Speciale Referendum elettorale
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18/04/99

Rassegna stampa


La Repubblica - 18/04/99

Molti autorevoli personaggi, imprenditori, artisti, sportivi, hanno sottoscritto appelli pro o contro il referendum indetto per la giornata di oggi; le forze politiche hanno manifestato le loro indicazioni; i giornali hanno pubblicato notizie e commenti di svariato tenore; le televisioni hanno ospitato (noiose) tavole rotonde. Tutto ciò per osservare che l'informazione non è affatto mancata come continuano a lamentare i referendari a oltranza, mai sazi di sentirsi parlare addosso, ed è stata anzi ampia e oggettiva compatibilmente con i tempi che corrono.
Mi sembra dunque d'essere esentato dal dire come la penso sul quesito referendario e quali possano essere in materia i miei suggerimenti ai lettori; anzitutto perché i lettori non hanno bisogno di alcun suggeritore e poi perché intervenire e schierarsi proprio il giorno in cui si vota o si decide responsabilmente di non votare mi pare scorretto.
Diamo dunque come già avvenuto il referendum, di cui conosceremo stanotte il risultato; ribadiamo la piena legittimità dei comportamenti degli elettori, sia che votino sì o no, sia che disertino le urne (chi ha accusato questi ultimi di viltà ha tra l'altro dimenticato che mentre la scelta di chi vota è segreta, quella di chi non vota è documentata dagli elenchi elettorali) e occupiamoci invece di che cosa potrà accadere dopo il referendum e di come l'esito di quest'ultimo potrà influire sui successivi sviluppi della situazione politica, riguardo a tre aspetti importanti di essa: la legge elettorale, l'elezione del presidente della Repubblica, le elezioni europee, nelle due ipotesi che vinca il sì o che il referendum cada per mancato raggiungimento del quorum previsto dalla legge.

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Che una nuova legge elettorale sia comunque auspicabile se non strettamente necessaria è una constatazione condivisa da gran parte delle forze politiche e comunque corrisponde ad una visione di razionalità. Infatti:
1. Se il referendum non raggiungesse il quorum resterebbe in piedi la legge elettorale vigente che, dopo l'esperienza del '94 e del '96, ha mostrato tutte le sue pecche e non soddisfa più nessuno.
2. Se vincesse il sì, la legge che ne risulterebbe avrebbe le sembianze di un mostriciattolo non migliore di quella vigente. Il sì può servire certamente di stimolo al Parlamento e sbarrerebbe la strada a tentazioni proporzionalistiche e qui sta il suo pregio; vorrei dire il suo unico pregio, perché su tutti gli altri aspetti della questione elettorale non ci porta avanti nemmeno di un palmo.
3. Non ci porta avanti sulla semplificazione dei partiti e sul loro numero. Infatti i partiti esistenti, salvo Rifondazione e Lega, sono tutti figli del maggioritario bipolare, imperfetto quanto si vuole ma pur sempre maggioritario e bipolare.
I PARTITI del centrodestra - Forza Italia, Alleanza nazionale, Ccd - nascono infatti dal maggioritario; idem quelli dell'Ulivo, Ds, Popolari, Verdi, Rinnovamento. Ciascuno di loro ha contrattato con gli altri partner della coalizione i propri seggi prima della presentazione dei candidati nei 475 collegi uninominali; dopo, una volta celebratesi le elezioni, ciascuno di loro ha costituito alle Camere il proprio gruppo parlamentare. Questa situazione non sarebbe minimamente modificata da una vittoria del sì, ma resterebbe intatta se non addirittura esaltata dall' abolizione della quota proporzionale.
4. Ancor meno si porrebbe argine, col referendum, al proliferare dei partitini composti da pochissimi parlamentari se non addirittura da uno solo. Fino a quando il singolo parlamentare ha diritto di portarsi appresso la quota di finanziamento pubblico prevista dalla legge e dai regolamenti delle Camere, la proliferazione trasformistica continuerà indisturbata. Chi impedirebbe, a vittoria del sì ottenuta, la nascita di una Udr come quella cui dettero vita Cossiga e Mastella? Chi impedirebbe la nascita delle Cento Città di Rutelli, dell'Italia dei Valori di Di Pietro e dell'Asinello di Prodi? E chi - se vogliamo occuparci anche di lepidezze - potrebbe bloccare i movimenti erratici di Irene Pivetti tra il partito di Dini e quello di Mastella? Tutte queste proliferazioni, chiamiamole così, non sono nate dalla quota proporzionale ma da quella maggioritaria a turno unico, sicché a maggior ragione continueranno con la vittoria referendaria del sì.
5. Si dice: l'elettore vedrà meglio rispettata la sua scelta in caso di vittoria del sì e quindi la sua democratica sovranità. Sia lecito qualche dubbio: la quota proporzionale abolita dalla vittoria del sì sarà utilizzata in favore dei candidati perdenti nei collegi uninominali; ne consegue che gli elettori convinti di aver sconfitto un candidato e d'aver portato in Parlamento il suo rivale di collegio, vedranno invece che anche lo sconfitto guadagnerà il seggio in virtù di un ripescaggio del tutto casuale. Se questo significa rispettare la scelta dell'elettore ditelo voi che mi state leggendo.
In conclusione, che vincano i sì o che non si raggiunga il quorum referendario, una legge elettorale nuova dovrà esser fatta se non si vuole mantenere quella pessima vigente o l'altrettanto pessima che uscirebbe dalle urne del referendum. Da questo punto di vista il solo punto a vantaggio del referendum, l'ho già detto, è che esso sbarra la strada a nostalgie proporzionalistiche. Ma questo maggioritario composto da due coalizioni, sette partiti medio- grandi, una trentina di piccoli e piccolissimi e tre sorretti dalla quota proporzionale, non è già un maggioritario- proporzionalistico?
Ci vorrebbe il doppio turno di collegio per limitare la proliferazione e il trasformismo e, insieme con esso, una revisione radicale del meccanismo di finanziamento pubblico. Ci vorrebbe insomma una buona legge. Che poi ci si arrivi è un'altra questione, referendum o non referendum che tenga.

