuole riformare la Costituzione, passerà perché se così
non dovesse essere molti parlamentari dell'attuale maggioranza non verrebbero
più ricandidati. Tutti in attesa della riconferma, allora, pronti
a rischiacciare, in futuro, un pulsante a comando!
Il ricatto è forte, fortissimo,
efficace soprattutto nell'era in cui le decisioni, in alcuni casi, vengono
prese non da partiti democraticamente organizzati, ma dal Capo; partiti
senza storia e senza radici, o dalla storia inenarrabile. Alludo a quelli
che sono riusciti a fare incardinare in quest'Aula un provvedimento, quello
del riconoscimento dello status di belligeranti ai repubblichini di Salò,
che di fondamento storico non ha nulla, ma che rappresenta soltanto una
metastasi revisionistica.
Alludo anche a quelli che fino a ieri
hanno apertamente predicato la secessione, quelli del rito dell'ampolla,
sprezzanti e violenti nei confronti degli immigrati, quelli che hanno sequestrato
persino canti e colori, quelli che si fanno imprenditori di un razzismo
possibile. Portatori anche di un razzismo culturale, figlio di una difesa
piuttosto egoistica della propria subcultura che, nel contempo, è
anche rifiuto di culture, valori e stili di vita altrui, con il risultato
di fomentare odi, scontri di civiltà, guerre di religione.
Alludo anche a quelli che in quest'Aula
hanno platealmente mandato a quel paese il presidente emerito della Repubblica
Oscar Luigi Scalfaro del quale conosciamo virtù, rettitudine e intelligenza.
E' vero, oppure no, signor Presidente
del Consiglio? In quella occasione ci è uscito naturale un grido,
incontrollato, forte, al suo indirizzo; abbiamo gridato: vergogna! Rispetti
chi ha egregiamente servito la Repubblica, chi ha trasmesso e trasmette
valori morali alti, chi da protagonista ha contribuito a dare all'Italia
la prima Costituzione democratica. Non mi è parso, non ci è
parso, però di cogliere nel Presidente del Consiglio alcun pentimento.
Eppure si sa, il senso della vergogna
è sempre stato il segno dell'esistenza del sentimento morale. Mai
come oggi l'Italia ha bisogno di essere governata da gente seria ed eticamente
responsabile. Mi fermo qui con le allusioni. A questo punto mi corre l'obbligo
di ricordare che con questa revisione costituzionale si stanno modificando
più di cinquanta articoli. Della II Parte del testo approvato nel
1947 resterà ben poco; la stessa I Parte sarà inficiata nella
sostanza.
È una riforma che modifica la forma
di Stato, definisce la nuova forma di Governo, cambia la struttura del
Parlamento, modifica i rapporti tra Stato e Regioni, cambia i poteri e
le funzioni degli organi di garanzia. E' una riforma che sarà votata
da una maggioranza tenuta sotto scacco, o meglio sotto ricatto, da un solo
partito, per di più minoritariamente radicato in una piccola parte
del territorio nazionale: il partito della Lega Nord.
In Veneto la Lega Nord partecipa in modo
importante al Governo regionale: era ed è della Lega il Presidente
del Consiglio regionale, è della Lega il vice presidente della Giunta.
Il triste primato di questi, soltanto a parole, campioni di federalismo
è quello di non aver varato nel Veneto nemmeno il nuovo Statuto
regionale. Hanno lavorato, si fa per dire, in modo inconcludente per cinque
anni, senza approvare alcunché, perdendo l'occasione importante
di rafforzare l'impianto federalista in una Regione, la mia, che soffre
il confine con due Regioni a statuto speciale, perdendo quindi le opportunità
che, con il varo dello Statuto, la riforma costituzionale del 2001 poteva
consentire.
Viene spontanea una domanda: si crede
o non si crede al federalismo? Non sarà invece che questa cosiddetta
devolution, orrendo termine preso in prestito dall'esperienza britannica
(ma che con quel modello, si sa, non c'entra niente, perché fa violenza
ai contenuti federali, solidaristici e redistributivi della nostra Costituzione),
dovrà essere usata solo per la gestione della prossima campagna
elettorale? Io credo che sarà proprio così. Si venderà
lo spot della devolution, condito magari con le riproposizioni di "padroni
a casa nostra" e di "Roma ladrona". Il problema è di andare alla
campagna elettorale spostando il tiro dal poco che si è fatto in
questi ultimi cinque anni all'illusione dell'autogoverno.
Il problema è farsi giudicare non
per quello che si è fatto, ma per quello che si vorrebbe fare. Il
"case per tutti" di Berlusconi, spot lanciato proprio in questi giorni,
cos'è se non un vacuo impegno per il futuro? L'importante è
far dimenticare il suo "contratto" con gli italiani. E poi, a voi, colleghi
della maggioranza, non interessa se la riforma costituzionale cadrà
prima del traguardo finale. Penso che anche voi siate convinti che con
il referendum il popolo italiano spazzerà via quanto vi accingete
ad approvare.
Perché, pur potendo, non avete
votato prima questa riforma? Perché avete proceduto così
lentamente? La verità è che per voi diventava fondamentale
evitare una bruciante sconfitta prima delle elezioni politiche della primavera
2006. La verità è che voterete questa legge perché,
diversamente, la Lega sarebbe uscita dalla maggioranza, provocando la crisi
di Governo.
Ecco perché - lo affermo nuovamente
- questa revisione costituzionale discende dal ricatto politico. In cambio
la Lega approverà altre leggi, Alleanza Nazionale chiederà
l'approvazione di altre ancora: un do ut des continuo su tutto, Costituzione
compresa, che diventa in questo caso oggetto di scambio.
C'è di che preoccuparsi: l'Italia
è in pasto ai ricatti. Questa non è la riforma del codice
della strada, ma la riforma della Carta costituzionale. Cito le parole
del Presidente della Repubblica: "Certo che può essere modificata,
ma avendo ben presente che nel suo impianto generale essa ha dimostrato
una straordinaria vitalità, che suscita rispetto e ammirazione (...).
Essa ha costituito presidio della comunità nazionale, tratto distintivo
della nostra identità moderna".
E allora la prima obiezione riguarda il
modo con il quale si è voluto procedere. In questi casi il metodo
è anche sostanza. Si sa come si sia escluso da subito l'obiettivo
di una riforma bipartisan, realizzata a prescindere dalle maggioranze e
dalle convenienze politiche del momento.
Vi assicuro, voi lo sapete, che anche
nell'attuale opposizione c'era la consapevolezza che qualche modifica doveva
essere apportata, anche perché la riforma del 2001, votata a stretta
maggioranza dal centro-sinistra, si era limitata a recepire quelle proposte
di modifica che avevano trovato largo consenso nell'Assemblea bicamerale.
Una riforma costituzionale non va mai
attuata a colpi di maggioranza. Chi detiene la maggioranza parlamentare
deve avere la capacità di coinvolgere le opposizioni; deve respingere
le contingenze che determinano i vincoli di opportunità politica;
deve adoperarsi affinché al centro di qualsiasi legge ci sia il
bene comune.
Forse tra i problemi aperti dalla riforma
elettorale del 2001 rimaneva quello di rendere più coerente la Costituzione
con un sistema elettorale che consentisse agli elettori di decidere direttamente
il Governo del Paese. Anche da questo punto di vista, con la riforma elettorale
che vi accingete a votare, e che reintroduce il sistema proporzionale,
andate in una direzione esattamente opposta, assolutamente contraddittoria
con la vostra riforma costituzionale.
