30/03/99
Negli Stati uniti circola da decenni un aforisma che suona più o meno così: "Nessuno è mai fallito per aver considerato gli americani troppo stupidi". Aforisma aristocratico, se non reazionario. Ma qualche ideuzza del genere, a proposito degli italiani, potrebbe venire in mente a chi assiste allibito alla nuova "orgia maggioritaria" avviata dal referendum Di Pietro-Segni. Apparentemente il fatto che i sondaggi diano abbondantemente vittorioso il "sì" all'eliminazione dei residui di "proporzionale" lascia sbalorditi: perché il "maggioritario" non ha mantenuto nessuna delle sue promesse. Non ha garantito la stabilità governativa, non ha ridotto il numero dei partiti, anzi lo ha incrementato, non ha rispettato le indicazioni degli elettori, non ha tolto il potere "di ricatto" dei partitini, anzi ha potenziato quello dei singoli parlamentari, non ha prodotto una nuova e "pulita" leva di dirigenti politici, anzi ha riportato in auge vecchi arnesi della "prima repubblica"; infine, e soprattutto, non ha aumentato la partecipazione politica ma anzi l'ha ridotta drasticamente, ingigantendo persino l'astensionismo elettorale. In compenso - e questo era il vero obiettivo del maggioritario - ha reso impossibile l'ingresso nelle istituzioni di qualsiasi nuova forza genuinamente antagonista all'esistente e ha emarginato anche i partiti non sdraiati sulla politica delle forze economiche dominanti.
Tutto ciò appare del tutto cristallino. Eppure, di tutti questi mali viene addirittura incolpato quel minuscolo residuo di "proporzionale". Come se la disaffezione politica ed elettorale dilagante, il trasformismo di partiti e singoli deputati (ormai il gruppo misto della camera subisce un via vai simile alla stazione Termini ad agosto), il riciclaggio delle cariatidi democristiane e socialiste dipendessero da qualche decina di deputati scampati alla "selezione maggioritaria".
Ma in realtà l'area dei cittadini, disgustati dalla politica di palazzo, che non andranno a votare è assai più ampia di quanto dicano i sondaggi: e ci sembra che il manifesto ne abbia colto appieno la vastità, proponendo di giocare con convinzione la carta del "referendum contro il referendum". Insomma, stavolta astenersi e boicottare il referendum non è assolutamente scelta rinunciataria o minoritaria. Anzi: appare la più efficace via per rilanciare il proporzionale e la politica "altra", il rifiuto del diktat referendario da parte delle cariatidi della politica "sporca", il rigetto dell'imposizione maggioritaria non solo a livello politico ma anche, per quel che ci riguarda, a livello sindacale, nei luoghi di lavoro ove il sindacato di stato è il principale veicolo di un maggioritario della rappresentanza che ha bloccato, ad esempio, per i prossimi due anni le elezioni delle Rsu nella scuola e che impedisce con ogni mezzo l'accesso ai tavoli di trattativa, a tutti i livelli, ai Cobas.
Lasciamo al manifesto l'onere di lanciare eventuali comitati per "il referendum contro il referendum", disponibili fin d'ora a farne parte; nonché la promozione di un appello rivolto a Rifondazione perché, coraggiosamente, valuti la possibilità di mutare totalmente la propria posizione passando dal "no" - certamente ineccepibile sul piano dei principi, ma altrettanto sicuramente perdente sul piano elettorale - a un'indicazione di astensione/boicottaggio che renderebbe davvero realistico il non raggiungimento del 51 per cento da parte dei pasdaran del maggioritario.
* Portavoce nazionale Cobas
** Confederazione dei Comitati di base
La seconda questione sollevata col Presidente è che la costituzionalità della legge elettorale che risultasse dalle cancellature e dalle abrogazioni proposte col referendum, non è affatto dimostrata. Anzi una delle ragioni per le quali il Comitato invita a votare "no", è proprio la convinzione che il sistema elettorale che ne risulterebbe, sarebbe anticostituzionale, configurando un attacco all’art.49 della Costituzione che sancisce il diritto dei cittadini ad associarsi liberamente in partiti per concorrere col metodo democratico a determinare la politica nazionale, e non solo di spartire il potere di quinquennio in quinquennio tra due grandi coalizioni. L’ammissibilità del referendum, sancita dalla Consulta, non è una dichiarazione preventiva di costituzionalità della legge sopravvissuta alle cancellature abrogative (che in questo caso sono ben 137, come ha rilevato Novelli, un gioco da "Settimana enigmistica" che si vorrebbe far fare agli elettori nella cabina). Il risultato può essere incostituzionale, se non garantisce diritti fondamentali suscettibili di diverse attuazioni legislative, come rilevano le massime di giurisprudenza costituzionale derivate sia dalla sentenza n. 26 del 1981, sia dalla sentenza n.26 del 1987 della Corte.
Il terzo punto, anch’esso di grande rilievo costituzionale, è
che la partecipazione dei cittadini al voto referendario non è un
atto costituzionalmente dovuto: è facoltativo. La Costituzione prevede
infatti tre modi di espressione della volontà dei cittadini chiamati
a rispondere a un referendum abrogativo: il sì, il no, e il non
rispondere, che significa la non partecipazione al voto. Quest’ultimo comportamento
non rappresenta un’omissione rispetto a un dovere, ma è pienamente
legittimo. Infatti per il successo della proposta abrogativa la Costituzione
richiede una maggioranza speciale, che è quella della metà
più uno dei voti validi a condizione che sia andata alle urne la
maggioranza degli aventi diritto. E’ la stessa norma di garanzia per cui
si richiede, per le delibere delle Camere, il numero legale; e non si vede
perchè questa garanzia non dovrebbe estendersi ai cittadini quando
assumono la veste di legislatori. Ed è anzi una norma di garanzia
volutamente rafforzata dal Costituente: infatti nel progetto di Costituzione
presentato all’Assemblea il "quorum" era stabilito nei due quinti degli
aventi diritto; ma l’on. Paolo Rossi, del PSLI, obiettò che in tal
modo una piccola minoranza di elettori avrebbe potuto abrogare leggi anche
importanti, e propose l’innalzamento a tre quinti; questo parve troppo,
e con l’approvazione di un emendamento Perassi (repubblicano) il "quorum"
fu stabilito nella metà degli aventi diritto al voto. Quindi si
è trattato di una decisione del tutto intenzionale e ben meditata
dei Costituenti:
La conseguenza è che nei dibattiti in cui si deve rispettare
la par condicio, non può essere fatto alcun appello al voto, come
se si trattasse di un invito neutrale, in quanto l’onere di raggiungere
il "quorum" prescritto ricade sui proponenti del referendum, e non su coloro
che si oppongono ad esso o ne desiderano un risultato negativo.
Raniero
La Valle