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Sento sostenere da molti e autorevoli uomini politici e anche da molti e autorevoli politologi che l'esito del referendum influirà sull'elezione del presidente della Repubblica che avverrà nell'ultima decade di maggio. Ma io non sono affatto d'accordo con questa tesi. In che modo il referendum influirebbe?
Il capo dello Stato viene eletto dalle Camere riunite in seduta plenaria più i delegati delle Regioni. Il referendum non cambia in nulla la composizione del Parlamento riunito in seduta plenaria: tale era ieri, tale sarà domani. Marini si metterà d'accordo con Berlusconi per portare un popolare al Quirinale? Poteva farlo ieri e può continuare a farlo domani. Fini punterà su un candidato esplicitamente presidenzialista? Può farlo quale che sia il risultato del referendum. Ci potrà essere una convergenza di Rifondazione, della Lega, perfino di Fini, su un candidato che non sia quello concordato dal duo Berlusconi-Marini? Nessuno lo può impedire. Che cosa farà il partito di D'Alema e di Veltroni? Non sarà certo l'esito del referendum a condizionarne le mosse. Chi pensa questo sbaglia o dice bugie.

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Su un punto credo invece che l'esito del referendum eserciterà una certa influenza; non molto rilevante e diretta, ma indiretta, questo sì: e cioè sulle elezioni europee.
La campagna per il sì ha molti padri ma tre sono più padri degli altri: Fini, Prodi e soprattutto Di Pietro. C'è anche un quarto padre ed è Segni, ma è un padre senza figli o tutt'al più un padre putativo di scarso peso.
Se vinceranno i sì, politicamente quei tre ne saranno rafforzati. Diciamo un po' rafforzati. Se il referendum mancherà il quorum ne usciranno indeboliti. Questa è una verità che mi sembra difficilmente contestabile.
Se mancherà invece il quorum potranno cantar vittoria Bertinotti, Bossi e Marini. Ma quanto poi questa vittoria si tradurrà in voti per le europee, questo è molto più dubbio.
Come si vede, e se i miei ragionamenti sono corretti, l'esito referendario sarà abbastanza ininfluente sia in un caso che nell'altro. Ben diversi e assai più angosciosi sono i problemi che abbiamo dinanzi per i prossimi mesi: la guerra, l'economia, la tenuta del governo. Su nessuno di essi il referendum incide. Di qui una certa apatia degli elettori.
Personalmente inclino a pensare che il quorum sarà raggiunto, sia pur di misura. E forse è bene che vada così. Purché sia di misura. Un trionfo referendario di un Di Pietro, dopo quanto gli abbiamo sentito dire in campagna elettorale, dico la verità mi preoccuperebbe molto. Ma credo proprio che trionfo non ci sarà.
 


il manifesto - 17/04/99

Domani non voto

ROSSANA ROSSANDA

Il voto è segreto ma nel caso del referendum corre un obbligo di chiarezza almeno da parte di chi sta sia pure ai margini della scena pubblica.

 Non voterò domenica. Non per indifferenza, al contrario. Perché rifiuto di stare a una scelta che considero improponibile. La Corte costituzionale avrà avuto i suoi motivi tecnico-giuridici per dichiarare ammissibile un quesito referendario che contempla la riduzione della rappresentanza a due coalizioni, azzerando ogni altra posizione che non vi si trova espressa.