Rimane aperto anche il problema di rendere
più flessibile la ripartizione per materie tra Stato e Regioni,
individuando nel Senato federale una importante sede parlamentare di cooperazione.
A questo proposito avete introdotto solo
confusione: da un lato il testo di riforma allude a competenze regionali
esclusive (scuola, sanità e polizia locale); nel contempo, dall'altro,
si afferma che sulle stesse materie c'è una competenza statale.
C'è, credetemi, da augurare buon lavoro alla Corte costituzionale
sulla quale si scaricheranno fior di conflitti.
Lo stesso Senato, più che federale,
appare come una controparte di Governo e Camera dei deputati. II processo
di riforma istituzionale varato agli inizi del 2001 prevedeva oltre all'autonomia
finanziaria un ampliamento delle funzioni degli enti cosiddetti sub-statali;
l'attuazione di queste norme non ha mai avuto luogo, né sono stati
emanati i decreti delegati previsti, costringendo così la finanza
locale alla frammentarietà e alla contraddittorietà e affidandola,
essenzialmente, alle leggi finanziarie che, come nel caso di quella di
quest'anno, accentuano le restrizioni e riducono i margini di manovra degli
enti locali nonché la loro stessa autonomia. Mai visto, credetemi,
un Governo così centralista!
Avete tentato anche le mediazioni al vostro
interno, con il risultato di produrre marmellata, perché opposte
erano le aspettative. Avete partorito una riforma sulla base della quale
il Presidente del Consiglio è onnipotente verso la Camera dei deputati,
ma impotente verso il Senato.
Sul Capo dello Stato si abbatterà
una riduzione di poteri e una limitazione del suo ruolo. Lo stesso discorso
vale per la Corte costituzionale, schiacciata da competenze improprie e
colpita nella sua composizione. Espedienti furbeschi pesano come macigni
sulle istituzioni di garanzia.
Nel contempo, aumentano i poteri del Presidente
del Consiglio, cosa che non ci vede contrari in linea di principio, ma
che ci costringe ad esserlo perché manca qualsiasi contrappeso a
questi poteri: non lo sono né la Camera dei deputati, né
il Presidente della Repubblica, né il Senato federale.
Male, molto male, onorevoli colleghi!
Non c'era modo peggiore per voi, colleghi della maggioranza, di chiudere
questa legislatura.
Sappiate che ad aprile ci penserà
il popolo italiano a porre termine ad una vera e propria emergenza e a
ridare onore e dignità al Parlamento e al nostro Paese. (Applausi
dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e del senatore Michelini).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Gaglione. Ne ha facoltà.
GAGLIONE (Mar-DL-U). Signor Presidente,
onorevoli senatori, la codificazione del diritto in Italia si è
posta, sin dai tempi del nostro Risorgimento, traguardi avanzati ed elevatissimi.
Ha sempre operato secondo una nobile linea di continuità con il
passato, impostando ogni innovazione sul completamento ed il perfezionamento
dei principali istituti sui quali l'apparato statale italiano si è
fondato nel tempo.
Dall'unificazione legislativa alla Costituzione
repubblicana, il diritto italiano è maturato nella solennità
e nella solidità della tradizione liberale, riuscendo nel grande
intento di costruire leggi che fossero al tempo stesso conquiste immediate
per la società civile e grandi scommesse per le generazioni future.
La Costituzione repubblicana, che la maggioranza
purtroppo si appresta a modificare, ha rappresentato la sintesi storica
più alta, in continuità con le più avanzate e consapevoli
spinte innovataci del cattolicesimo, del marxismo e del liberalismo.
Questo Governo, oggi, con le modifiche
costituzionali, ma più in generale con la pesante caratterizzazione
politica e personalistica di quasi tutte le leggi che promuove, rappresenta
un momento di rottura storica senza precedenti con la tradizionale civiltà
giuridica italiana.
La devolution non è altro che la
distruzione dei presupposti fondamentali su cui poggia lo Stato unitario.
Con il paravento di un falso e sbalestrato federalismo, ci si appresta
a trasferire alle Regioni importanti poteri in materia di sanità,
istruzione e, addirittura, polizia.
Un drammatico passo indietro, una frammentazione
disordinata, che non farà altro che accentuare il divario, ancora
evidente, fra il Mezzogiorno e il Nord Italia.
Questo Governo passerà alla storia
per avere interrotto il lungo e faticoso percorso della nostra più
alta tradizione, perché questa riforma è il frutto dei particolarismi
e dei ricatti che tengono insieme la compagine politica che lo sostiene.
Il centro-destra stravolge il testo costituzionale del 1948, denso di significati
storici e di ideali irrinunciabili e universali, pagati con il sacrificio
dei nostri Padri, con l'unico intento di tenere maldestramente coesa la
maggioranza.
Con la devolution si cambiano in modo
radicale i rapporti che storicamente si sono determinati tra lo Stato centrale
e le Regioni e tra le stesse Regioni e i cittadini italiani, solo per pagare
il tributo alla Lega Nord.
Con questa riforma la Lega porta all'incasso
un credito maturato in questi anni nei confronti dei suoi alleati. Con
l'appoggio del partito di Bossi, sono stati inferti colpi mortali ai princìpi
della generalità e dell'astrattezza delle norme (presupposti fondamentali
a cui devono ispirarsi le leggi di un Governo democratico).
Purtroppo, gli innumerevoli provvedimenti,
approvati in questa legislatura per favorire Berlusconi ed i suoi amici
non rispettano neppure lontanamente questi requisiti minimi, perché
sono stati adottati avendo a riferimento fatti e persone ben individuabili.
Contro ogni senso dello Stato e delle
istituzioni, e a danno di tutti gli italiani, i partiti della maggioranza
hanno tenuto fede ad uno scellerato patto di scambio, un pericoloso do
ut des con il quale si soddisfano le esigenze particolari di chi sostiene
il Governo.
Oggi il futuro dell'Italia è sempre
più incerto e precario, l'economia è ai minimi storici e
la stragrande maggioranza degli italiani fa fatica ad arrivare a fine mese,
ma per il centro-destra queste non sono questioni prioritarie e importanti
quanto la devolution.
Noi parlamentari dell'opposizione ci battiamo
oggi contro questa riforma costituzionale e continueremo a batterci anche
dopo la sua approvazione: l'unità d'Italia e la sua identità
nazionale sono valori comuni a tutti i rappresentanti del popolo italiano
e dovrebbero essere il collante delle differenti visioni politiche che
legittimamente si confrontano nella vita nel nostro Paese.
Con la devolution, inevitabilmente, si
colpiscono gravemente quei valori che accomunano e si alimentano, invece,
i particolarismi, l'egoismo e le ragioni dei più forti. Si realizza,
cioè, una frammentazione del sistema di tutela dei fondamentali
ed essenziali diritti dei cittadini, a danno delle Regioni più disagiate
e meno competitive.
Se passerà questa riforma costituzionale,
su questioni in materia di sanità, scuola e sicurezza le Regioni
potranno legiferare in piena autonomia e conseguentemente - in quelle più
ricche - saranno offerti ai cittadini migliori opportunità, mentre
in quelle più povere aumenteranno gli svantaggi e si approfondirà
ancora di più la frattura storica esistente tra Nord e Sud.
La devoluzione nel sistema sanitario produrrà
nuovi assetti al nostro Sistema sanitario nazionale, se non addirittura
il suo superamento attraverso lo sviluppo di possibili forme di concorrenza
fiscale, dannose per lo sviluppo economico del nostro Paese.
