Speciale Referendum elettorale
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Rassegna stampa - Mal di quorum

Il manifesto - 11/04/99

Mal di quorum

Timori, tremori e deliri a una settimana dal fatidico 18 aprile. Quattro buone ragioni per non andare a votare domenica prossima

- IDA DOMINIJANNI

Con tutte le immagini che arrivano dall'altra parte dell'Adriatico non suona propriamente di buon gusto il richiamo di Luciano Violante al sangue versato dagli italiani per conquistare il diritto di voto. Colto anche lui dalla febbre da quorum, il presidente della camera si dimentica oltretutto che il diritto di voto è diritto al voto libero e non al voto coatto, e come tale contempla la libertà di votare o di astenersi. Ma a una settimana dal fatidico 18 aprile, con gli schieramenti per il sì e per il no tutt'altro che in ordine, e in piena stagione di guerra, gli argomenti a sostegno di quella che doveva essere la grande campagna di primavera scarseggiano (lo rilevava ieri perfino il Corriere della sera, la più referendaria delle grandi testate) anche fra i più convinti fautori del bombardamento di quel residuo di proporzionale reo di tutti i mali della politica italiana.

 Ai quali non resta perciò che attaccarsi al furore antiastensionista, pur se d'altro canto il coordinamento dei referendari ostenta una certa tranquillità da sondaggi sul raggiungimento del quorum. Per il resto, la litania è sempre la stessa, magari condita con qualche pretestuosità dell'ultim'ora. Fini ad esempio incamera l'argomento di Sergio Romano (sempre sul Corsera, ma di ieri l'altro), che affida al referendum l'eliminazione dell'anomalia per cui un esponente di una maggioranza bellica (Cossutta) si permette di andare in missione diplomatica presso il nemico (Milosevic): ottimo esempio dell'elasticità politica propria degli ultras del bipolarismo. Diego Masi sentenzia che il sì vincerà, e che quell'obbrobrio di legge che risulterà dal referendum andrà applicato così com'è. Veltroni si limita a dire che senza il referendum il paese torna indietro e il cambiamento delle regole si ferma: né può spingersi oltre, visto che contestualmente Folena, intervistato sulla Stampa, conferma il sostegno al sì ma aggiunge che l'attacco dei referendari contro i partiti è tanto "profondamente stupido" che "vien voglia di votare no, o non votare affatto". E a spegnere ogni passione referendaria contribuisce come al solito lo stesso D'Alema, fra una telefonata a Clinton e una a Eltsin: un incoraggiamento per le riforme, mica la soluzione di tutti i mali, ecco cos'è il referendum.

 A voler guardare dentro la filigrana delle dichiarazioni, non è difficile vedere che nelle ultime settimane, con l'asinello in campo e l'elefante in panchina, i giochi sul risultato del 18 aprile si sono per così dire riprofilati. Aleggia tra i fanatici del sì l'ipotesi di un bipolarismo rinnovato che faccia asse verso centrosinistra su Prodi e Veltroni, verso centrodestra su Fini, Casini e Segni. Di contro, resta lo senario più parlamentarista (o meglio, più centrato sul gioco e sullo scambio parlamentare, in vista del ricambio al Quirinale e della riapertura delle mitiche riforme) di D'Alema, Marini e Berlusconi (il quale continua a non farsi stanare dai referendari azzurri che gli chiedono inascoltati di fare qualcosa, "almeno uno spot", per il sì). Ma non si può certo sostenere che questo retroscena abbia la forza di spingere alle urne più della scena allestita dai referendari. Perciò pacatamente e ribadiamo alcune buone ragioni per non votare domenica prossima.

 Primo. Non votare è un diritto costituzionale, implicito nella stessa formulazione della norma sul referendum, che indica la soglia di validità del quorum proprio presupponendo l'eventualità che il quesito referendario possa non interessare tutto il corpo elettorale. Checché ne pensi Luigi Abete, chi non vota compie un atto di piena cittadinanza esattamente come chi vota.

 Secondo (argomento rivolto anche al fronte del no): per quanto di questi tempi ne sia spesso segnata, l'astensione non è sempre riducibile a disaffezione o rigetto per la politica. Può essere una scelta franca e argomentata, e politicissima, di contestazione e rifiuto del gioco, di fronte a un gioco truccato o quantomeno paradossale.

 Terzo. Questo è precisamente il caso. Primo paradosso: il quesito referendario e la legge che ne deriverebbe - un bislacco sistema uninominale secco che premia non la maggioranza ma la minoranza, e inevitabilmente accentua le risse fra partiti non solo sui collegi presumibilmente vincenti ma anche su quelli perdenti - tradisce le stesse intenzioni dichiarate dei referendari: non garantisce cioè alcun effetto né di coalizzazione né maggioritario. Secondo paradosso: a fare la guerra referendaria ai partiti sono a loro volta alcuni partiti, vecchi o appositamente approntati (come l'asinello), il che rende l'obiettivo anti-partitico, oltre che sbagliato, poco credibile.

 Quarta e più sostanziale ragione. La mitologia referendaria tiene banco in Italia ormai da quasi dieci anni. E' riuscita a stravolgere uno strumento di democrazia diretta piegandolo all'abuso di un pezzo di ceto politico, ma non è riuscita, cambiando il sistema elettorale, in uno solo dei suoi obiettivi dichiarati: attivare la "democrazia dei cittadini" (la disaffezione per la politica cresce) e creare coalizioni bipolari, stabili e omogenee (mai il sistema politico è stato più frammentato, le coalizioni più rissose, le sigle più mutanti). Non andare a votare domenica prossima significa, oltre che boicottare il gioco, rifiutare questa mitologia: la crisi della politica non si risolve cambiando la legge elettorale.



 
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