 Certo questa possibilità non passò per la testa dei padri costituenti, dopo un ventennio di abolizione o ridicolizzazione del voto, e infatti per un attentato molto meno grave l'elettorato negò alla Democrazia cristiana e al suo blocco la maggioranza assoluta nel 1953. C'era, nella nostra idea di democrazia, un nocciolo indisponibile alle maggioranze, referendarie o no, e in esso la rappresentanza era essenziale, e se mai ancora troppo formalistica e insufficiente a esprimere identità e bisogni storicamente in movimento, e rapporti sociali di forza in essa inesprimibili.

 La Corte costituzionale può aver considerato irrilevante che una parte del paese minoritaria, per definizione in quanto non si riconosce nelle due coalizioni, sia ulteriormente ridotta nella visibilità e nel peso, e quindi resa addirittura inoperante quando, come succede oggi, le due coalizioni maggiori siano d'accordo su scelte che, come la guerra, possono perfino essere tacciate di incostituzionalità. Ma questa decisione della Corte è affar suo e di chi ne deciderà il rinnovo. Ora come ora, essa ha condannato una parte rilevante degli italiani all'astensione. Dubito che sia un esito felice. Il tipo di dibattito sul referendum presentato dai media conferma l'azzeramento di posizioni come la mia e del manifesto. L'altra sera a Pinocchio sia il sì di Di Pietro sia il no di Marini tagliavano fuori il problema oggi all'ordine del giorno in tutta Europa, Regno unito incluso, come rappresentare di più e non di meno, nel voto e nelle assemblee elettive, la complessità delle idee, bisogni e interessi di una società complessa.

 Non è l'ultimo paradosso del presente che si oscilli fra l'affermazione di una differenziazione illimitata del reale, tale da rendere impraticabile ogni sintesi forte, e l'esaltazione di un politico sempre più decisionista, unilaterale e ultimativo, con la conseguenza di rendere irrapresentabile quella società civile cui si proclama di dare la parola.

 Né la mutilazione è giustificata dall'esigenza di rendere stabili gli esecutivi. Anzitutto questa è auspicabile ma non costituisce un valore in sé: certe ingovernabilità, come nell'Italia degli anni settanta e ottanta segnalano un'inquietudine, una febbre politico-sociale che non serve occultare con marchingegni. In secondo luogo, l'esecutivo può ragionevolmente difendersi dalla multiformità del voto con un livello di sbarramento non micidiale ("vi ho visto, ma siete troppo pochi per avere dei seggi"), mentre si sa che nulla è in grado di difenderlo dalle tendenze erratiche dei deputati, di scarso spessore, che dopo l'elezione vagano da una parte all'altra mercanteggiando schieramento con garanzie di rielezione o posti al governo. Inutile dolersi se, con queste operazioni, la sfera politica appare alla gente sempre più estranea. L'Italia del dopoguerra aveva molti torti, ma fino a pochi anni fa era il paese a più alta partecipazione al voto, una potenzialità democratica che sta sparendo. La più impietosa analisi della prima repubblica non lo può nascondere, e chiedersi la ragione del disamore presente, dell'umore antipolitico dilagante.

 Se il non voto farà cadere questo referendum, come io mi auguro, qualcuno dovrà capire che ci sono, nella coscienza pubblica, limiti insuperabili alla manipolazione e ai trasformismi. E la politica diventerà di nuovo presentabile. Almeno, uno spiraglio le resterà. 


il manifesto - 17/04/99
 

Voto a perdere

Il sì alle ultime battute: "il 50% sarebbe un grande successo" Cresce l'astensione, dal fronte del no inviti a non andare alle urne

- IDA DOMINIJANNI

T roppo fidandosi della continuità della data - 18 aprile 1993, 18 aprile 1999 -, i referendari non si sono accorti che rischiavano di sbagliare decennio. Puntavano sull'effetto plebiscito, e si ritrovano a interrogare i sondaggi sul quorum come l'oracolo. Puntavano sull'onda lunga del "gentismo" contro il Palazzo, e si ritrovano, come apprendisti stregoni, intrappolati nell'antipolitica che essi stessi hanno seminato. Puntavano sull'odio per i partiti, e si ritrovano a fare campagna dai pulpiti di vecchi partiti e nuovi partitini. Il fatto è che degli anni 90 il 18 aprile '93 era l'inizio o forse l'apoteosi, il 18 aprile '99 è la fine. Non è solo la guerra europea a sconvolgere la continuità del calendario con la forza dell'irruzione dell'evento. E' che in sei anni tutti i fragili simboli del "nuovismo" italiano si sono rapidamente consumati, macinati in una transizione schiava di troppi paradossi. Prende poco anche l'ammonimento di Walter Veltroni a votare sì contro le nostalgie degli anni 80: siamo in un altro tempo.