Nell'ordinamento scolastico la riforma
frantumerà l'unità culturale del Paese e l'istruzione sarà
al servizio degli interessi delle maggioranze regionali. Ed è davvero
avvilente pensare che mentre la prospettiva che l'Italia ha davanti è
quella di contribuire a costruire l'armonizzazione e l'unita delle culture
e dei saperi europei, con la riforma di Bossi si sceglie invece di frantumare
l'identità nazionale della scuola in uno spezzatino di tanti minisistemi
regionali con programmi di studio e perfino con contratti e retribuzioni
degli operatori scolastici differenziati.
In materia di sicurezza, poi, sarà
difficile immaginare un arcipelago di polizie locali al servizio dei governatori
di turno. Le istituzioni che vigilano sulla sicurezza dei cittadini nel
nostro Paese - Carabinieri, Polizia e Guardia di finanza - hanno bisogno
di essere potenziate. C'è bisogno di stanziare maggiori risorse
per ripagarli dei sacrifici che fanno quotidianamente, ma certamente non
c'è alcun bisogno di altri corpi, magari con il fazzoletto verde
per compiacere qualcuno.
Per non parlare del più grande
pericolo di deformazione dei connotati della nostra democrazia insito nella
riforma come conseguenza dell'attribuzione al Primo ministro di un controllo
sostanziale e quindi su tutte le scelte decisive per le sorti del Paese
e per la regolamentazione dei diritti fondamentali dei cittadini. Se la
riforma passerà ci troveremo di fronte ad una inammissibile modificazione
del ruolo del Parlamento e dello stesso principio della divisione dei poteri
che è il cardine di ogni moderno stato costituzionale.
Una riforma che cambia la struttura del
Parlamento, rendendo farraginosa e difficile la produzione legislativa;
che modifica la forma del governo rafforzando il potere dell'Esecutivo
e del Primo ministro, che attribuisce al Premier il potere di promuovere
l'attività dei Ministri e di nominarli e di revocarli a sua piacimento.
Di fronte a tanto, noi parlamentari siamo
chiamati a vigilare sulla progressiva riduzione degli spazi di libertà:
la Costituzione italiana è l'affermazione solenne della solidarietà
sociale, della solidarietà umana, della sorte comune di un'intera
popolazione. La peggiore offesa che si possa materializzazione verso il
nostro testo costituzionale è l'indifferenza verso i valori che
lo hanno animato e verso le speranze che esso ha dato al nostro Paese.
(Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Flammia. Ne ha facoltà.
FLAMMIA (DS-U). Onestamente, signor
Presidente, non credo di poter aggiungere argomenti nuovi ai tanti già
egregiamente illustrati dai colleghi che mi hanno preceduto nella seduta
odierna e nei dibattiti delle precedenti sessioni che hanno accompagnato
questo provvedimento.
Sento comunque il bisogno di parlare sull'argomento
e lo faccio, non so se per lasciare una testimonianza agli atti, se per
recitare un atto di dolore rispetto a tutta una vita trascorsa nella scuola
a insegnare la storia del nostro Paese e il rispetto dell'identità
nazionale o per invocare il Padre Eterno perché perdoni coloro che
non sanno quello che fanno, nel senso che sembrano non avere i fondamenti
per capire il danno che stanno facendo all'unità, all'identità,
alla convivenza civile del nostro Paese.
Dopo aver ascoltato le elucubrazioni degli
esponenti della maggioranza, a cominciare dai senatori D'Onofrio e Nania,
invero non so nemmeno se sia il caso di rivolgersi a chi non vuole e forse
non è in grado di recepire alcun ragionamento.
Basta guardare agli scanni vuoti per avere
chiara la percezione della situazione paradossale ed allucinante nella
quale ci troviamo. Qui si sta cambiando la Costituzione e non una legge
qualsiasi.
Rispetto a questa totale chiusura e prepotenza
da parte della maggioranza mi domando se non sia più realistica
la situazione che ho vissuto da professore allorché il suono insistente
di una campana sollecitava inutilmente un gruppo di ragazzini assonnati
ad uscire dal letargo e ad ascoltare le parole dell'insegnante.
Riandando con la mente a ciò che
è accaduto a conclusione delle precedenti sessioni di lavoro sul
tema e alle goliardate che si preannunciano alla fine di questa sessione
con sventolio di bandiere verdi, mi domando se quella dell'opposizione
non sia una situazione molto dissimile da quella che è costretta
a vivere un gruppo di avventori in un bar che cercano invano di frenare
la baldoria di un crocchio di persone ebbre e poco disponibili all'ascolto
e al rispetto degli altri.
Mi domando, ahimè, se non sia più
facile il compito di quei tutori dell'ordine che allo stadio cercano invano
di frenare l'irruenza di gruppi di facinorosi che dalla curva sfasciano
tutto.
A questo punto, dopo aver ascoltato tante
farneticazioni, pur non essendo un cattolico solerte e rigorosamente praticante,
ispirandomi liberamente a qualche memorabile pagina del Vangelo, mi permetto
- forse questa è la cosa migliore da fare - di rivolgere un'umile
preghiera al Padre Eterno ed è quello che voglio fare.
Signore pietà! Perdona me che,
dopo aver preteso per tanti anni di trasmettere nelle scuole a migliaia
di ragazzi il senso dell'identità e dell'unità nazionale
e dopo aver stigmatizzato anche con qualche cattivo voto il comportamento
pigro, svogliato e negligente di qualche studente, oggi in quest'Aula vuota
non sono in grado di farmi ascoltare e sono costretto ad assistere impotente
al calpestamento della Costituzione e della storia del nostro Paese.
Signore, tu che tutto puoi, libera colui
che si dichiara unto tuo dal compito di sacrificarsi ulteriormente per
questo Paese già così ricco di telefonini ed automobili,
come dice lui, e concedigli di godersi la vita a Tahiti o a Santo Domingo
in compagnia dei suoi cortigiani o, se proprio gli è tanto caro,
di trastullarsi con il fido Apicella sull'Isola dei famosi.
Concedi, o Signore, ai saggi che a Lorenzago
si sono spremuti tanto per calpestare la nostra Costituzione di poter tornare
in quel luogo ameno e lì rimanere a godersi la vita per lunghi e
lunghi anni, nel conforto di ville e piscine, ma non oscurare, con la loro
presenza, la gloria di tanti legislatori della storia, non mettere in difficoltà
con Calderoli, Nania, D'Onofrio e Pastore i vari Solone, Licurgo, Pericle,
Montesquieu, Sturzo, Terracini, De Nicola e quant'altri.
Assicura loro lunga vita, Signore, e anche
alla Vestale di Pontida. Non ti arrabbiare se costui promuove sacrifici
al dio Po, considerato che in fondo anche questo fiume è una tua
creatura, per giunta tanto maltrattata. Pertanto, non dovrebbero infastidirti
gli omaggi a lui tributati nei riti fatti sui suoi argini; oltre tutto
è sempre meglio, Signore, che vengano fatti sacrifici al dio Po
che essere sacrificati i princìpi della Costituzione.
Concedi poi, Signore, un po' di memoria
a questi signori affinché non sostengano, con tanta spocchia, come
abbiamo dovuto assistere, tutto e il contrario di tutto, a seconda delle
circostanze e degli interessi elettorali.
Concedi, infine, Signore, lunga vita a
questi distruttori della storia patria per non turbare la serenità
dei Padri della Patria, dei meridionalisti, di coloro che si sono sacrificati
per questo nostro Paese, che sono oggi nel tuo Regno.
Aspetta, caro Signore, a giudicarli e
lascia che a giudicarli siano prima gli elettori italiani. Amen. (Applausi
dal Gruppo DS-U).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Vallone. Ne ha facoltà.
