Riforme istituzionali:
Schede informative sui referendum |
Dati sulla partecipazione ai precedenti referendum
Sul referendum pesa il rischio astensionismo.
Secondo un sondaggio Swg su un campione rappresentativo di 600 persone,
la maggioranza dei cittadini (87,5%) sa che si andrà alle urne ma
solo il 34% degli intervistati, andrà sicuramente a votare. Sul
quesito per abrogare l'obbligo di reintegro del lavoratore licenziato senza
giusta causa, il 56% del campione è contrario alla cancellazione
della norma.
il
sole 24 ore - 10/02/2000 |
Per quanto sia troppo presto per sondaggi di questo tipo, i dati raccolti
sono in grado di fornire utili spunti di riflessione.
A fronte dell'87,5% di persone che sa della prossima scadenza referendaria,
soltanto il 34%, ad oggi, è convinto che andrà a votare.
Il dato non deve però indurre a conclusioni affrettate: con ogni
probabilità anche all'interno dell'87,5% esiste una buona fetta
di persone che ancora non conosce nel dettaglio il contenuto dei quesiti.
Un dato significativo lo si ha, invece, andando a confrontare la bassa
percentuale di potenziali votanti con la percentuale di coloro, 56%, che
sul referendum che abroga l'obbligo del reintegro (abrogazione dell'art.
18 dello statuto dei lavoratori) ha assunto una posizione contraria.
Facendo due conti, almeno il 22% del campione (ma potrebbe essere anche
di più) con una posizione contraria al quesito non andrà
o ancora non sa se andrà a votare.
Una differenza percentuale di non poco conto, in quanto riferita ad
un campione con le idee chiare sul quesito posto alla loro attenzione.
E nel caso questa percentuale di astensione si dovesse confermare anche
alla data del referendum, è chiaro che non si potrebbe parlare d'ignoranza
o di qualunquismo, ma di precisa volontà politica.
A rafforzare questa tesi, giunge un test effettuato su di un campione
di sinistra per indagare le cause dell'astensione alle ultime europee.
Il primo dato che emerge conferma quanto l'astensionismo abbia colpito
Rifondazione (il 39,7% aveva precedentemente scelto il Prc), ma sottolinea
che anche i Ds hanno pagato a caro prezzo la fuga dalle urne (35% sono
gli astenuti di provenieza diessina). Quanto alle cause per cui moltissime
persone hanno deciso di disertare il voto alle europee del '99, emerge
un giudizio che chiama in causa una ragione di fondo: il 17,7% di coloro
che hanno risposto al questionario affermano di non aver votato perché
ritengono "la politica distante dai veri interessi delle persone", il 14,4%
per "protestare perché i partiti sono incapaci di risolvere i problemi
sociali". Solo il 12,4% degli astensionisti chiama in causa l'ultima
guerra in Kosovo, ritendendo che "le istituzioni politiche siano state
incapaci di evitarla". Contrariamente alle aspettative, la guerra rappresenta
una fonte di astensionismo rilevante ma non decisiva né maggioritaria.
E questo sia per quanto riguarda gli ex elettori di Rifondazione (26%),
sia per quelli dei Ds (17%), sia per quelli dei Verdi (14%). Scorporando
le motivazioni astensioniste per i diversi partiti, si rileva che per il
Prc il maggior elemento di sofferenza sta in una questione strategica,
nella sua "incapacità a rielaborare l'idea del comunismo dopo la
caduta dell'Urss" (il 22% dei suoi ex elettori muove al partito di Bertinotti
questa critica), mentre solo il 10% afferma che "la scissione ha dimostrato
l'inaffidabilità dei comunisti" e un piccolissimo 4% non ha scelto
più il Prc in relazione alla sua scelta "di togliere la fiducia
al governo Prodi". Ancor più radicali le motivazioni che spingono
ex elettori dei Ds a non votare più: il 27% di essi ritiene che
"il centro-sinistra persegua la stessa politica del centro destra", mentre
il 17% pensa che "il centro sinistra non si sia ancora liberato dall'eredità
della Dc". E l'equazione centro-sinistra uguale a centro-destra prevale
anche tra gli ex elettori verdi (21%).
il
manifesto - 11/02/2000 |
I dati parlano da soli: un elenco dettagliato di ragioni politiche
in grado di produrre un'astensione motivata politicamente.
Elementi di riflessione sulla natura dell'astensione che assumono un
particolare rilievo se letti congiuntamente al crollo di partecipazione
registrato a partire dai referendum del 1993.