 Se avessero la sensatezza di riflettere su questa sfasatura temporale, i referendari agiterebbero meno la loro clava contro l'astensione e potrebbero applicarsi a capirne le ragioni. Che non stanno, o non solo, in una generica disaffezione per la politica, né nel calcolo di quanti, contrari al mostricciattolo elettorale che risulterebbe dalla vittoria del sì, hanno realizzato (tardivamente) che l'unica speranza di bloccare il referendum non è votare no ma far saltare il quorum non votando. Stanno anche e autenticamente nel consapevole rifiuto, una contestazione attiva ed esplicita, della favola referendaria che tiene banco da anni promettendo, e mancando, stabilità, bipolarismo, riforma della politica tramite riforma della legge elettorale. Anche chi ci ha creduto, sbagliando, la prima volta, questa volta non ci crede, o ci crede meno.

 La clava anti-astensione, usata a man bassa da tutte le radio e tutte le tv, sta peraltro sortendo l'effetto contrario di far rivendicare il non-voto come sacrosanta scelta di libertà, contemplata dalla Costituzione. Come dice Mauro Paissan, il primo politico del centrosinistra a essersi schiettamente posizionato sul non-voto, "L'unanimismo antiastensione e a favore del sì degli organi di informazione puzza di regime trasversale ed è un ulteriore motivo per rifiutare il voto di domenica". Gli fa eco, dal palco sotto la pioggia della manifestazione romana di chiusura della campagna del comitato per il no, Aldo Tortorella, in qualità di presidente dell'associazione per il rinnovamento della sinistra: "Non è vero che la scelta è fra il sì e il no. La Costituzione prevede tre voti, non due: sì, no, astensione. Non andare a votare è un atto di lotta politica contro questo referendum-truffa, contro una sfilza di bugie, contro il tentativo di cancellare dalla faccia dell'Italia tutti i partiti, una cosa che non esiste in nessun paese europeo".

 Guardati con qualche sospetto all'inizio della campagna referendaria, gli argomenti per l'astensione sono ormai di casa nel fronte del no. Lo dicono gli stessi slogan: "no a questo referendum", che può ben essere inteso come invito a far mancare il quorum. Il popolare Adinolfi lo dice chiaro chiaro: "bisogna batterli facendo mancare il quorum, quelli che vorrebbero un paese diviso in asinelli e elefanti". Gloria Buffo e Giorgio Mele, per la sinistra diessina: con l'astensione e con il no, l'importante è non far vincere il sì, perché non c'è stabilità senza rappresentanza e la legge che uscirebbe dal referendum non garantisce la prima e uccide la seconda. E' l'argomento principale di Bertinotti, quello contro la cancellazione delle minoranze. Confortato da un gruppo con le bandiere del suo partito che assieme a un altro gruppo del Pdci grida "pace, pace" mentre parlano gli esponenti della maggioranza e di più mentre parla il cossuttiano Marino, il leader di Rifondazione ha buon gioco a dire che se passasse la legge elettorale riscritta dal referendum "non ci sarebbe più in parlamento nessuna forza contraria all'intervento della Nato": ci sarebbe solo da scegliere "fra zuppa e pan bagnato", ovvero fra due coalizioni sempre più simili nei rispettivi programmi.

 Non ci sta Rifondazione, non ci sta la Lega, non ci stanno i Verdi, il Pdci, i popolari, l'Udr, i socialisti di Boselli ("andiamo ai monti, se non al mare") ad essere depennati dal sì. Veltroni lancia l'allarme contro questa "spinta proporzionalistica", che non è solo dei piccoli ma anche di Berlusconi. E a Berlusconi si rivolge con gesto di pace perfino Tonino Di Pietro, e nientemeno che dalle colonne dell'odiato Foglio, per riportarlo ai doveri del maggioritario. Prodi invece annusa che non è aria da toni trionfali: "se arriveremo al 50% sarà un successo veramente enorme".

 Ma a raffreddare preventivamente gli entusiasmi dei referendari dell'asinello ci pensa Massimo D'Alema, fra una riga e l'altra del suo intervento sulla guerra nella sezione diessina di Casal Bruciato. Lui pensa che sia giusto andare a votare sì e invitare tutti a farlo: "l'idea di stare a casa e far decidere gli altri proprio non mi piace". Dopodiché, "al referendum va restituito il suo significato", che sarebbe di rimettere in moto il cammino delle riforme aprendo la strada a una legge, uninominale a doppio turno, fatta in parlamento. Invece, fra i referendari "c'è stato un qualunquismo becero: qualcuno dei promotori parla male dei partiti per rafforzare il proprio partito: uno sport discutibile". E a un compagno che da sotto il palco gli ricorda una chiacchierata sotto il lampione di qualche tempo fa, il presidente del consiglio risponde: "Mi ricordo, parlavamo di Rutelli: quanto abbiamo fatto, e quanto poco abbiamo ricevuto".


 
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