VALLONE (Mar-DL-U). Signor Presidente,
signor Sottosegretario, già guardandosi attorno ci si rende conto
dell'apatia di questo dibattito: incredibile.
Fermiamoci per un attimo a quello che
avvenne nel 1948: l'attesa del popolo, del Paese di un momento di grande
felicità; la voglia e la determinazione di una Carta che univa il
Paese dopo anni di dittatura: le Tavole della convivenza.
Invece qui, stiamo per modificarla e c'è
un'apatia generalizzata, un'indifferenza: questo denota come è stato
gestito e governato un processo così alto. Questa maggioranza non
potrà vantare questo risultato; un risultato che sicuramente sarà
messo in discussione dai cittadini di questo Paese, dal momento che non
si possono modificare le Tavole della convivenza senza un coinvolgimento
generalizzato, perché la convivenza è di tutti, non può
essere di pochi e il rispetto di tutte le parti è fondamentale.
E allora, signor Presidente, forse sarà
eccessiva l'iperbole del professor Giovanni Sartori, che ha definito il
progetto di riforma in titolo una "Costituzione incostituzionale". Ma di
sicuro la riforma che vi accingete a varare è un mostro giuridico.
Un orribile Frankenstein del diritto, che cammina malfermo e calpesta i
princìpi e i valori della Costituzione repubblicana del 1948, la
quale ha garantito a questo Paese quasi sessant'anni di pace, di democrazia,
di libertà e progresso.
Il presidente Ciampi, che su quella Costituzione
ha giurato e della quale è il garante per esplicita indicazione
dell'articolo 87, avverte il pericolo. E continua a lanciare l'allarme.
Attraverso la norma che stabilisce che
il Primo ministro "determina", anziché "dirige", la politica nazionale
(articolo 33 del disegno di legge in titolo), il nostro regime parlamentare
viene trasformato in regime elettorale del Premier e svuotato di ogni flessibilità.
Il passaggio del potere di scioglimento
della Camera dei deputati dalle mani del Presidente della Repubblica a
quelle del Premier (articolo 27, lettera a)) non è tanto un rafforzamento
e una stabilizzazione dei poteri di Governo, quanto un impoverimento delle
risorse e delle garanzie istituzionali del sistema.
Il Capo dello Stato è ristretto
espressamente, dall'articolo 26, ad un piccolo catalogo di competenze,
proprio per vietargli la specifica missione, che la nostra storia costituzionale
da sempre gli assegna, di alto arbitrato politico-costituzionale tra Governo,
Parlamento e corpo elettorale.
Di fronte ad un sistema centrale così
irrigidito e a un Primo ministro che, tra un'elezione e l'altra, può
vivere di rendita, senza Parlamento né Presidente della Repubblica
cui veramente rispondere, c'è, però, si dice, il sistema
regionale.
Il Senato dovrebbe essere il naturale
raccordo tra l'uno e l'altro sistema, ma così non è. Per
comporre i conflitti tra Stato e Regioni è stata ripescata la formula
genericamente politica di "interesse nazionale della Repubblica" (articolo
45).
Per dare un senso più giuridico
e concreto a questa formula, si sarebbe dovuto estrarre dall'attuale testo
della Costituzione - come proposto dalle Regioni e dall'opposizione - i
veri contenuti dell'interesse nazionale. Vale a dire: i livelli essenziali
dei diritti civili e sociali da garantire in ogni parte del territorio
della Repubblica; l'unità giuridica e l'unità economica dell'ordinamento;
nonché il riequilibrio delle risorse finanziarie. Vuota com'è,
questa formula, è addirittura pericolosa: il nuovo Senato non solo
non riuscirà mai a utilizzarla, ma, peggio, come temono le Regioni,
diventerà il loro "controllore".
È in questa incerta carta geografica
legislativa che s'inserisce il vostro feticcio della devolution e si inquadra
l'aggettivo "esclusiva", relativamente alla legislazione regionale in materia
di organizzazione sanitaria, scolastica e di polizia amministrativa locale,
aggettivo usato dall'articolo 39, comma 10, della riforma in titolo.
Da questo aggettivo si percepisce fin
troppo bene il tentativo di forzare la mano sui grandi sistemi nazionali,
di operare una secessione di fatto nelle zone costituzionali di uguaglianza
e solidarietà, sanciti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione.
Al di là di tutte le gravissime
criticità testè ricordate, di questa riforma sfugge il reale
costo: il mostro è spaventosamente pericoloso, non solo in termini
giuridici, ma anche economici.
Secondo la Scuola superiore dell'economia
e delle finanze e la Ragioneria generale della Stato, l'attuazione del
federalismo potrebbe comportare una spesa che varierebbe da un massimo
di 16,7 miliardi di euro a un minimo di 7,2 miliardi di euro. Costi che
lasciano fuori il prezzo della devolution, quantificata da altri studi
in ben 50 miliardi di euro, dei quali i capitoli più pesanti riguardano
istruzione e ricerca scientifica, che mobiliterebbero rispettivamente risorse
pari a 7,6 e 3,8 miliardi. Mentre il "prezzo" per portare in periferia
polizia e formazione è stimato in circa 47 milioni di euro.
Presidenza del vice presidente FISICHELLA
(ore 21,50)
(Segue VALLONE). Due giorni fa la Consulta
ha giudicato incostituzionali, in quanto in contrasto con gli articoli
117 e 119 della Carta riformata nel 2000, due norme della finanziaria 2004,
con le quali il Governo aveva obbligato gli enti locali a tagli di spesa
su beni e servizi, invadendone l'autonomia finanziaria. E' sintomatico
che tale ingerenza provenga da un Governo e da una maggioranza che hanno
fatto, proprio della devolution, il loro cavallo di battaglia.
Colleghi, più che un cavallo, questa
devolution ci sembra francamente un malconcio ronzino azzoppato. Predicate
bene, ma razzolate male, dite che volete decentrare e poi intervenite anche
nelle competenze degli enti locali. Prova ne è la sentenza di questi
giorni.
Alla luce di tutto ciò, vi chiedo:
avete fatto bene i conti di quanto costerà fare a pezzi l'Italia?
Perché di questo si tratta, di farla a pezzi.
Colleghi, le forze politiche di opposizione
sono orgogliose per aver combattuto una battaglia come questa. Non l'avremmo
voluto, ma siamo convinti che questa battaglia continuerà successivamente;
siamo convinti che i valori fondanti della Carta repubblicana sapranno
rappresentare non solo il nostro passato, ma anche il futuro delle prossime
generazioni.
Quanto a voi, colleghi della maggioranza,
voglio ricordarvi l'esortazione che l'11 marzo 1947 all'Assemblea costituente,
Benedetto Croce pronunciò sul progetto di Costituzione: "Ciascuno
di noi si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi,
col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso". Croce, davanti
a un'Assemblea attonita, riuscì a toccare le coscienze di tutti.
Chissà quanti di voi, domani, sentiranno nelle proprie coscienze
quel "rimorso pungente e vergognoso". (Applausi dai Gruppi Mar-DL-U e DS-U)
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Rotondo. Ne ha facoltà.
ROTONDO (DS-U). Signor Presidente,
i colleghi di centro-sinistra che mi hanno preceduto hanno ampiamente illustrato
le ragioni politiche e giuridiche che spiegano perché la nostra
opposizione al progetto di revisione costituzionale che stiamo discutendo
è totale e di principio. Farò qualche considerazione aggiuntiva
su un tema che più ha contribuito a scavare un fossato incolmabile
tra il nostro punto di vista e quello della maggioranza di Governo: la
devoluzione.