Anno
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El. politiche Senato
|
El. europee
|
Referendum
|
1983
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88,8%
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1984
|
|
83,9%
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1985
|
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77,9%
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1987
|
88,4%
|
|
65,1%
|
1989
|
|
81,5%
|
80,3%
consultivo
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1990
|
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43,4%
|
1991
|
|
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62,5%
|
1992
|
86,8%
|
|
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1993
|
|
|
77%
|
1994
|
85,8%
|
74,6%
|
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1995
|
|
|
57,9%
|
1996
|
82,3%
|
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1997
|
|
|
30,2%
|
1999
|
|
70,8%
|
49,6%
|
Il confronto negli anni mostra un'impennata dell'astensione che coincide
con l'affermazione del principio bipolare (referendum elettorale del '93).
Una volta acquisito, da parte di una larga fascia di elettori al di fuori
dello schema bipolare, il "concetto di inutilità del voto", a partire
dalla prima elezione maggioritaria del '94 tutte le consultazioni elettorali
hanno registrato un calo vertiginoso della partecipazione, tanto più
ampio quanto più la contesa era da considerare meno impegnativa.
Nell'arco di pochi anni l'astensione è aumentata di oltre il 4%
per le politiche e del 10% per le europee; differenze mai registrate prima.
Per quanto riguarda invece le consultazioni referendarie, si registra
un vero e proprio crollo della partecipazione.
Ciò è certamente dovuto alla possibilità, offerta
agli elettori per la sola consultazione referendaria, di poter scegliere
se contrastare il quesito votando no o contribuendo, con la propria astensione,
al non raggiungimento del quorum.
L'effetto concreto raggiungibile è ciò che in effetti
sembra fare la differenza tra i due diversi tipi di consultazione. Differenza
che si è manifestata appieno nel 1999, dove a distanza di due soli
mesi si è passati dal 49,6% per il referendum elettorale, al 70,8%
delle europee.
Questa constatazione, però, non è in grado di spiegare
per intero la portata del fenomeno.
Per l'ondata referendaria del 1995, infatti, non ci fu nessun tentativo,
da parte dei "No", di rifiutare il confronto nell'urna; tant'è
che il "No" prevalse su 6 dei 12 quesiti. Nonostante ciò,
il 1995 si segnala per la più bassa partecipazione al voto fra tutte
le consultazioni referendarie che hanno superato il quorum: 57,9%.
Altre ragioni che non la mera opportunità, quindi, spinsero
gran parte degli elettori a disertare le urne.
Non interessavano i quesiti? I quesiti erano troppi? Alcuni quesiti
potevano essere di difficile comprensione? Ha iniziato a manifestarsi il
fastidio provocato dall'uso "personalistico" dello strumento referendario?
Lo strumento referendario di tipo abrogativo non è ritenuto il mezzo
più idoneo per affrontare determinate questioni?
Queste, con ogni probabilità, le variabili in gioco da analizzare
per capire il fenomeno crescente dell'astensione ai referendum.
Una cosa di cui si può però essere certi è che
dopo il 1995 nessuna consultazione referendaria è riuscita a superare
il quorum.
Quello che doveva essere lo strumento in grado ricostituire il legame
tra i cittadini ed un certo modo d'intendere la politica, si è di
fatto rivelato il termometro di quanto i cittadini siano invece lontani
da quei partiti che dichiarano di rappresentare "il nuovo".
Per spiegare questa "impressione" è sufficiente confrontare
i risultati dei due referendum elettorali del 93 e del 99.
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referendum 1993
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referendum 1999
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Voti espressi
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36.921.999 - 77%
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24.452.354 - 49,6%
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Voti Sì
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28.954.331
|
21.161.866
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Voti No
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6.037.259
|
1.960.022
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Oltre 12,4 milioni di voti in meno che non possono essere spiegati con
il "No" che diventa astensione per motivi di convenienza come denunciato
dai promotori dei referendum: la differenza dei "No", infatti, e
di soli 4 milioni di voti.
Piuttosto, è interessante notare come il Sì abbia
perso oltre 7,7 milioni di voti, che da soli sarebbero bastati per garantire
il quorum. Un'inversione di tendenza espressa da un corpo elettorale che
è passato da un estremo all'altro: dal voto plebiscitario del 1993
al rifiuto totale di ogni forma di partecipazione del 1999.