Signor Presidente, la devolution non ci
piace, per la semplice ragione che non vogliamo che in Italia ci siano
tanti sistemi sanitari e di istruzione diversi quante sono le Regioni,
una frammentazione che spaccherebbe il Paese e romperebbe il principio
dell'uguaglianza dei diritti fra tutti i cittadini.
Scuola e sanità sono i pilastri
del welfare del XXI secolo, sono il cuore dei diritti di cittadinanza del
futuro e nessuna forza politica avveduta e responsabile può consentire
che, proprio su questo versante decisivo, si crei una disparità
di trattamento fra quanti appartengono alla stessa comunità nazionale,
che si consumi una frattura insanabile tra diverse aree geografiche del
Paese.
Se è vero, secondo la definizione
dell'Organizzazione mondiale della sanità, che la salute è
benessere fisico e psichico, un tassello fondamentale cioè della
qualità della vita, il sistema sanitario prossimo venturo sarà
esposto a pressioni crescenti perché allarghi la gamma delle sue
prestazioni, perché assicuri oltre al diritto alla salute anche
il diritto allo star bene.
A dispetto del vincolo dell'interesse
nazionale, che i colleghi di Alleanza Nazionale ci sbandierano ad ogni
piè sospinto quasi si trattasse di una diga invalicabile, è
molto probabile che la Lombardia ed il Veneto marceranno speditamente verso
una sanità intesa come diritto a star bene, mentre in Sicilia o
in Calabria sarà problematico garantire anche gli standard attuali,
già così vistosamente insoddisfacenti.
Il caso italiano è, poi, seriamente
complicato dall'invecchiamento della popolazione. L'Italia è il
Paese che in Europa ha già oggi la più alta quota di anziani:
nel 2000 gli ultrasessantacinquenni erano in Italia il 18,2 per cento della
popolazione totale contro il 16,4 per cento della Germania, il 16 per cento
del Regno Unito, il 15,9 per cento della Francia e il 15,4 per cento della
Spagna, e si prevede diventeranno nel 2005 il 26,1 per cento in Italia,
il 23, 5 per cento in Spagna, il 23,4 per cento in Germania, eccetera.
In altre parole, il distacco tra l'Italia e gli altri grandi Paesi Europei
tende ad aumentare: era mediamente di 2 punti nel 2000, salirà a
4 punti nel 2025.
Questo, se da un lato ci deve inorgoglire,
perché testimonia una migliore qualità della vita ed anche
- perché no? - una buona sanità, dall'altro lato, crea problemi
drammatici di sostenibilità finanziaria. Quanto più si va
avanti negli anni, tanto più aumenta la quota di persone colpite
da patologie invalidanti, aumenta il numero di anziani che per essere mantenuti
in buona salute hanno comunque bisogno di un forte sostegno medico e farmacologico.
Tutto questo è segno di civiltà, ma pone problemi di costi,
che crescono in maniera esponenziale man mano che aumenta il numero dei
grandi vecchi.
Anche su questo fronte i dati segnalano
l'allarme rosso: tra il 2000 e il 2025 gli anziani passeranno in Italia
da 10,4 milioni a 13,4 milioni, con un incremento del 29 per cento, ma
i molto anziani, le persone cioè con più di ottant'anni aumenteranno
da 2,3 milioni a 3,9 milioni, con un incremento del 70 per cento.
In questo scenario è probabile
che, nonostante la clausola dell'interesse nazionale tanto cara all'onorevole
Fini e al senatore Nania, le ricche Regioni del Nord riusciranno a garantire
cure di elevato livello insieme all'assistenza domiciliare e a quella ai
non autosufficienti, mentre nelle Regioni del Sud gli anziani dovranno
accontentarsi, se tutto andrà bene, delle cure strettamente indispensabili
e a pagare in cambio ticket sempre più elevati, un modo sciagurato
di spaccare l'Italia in due, di creare cittadini di serie A e cittadini
di serie B.
Non molto diverso è il quadro per
quanto riguarda l'istruzione. È vero che con la devoluzione la competenza
esclusiva delle Regioni è limitata all'organizzazione scolastica,
alla gestione degli istituti di formazione professionale, alla definizione
di quella parte dei programmi scolastici che sono di interesse specifico
locale, che le Regioni insomma non potranno mettere becco sugli indirizzi
dell'istruzione primaria, secondaria e universitaria, che restano di competenza
esclusiva del Governo centrale, ma è anche vero che a fare la differenza
nella società di domani non sono i programmi scolastici ma il diritto
allo studio e la formazione permanente.
Ma è anche vero che a fare la differenza
nella società di domani non saranno i programmi scolastici, ma il
diritto allo studio e la formazione permanente. Alleanza nazionale non
potrà invocare la violazione dell'interesse nazionale se una ricca
Regione del Nord assicurerà ai suoi studenti residenze universitarie
gratuite o metterà a disposizione dei propri giovani, meritevoli
ma sprovvisti di mezzi, un congruo numero di borse di studio per frequentare
le università più blasonate del mondo (da Harvard a Cambridge,
da Berkeley alla Sorbona), sol perché la Regione Sicilia non sarà
grado di assicurare un contributo per l'affitto agli studenti fuori sede
dell'Università di Enna.
Così come non potrà chiedere
al Parlamento nazionale di annullare un'eventuale legge della Regione Piemonte
che garantisce ai suoi cittadini forme di apprendimento per tutta la vita,
la famosa politica anglosassone delle "tre elle" (long live learning),
sol perché la Regione Sicilia non avrà neppure le risorse
per i corsi di riqualificazione degli operai FIAT di Termini Imerese, alle
prese con i processi di innovazione tecnologica.
Nell'era dell'economia della conoscenza
l'uguaglianza delle opportunità passa soprattutto attraverso il
diritto allo studio e la formazione permanente. La mobilità ascendente
funziona solo per chi può far valere elevati livelli di istruzione
o ha la possibilità di aggiornare e arricchire continuamente, nel
corso degli anni, il proprio patrimonio culturale. Sottoposta alla prova
del nove dei fatti, la clausola dell'interesse nazionale si rivelerà
per quella che è: un'innocua foglia di fico, inventata per salvare
la faccia a un partito che pretende di avere il monopolio dei valori patriottici,
perché scrive la parola nazione con la N maiuscola.
Umberto Bossi non ha fatto mai mistero
che la devolution a lui serve come scorciatoia per arrivare al federalismo
fiscale e impedire a Roma ladrona e ai meridionali di mettere le mani sui
danari dei padani. Un obiettivo che non fa una grinza visto nell'ottica
di un partito regionale, bottegaio, e un po' razzista, come la Lega.
Meno comprensibile è che a reggere
il sacco a Bossi siano stati, oltre ai capi nazionali della Casa delle
Libertà (da Berlusconi a Fini), anche gli esponenti siciliani più
in vista di quello schieramento. A questo riguardo vorrei spendere due
parole sul modo grottesco con cui è stato gestito dal presidente
della Regione Sicilia, Cuffaro, ma anche dai ministri La Loggia e Miccichè
e dal senatore Schifani, l'accordo sull'attuazione dell'articolo 37 dello
statuto siciliano. Un episodio che è passato quasi sotto silenzio
e che è noto solo a una ristretta cerchia di addetti ai lavori.
Pensato nel convulso dopoguerra per arginare
l'ondata separatista, e rimasto per cinquant'anni sulla carta, l'articolo
37 attribuisce alla Regione il diritto di tassare il reddito prodotto dagli
stabilimenti localizzati in Sicilia, anche se questi fanno capo a imprese
che hanno la sede legale altrove, ed è diventato operante proprio
qualche settimana fa.
In base a un accordo tra la giunta Cuffaro
e il Governo Berlusconi, è stato escogitato un bizzarro scambio
con cui lo Stato restituisce alla Regione la quota di prelievo fiscale
di sua spettanza e in cambio trasferisce competenze, che in base allo statuto
avrebbero dovuto essere esercitate dalla Regione, e che finora erano state,
invece, gestite dal centro.
Il decreto con cui l'accordo è
stato messo nero su bianco, non specifica quali siano queste competenze.
E si limita sibillinamente ad aggiungere che con decreto dirigenziale del
Ministero dell'economia, d'intesa con l'assessorato siciliano al bilancio,
si provvedere alla "definizione delle modalità applicative". Ma
non ci sono dubbi, come ha argutamente osservato il segretario dei DS siciliani,
Angelo Capodicasa, che siamo in presenza di una polpetta avvelenata: nella
migliore delle ipotesi lo Stato si è ripreso con la mano sinistra
quel che aveva dato con la mano destra, se non addirittura di più.
Stretto dalla necessità di recuperare
soldi come che sia alla vigilia della campagna elettorale in Sicilia, il
presidente Cuffaro si è fatto raggirare, probabilmente più
per cinismo che per ingenuità, dal ministro Tremonti, il quale gli
ha confezionato una soluzione che è fatta su misura più per
la Lega Nord che per la Regione Sicilia perché prefigura il modello
di federalismo fiscale che tanto piace all'onorevole Bossi, in cui ogni
Regione si tiene stretto il proprio gettito fiscale o lo utilizza per far
fronte alle esigenze del proprio territorio.
L'accordo sull'articolo 37, che ha avuto
il plauso non disinteressato del ministro Maroni, è un pericoloso
cavallo di Troia, che spiana la strada ai disegni disgregatori della Lega,
e sarà duramente respinto dai siciliani non appena diventeranno
chiari tutti i termini dell'improvvido scambio. Così come sarà
respinto dalla stragrande maggioranza degli italiani l'insieme del progetto
di riforma costituzionale che viene imposto al Paese a colpi di maggioranza,
e che di esso faranno piazza pulita non appena si terrà il referendum
confermativo. (Applausi dal Gruppo DS-U e dei senatori Bastianoni e Magnalbò).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Bastianoni. Ne ha facoltà.
BASTIANONI (Mar-DL-U). Signor Presidente,
questo disegno di legge di modifica della Parte seconda della Costituzione,
su cui il Senato si accinge ad esprimersi in via definitiva, è frutto,
come è noto, di un'elaborazione tutta chiusa all'interno della maggioranza,
direi blindata, senza un minimo di condivisione con i Gruppi dell'opposizione.
Quindi, potremmo dire che, già
nel metodo, si pone ai limiti della legittimità, poiché dal
punto di vista giuridico utilizza una procedura di aggiustamento, l'articolo
138, per riscrivere, anzi potremmo dire per stravolgere, ben 48 articoli,
cioè circa la metà della nostra Carta costituzionale. E qui
vorrei sfatare un mito, un falso mito, spesso richiamato dai Gruppi di
maggioranza, secondo il quale la riforma del Titolo V della Costituzione,
avvenuta nella scorsa legislatura ad opera del Governo di centro-sinistra,
costituisce un precedente.
Questo è il mito, il falso mito
che va sfatato: quella riforma del Titolo V fu il prodotto intanto del
lavoro di oltre un anno della Commissione bicamerale, poi mandata all'aria
dal capo dell'opposizione che, per altre ragioni, non condivideva il percorso
sul quale all'inizio aveva convenuto. Inoltre, quel testo, oltre ad essere
votato dalla Commissione bicamerale, fu il risultato di una richiesta pressante
da parte della Conferenza delle Regioni, che a me pare di ricordare fosse
presieduta dall'onorevole Ghigo, allora Presidente della Regione Piemonte,
e composta da altri autorevoli Presidenti di Regioni, come Formigoni, Fitto
ed altri.
Mi pare di ricordare che quella riforma
fu richiesta anche dall'ANCI, dall'UNCEM e dall'UPI. Fu, quindi, una riforma,
ancorché tra luci ed ombre, comunque varata dopo un dibattito, dopo
un confronto; su questo provvedimento vi fu pertanto un dibattito, un dialogo.
Questa volta non vi è stata alcuna
disponibilità ad entrare nel merito di un discorso minimamente condiviso
con i Gruppi dell'opposizione. Stiamo modificando la Costituzione, non
stiamo votando un decreto-legge, non stiamo votando una norma per la quale
il Governo ha dei tempi contingentati entro i quali deve procedere, perché
altrimenti si possono creare dei problemi nell'azione dell'Esecutivo.
Signor Presidente, per quanto riguarda
il merito, elenco rapidamente i temi chiave: l'assetto delle competenze
tra Stato e Regioni, la cosiddetta devolution, il bicameralismo, i rapporti
tra il Primo Ministro, il Governo e il Presidente della Repubblica, la
composizione e il funzionamento della Corte costituzionale. Vi sono naturalmente
connessioni dirette tra questi temi, ad esempio tra Regioni e bicameralismo,
con la previsione di norme concernenti il cosiddetto Senato federale, che
interessano in particolare questo ramo del Parlamento.
A causa del tempo limitato a disposizione,
mi limiterò a svolgere alcune considerazioni solo su alcuni aspetti
di questa legge. Si è detto che questo testo si caratterizza in
particolare per la cosiddetta devolution, che prevede l'attribuzione di
una competenza esclusiva alle Regioni in alcune materie specifiche, quali
assistenza ed organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, polizia
amministrativa regionale e locale.
Una prima valutazione: era intanto necessario
intraprendere la strada di migliorare il funzionamento dell'attuale regionalismo
in materia di amministrazione e di finanziamento, perché questo
è il nodo vero, il finanziamento del regionalismo, del federalismo.
Quali risorse vengono poste per dare attuazione a questa previsione di
legge? Il federalismo fiscale come viene concepito? Questo è il
punto vero.
Si è scelto, di introdurre un'improbabile
devoluzione che non farà che aumentare i conflitti e le controversie
nel già di per sé complesso rapporto fra Stato e Regioni.
Non possiamo poi non rilevare il clamoroso paradosso: mentre si assegnano
alle Regioni nuovi poteri con la richiamata devolution, il Governo, che
ha imposto questa riforma, fa approvare in Parlamento norme e leggi a ripetizione
che richiamano le più vituperate pratiche centraliste del passato.
La sentenza di ieri della Consulta sull'illegittimità della cosiddetta
manovrina del 2004 che lede le autonomie lo sta dimostrando.
Ciò avviene dall'inizio della legislatura,
dal campo dei lavori pubblici a quello dell'urbanistica, a quello di fondi
e misure gestiti dal livello statale per le finalità più
diverse in materie di consolidate competenze regionali.
Un'ulteriore considerazione è che
la riforma non ha la sua vera ragion d'essere in un progetto di rafforzamento
effettivo del regionalismo in Italia. Essa è diventata, da un lato,
un trofeo che la Lega tiene a mostrare al proprio elettorato; dall'altro,
le norme sulla cosiddetta devolution hanno costituito moneta di scambio
con gli altri partner della maggioranza per ulteriori e ancor più
insidiose modifiche costituzionali sul Governo, sul Parlamento, sulla Corte
costituzionale che, se attuate, rischierebbero davvero di alterare i delicati
equilibri costituzionali sui quali si fonda la nostra democrazia.
La riforma, infatti, prevede un Premierato
fortissimo, con un Capo del Governo non bisognoso della fiducia del Parlamento
che potrà essere da lui sciolto a piacere; un Primo Ministro che
sarà il dominus incontrastato della politica e delle istituzioni
del nostro Paese.
In tali condizioni, è vero - come
è stato evidenziato - che si rischia il Premierato assoluto con
chiare connotazioni plebiscitarie, cioè un regime di Governo tutto
incentrato intorno al ruolo del Presidente del Consiglio, senza che vi
sia alcun altro potere capace di esercitare un significativo ruolo di contrappeso.
Signor Presidente, ciò avviene
limitando fino a sopprimere di fatto le prerogative ed il ruolo di arbitro
che oggi il Presidente della Repubblica svolge nel nostro ordinamento e
indebolendo il ruolo della Corte costituzionale. Questi veri e propri pilastri
del nostro sistema costituzionale vengono declassati a mere pietre di inciampo,
da rimuovere in tutta fretta.
Signor Presidente, l'articolo 1 della
nostra Costituzione recita: «L'Italia è una Repubblica democratica».
«Repubblica» è l'espressione che indica che la cosa
pubblica, la polis, appartiene a tutti, non solo alla maggioranza e tanto
meno a uno solo!
Siamo fermamente convinti che chi ha giurato
sulla presente Costituzione, chi è chiamato a difenderla e a rispettarla,
non desidera affatto che ne vengano stravolte coerenza e funzionalità
e ne risulti compromesso il primario valore dell'unità nazionale.
Per parte nostra, come parlamentari dell'opposizione,
sappiamo cosa fare: ricorrere al referendum e chiedere agli italiani di
bocciare con il loro pronunciamento questa assurda riforma. (Applausi del
senatore Mascioni).
PRESIDENTE. È
iscritto a parlare il senatore Cavallaro, che dispone di quindici minuti
di tempo. Ne ha facoltà.
CAVALLARO (Mar-DL-U). Signor Presidente,
vedo sguardi preoccupati del senatore Magnalbò che ha deciso di
prestare ossequio all'Aula. Penso, però, che il mio intervento non
sarà così imponente.
Le confesso, signor Presidente, autorevoli
colleghi superstiti, che provo un certo disagio ed imbarazzo a parlare,
non perché l'Aula non è particolarmente affollata, ma perché
credo che un tema di questo genere avrebbe meritato ben altra attenzione.
Paragonare me stesso in senso autocritico e con modestia ed umiltà
ai Padri costituenti, che di questa stessa materia si occuparono con ben
altro prestigio scientifico, culturale, morale ed intellettuale, provoca
in me un incomprimibile disagio.
Credo e spero che tale disagio, seppure
non prenderà la gran parte della maggioranza parlamentare, sarà
sentito dal Paese, il quale comprenderà quanto il raffronto tra
la tensione ideale, politica e morale dei Padri costituenti e l'approssimazione
e la riduttività di questa riforma debba per ciò stesso renderla
invisa agli italiani e meritare - se essi saranno chiamati ad esprimere
una valutazione costituzionalmente democratica - un parere assolutamente
contrario.
Questa riforma costituzionale (che peraltro
non è, se non di facciata, una miniriforma, evoca soltanto formalmente
l'articolo 138) preoccupa perché è tutto sommato lo specchio
di una legislatura: una non commendevole legislatura si chiude con una
non commendevole riforma costituzionale. Non commendevole per tanti motivi,
fra l'altro perché si è tentato strumentalmente di appaiarla
alla riforma dell'articolo 117 della scorsa legislatura, sulla quale si
è già detto molto, cioè che non ha nulla a che vedere
con questa perché veniva da un'ampia e condivisa attività
parlamentare, ma soprattutto che non sarebbe un argomento, perché,
se fosse stato quello un errore, molti errori non farebbero una cosa giusta,
anzi, il peggiorare l'errore sarebbe un rimedio peggiore del male.
Ma è lo stile di questi Governi
questo massiccio coacervo di norme costituzionali che nasce, come tutti
noi sappiamo, da una baita di montagna nella quale quattro colleghi simpatici,
autodefinitisi saggi, hanno prodotto l'ossatura di questa riforma.
Si tratta di una riforma che è
contro l'unità della Nazione, è contro quel sentimento che
esiste, che è vero, che è forte nel nostro Paese; e qui non
occorre evocare martiri, eroi, santi, navigatori, non occorre la retorica:
anche gli antieroi, anche i nostri emigranti, anche i nostri cittadini
e i nostri lavoratori, tutti insieme sono espressione del desiderio di
unità della Nazione, del fatto che la Nazione dà il meglio
di sé quando invoca l'unità, non necessariamente quando qualcuno
sacrifica la propria vita, perché la nozione di cittadino, proprio
nel nostro Paese, che ha avuto una debole storia unitaria, semmai va rafforzata,
accresciuta, irrobustita di dignità morale e costituzionale.
Seguire invece il percorso che avete scelto,
signor Presidente (certo, dirlo a lei è persino scontato e mi dispiace
quasi rivolgere a lei, come Presidente pro tempore, questo ragionamento),
significa veramente fare qualcosa di grave, cioè rinunciare a quella
che invece avrebbe potuto essere una fase nuova e importante della vita
del nostro Paese, così come significa intaccare l'unità della
Carta costituzionale: anche di questo non si è voluto parlare o
si è parlato troppo poco.
La verità è che si è
finto di credere che, soprattutto attraverso l'articolo 138 e perché
si rende intangibile la I parte della Costituzione, si possano in qualche
modo manipolare a piacimento gli istituti della nostra Costituzione. Non
è così, perché la nostra Costituzione è un
complesso articolato ma unitario di regole, e i diritti fondamentali della
I parte si reggono, respirano, vivono e camminano nella società
attraverso le istituzioni costituzionali: di questo si è voluto
fingere di non tenere conto, questo si è ignorato.
Quando si intaccano gli equilibri delicati
del Parlamento, del Capo dello Stato, della Corte costituzionale, quando
si tenta, per altra via, anche con legge ordinaria, di soffocare l'autonomia
e l'indipendenza della magistratura, perché si attenta alla libertà
di quest'ordine, in verità, si vuole, anche così, attentare
all'intero complesso della Carta costituzionale e si ottiene quindi un
Paese meno democratico, meno forte, meno capace di raggiungere i suoi traguardi
e i suoi obbiettivi, si indeboliscono le istituzioni, proprio quelle di
garanzia e quelle che rendono l'equilibrio dei poteri, il balance power
di costituzionale memoria, il punto di approdo di ogni scelta politico-istituzionale
che deve guidare la nostra condotta, la nostra scelta parlamentare.
Qui avrebbe potuto aprirsi una nuova stagione,
signor Presidente, di democrazia partecipata, di presenza delle cosiddette
autonomie costituzionali orizzontali, dei corpi sociali articolati, una
nuova stagione che avrebbe potuto rispondere a quelle attese nuove che
emergono dalla società. E non è affatto vero che quest'ultima
chieda una sorta di indistinto dirigismo; essa non chiede affatto un plebiscitarismo
leaderistico, ma chiede una partecipazione reale, proprio nel momento in
cui la partecipazione stessa è messa in discussione dal potere delle
elite, dalla difficoltà delle masse di esprimersi attraverso i meccanismi
tradizionali della democrazia repubblicana, attraverso l'invasività
dei mezzi di comunicazione e, quindi, quando noi avremmo dovuto istituire
dei mezzi di governo della democrazia, piuttosto che arrenderci alla deriva
plebiscitaria.
Certi paragoni con gli Stati Uniti sono
indecorosi, perché quella grande società e civiltà
questi problemi se li pone e continua a lavorare attraverso un continuo,
significativo bilanciamento dei poteri. Non è affatto vero che negli
Stati Uniti d'America c'è soltanto una Presidenza imperiale, perchè
vi è un complesso articolato di realtà locali che fa di quel
Paese ancora, se si vuole, per chi vi crede e anche per chi crede in questo
spirito bipolare originario, un modello che eventualmente andava seguito,
ma andava seguito con coscienza, coerenza, dignità e, soprattutto,
con sapienza e non con quell'approssimazione che invece ci siamo trovati
di fronte.
Si sono innescati, infatti egoismi e competizioni
che non sono solo culturali e psicologici. Una delle tesi è che
in fondo la cosiddetta devolution non intacca l'unità della Nazione;
si parla genericamente dell'interesse nazionale, anche se la parola interesse
è del tutto inappropriata a una Nazione. La Nazione non ha un interesse,
ma un'unità e una dignità comune.
Anche sotto questo aspetto si vuole nascondere
che persino il recente accordo di governo della Germania ripropone invece
molto più saggiamente una crisi del federalismo e soprattutto un
controllo: attraverso gli istituti della responsabilità, della sussidiarietà
e del decentramento autonomista si possono raggiungere proprio quegli obiettivi
di partecipazione e di decentramento che sono, almeno sotto il profilo
della predicazione, come è stato detto, uno degli scopi fondamentali
di questa riforma.
La verità è che questa riforma
è un prodotto tipico della tecnica negoziale che ha contraddistinto
l'attuale stagione legislativa. Una tecnica negoziale perché il
Presidente del Consiglio - diciamoci la verità, signor Presidente
del Senato - ha distribuito tra i suoi alleati di Governo in questi cinque
anni un po' di palloncini colorati e un po' di lecca lecca, come si fa
con i bambini per tenerseli buoni. Alla Lega è stato dato il palloncino
colorato della devolution e all'UDC è stato dato il lecca lecca
della riforma elettorale. Tra l'altro, tutte queste riforme avranno o poco
peso o peso devastante nel Paese e avranno costi altissimi. La riforma
elettorale scardinerà persino la stabilità del sistema politico
del nostro Paese.
Mi spiace poter ricordare le poche cose
che ha chiesto Alleanza Nazionale, un partito che forse, avendo una storia
un po' più antica, ha avuto qualche ritegno; in qualche modo ha
cercato di irrigidire muscolarmente alcuni degli istituti sui quali si
era dibattuto anche nella precedente legislatura: mi riferisco alle norme
sull'immigrazione e sugli stupefacenti.
E Forza Italia che cosa ha chiesto? Forza
Italia dal canto suo ha portato a casa quello che veramente le interessava,
la legge Gasparri e tutto quel profluvio di leggi importanti costruite
attraverso carriere personali e processuali.
Questo è lo scopo e questa è
la sintesi dell'attuale stagione legislativa. Spiace dirlo, certamente
può sembrare persino offensivo, ma la verità è che
da questo patto scellerato non poteva che nascere questa riforma scombiccherata,
che attenta agli organismi di controllo, che distrugge l'unità nazionale
e che nella futura composizione del Senato - e qui lo dico da marchigiano
- certamente avvilisce la rappresentanza delle Regioni minori.
Se avessimo voluto costruire un Senato
federale avremmo dovuto modellarlo sul Senato statunitense, dove ciascuno
Stato partecipa con due senatori, quale che sia la sua robustezza di carattere
demografico, perché questo è lo spirito del Senato come funzione
di controllo rispetto al potere dell'Esecutivo.
Non abbiamo neanche costituito un Senato
sul modello tedesco; ci siamo divertiti, come si suol dire, a piluccare
tra le istituzioni mondiali, come fanno tutti coloro che, non avendo nessuna
idea precisa di quello che devono fare e, soprattutto, alcun interesse
reale a realizzare una riforma siffatta (perché nessun cittadino
italiano ne sentiva il bisogno), hanno tuttavia costruito intorno a dei
desideri leghisti e a un vago desiderio plebiscitario e leaderistico di
Forza Italia, questo modello.
Un modello che si è unito ad una
riforma puramente elettorale che in un'orgia di sbarramenti ha istituito
persino, l'ho scoperto recentemente, il Tano Belloni della politica, ovvero
il miglior perdente, colui che non avendo vinto niente verrà premiato
con una sorta di maglia nera parlamentare e verrà anch'egli in Parlamento.
Si chiude così, signor Presidente,
il cerchio. Questa legislatura alla fine produrrà con la riforma
costituzionale il suo Tano Belloni, il pedalatore nobile ma sfortunato
che arriverà ultimo ma che comunque sarà premiato con un
cadreghino parlamentare.
Per il resto, si è detto moltissimo
nel merito di questa riforma e qui per brevità la conclusione del
mio intervento mi impedisce di fare ulteriori dissertazioni. Mi premeva
soprattutto stigmatizzare le finalità ultime e purtroppo profonde
per le quali siamo arrivati fino a questo punto nonostante la necessità
da noi più volte segnalata di una riflessione, di una pausa, di
un momento di coinvolgimento dell'opposizione.
Si dice che si è tentato di coinvolgere
l'opposizione, ma lo si è fatto in un dibattito parlamentare che
per l'80 per cento è stato svolto su un testo completamente diverso
da quello portato all'esame dell'Aula, come del resto la tecnica parlamentare
di questa legislatura ci ha abituato con riferimento ad altre riforme.
L'ho definita, in altra occasione, una
tecnica alla «Silvan», nel senso che una volta agitata la mano
come fanno i prestigiatori e avviato un ampio e articolato dibattito su
quella mano che si muoveva, quella stessa mano ha eseguito la riforma legislativa
squadrellando alla fine altri contenuti ed altri istituti.
Di questo sostanzialmente si tratta, soprattutto
in relazione a quella scelta ancora più sciagurata di una legge
puramente proporzionale e persino acefala che dà totalmente in mano,
almeno ipoteticamente, al partito del Premier l'intero Parlamento.
Quest'ultimo, del resto, è condizionato
da una legge elettorale in cui non si prevedono preferenze, collegi ed
alcuna mediazione tra il potere del partito e quello degli eletti, anzi
il dovere degli eletti è di essere ossequienti al capo. Il popolo
non può che dare un'interlocuzione finale e quinquennale a questa
scelta ed è quindi in quella direzione che ci si muove rispetto
ad una riforma che sotto questo aspetto concentra il potere dello scioglimento
delle Camere nelle mani del Presidente del Consiglio.
È un'altra scelleratezza o almeno
un altro errore o sbaglio. Bisogna costruire dei meccanismi senza pensare
a quanto essi debbano essere strategicamente e strutturalmente validi.
Si potrebbe anche dire "etsi Berlusconi non daretur", tanto per usare una
categoria della riflessione teologica. È giusto e vero che si devono
costruire istituzioni democratiche che prescindono dal dato dell'oggettività,
ma è proprio questo che non si è voluto fare.
Molte delle componenti politiche della
maggioranza, hanno fatto a mio parere persino violenza alla propria natura,
alla propria cultura e alle proprie radici pur di produrre questo parto
malato, questa riforma asfittica, una riforma che certamente non passerà
alla storia e che, per ritornare al punto da dove ero partito, certamente
farebbe sobbalzare qui in questa sede e lì dove essi ora sono tutti
i nostri Padri costituenti, a qualunque schieramento e di qualunque parte
politica essi avessero in quel momento fatto parte. (Applausi del senatore
Bastianoni).