Riforme istituzionali:
Schede informative sui referendum |
Questione di legittimità e mancata tutela
costituzionale
Nell’analizzare il merito dei referendum proposti dai radicali, non
si può soprassedere riguardo all’eventuale illegittimità
costituzionale dei regimi normativi che s’instaurerebbero a seguito dell’eventuale
approvazione di alcuni di questi.
In tal senso, è abbastanza curioso che la questione non sia
stata sollevata dall'unico soggetto titolato per legge a contrastare le
ragioni dei referendari di fronte alla Corte Costituzionale: il Governo.
Diritto-dovere del Governo, infatti, era quello di verificare, indipendentemente
dai giudizi sul merito politico, la liceità delle richieste dei
referendum.
Tra l’altro, per stessa dichiarazione del Presidente del Consiglio,
si sentiva l’urgenza di un provvedimento che permettesse anche alle ragioni
dei contrari ai referendum di avere voce innanzi alla Corte Costituzionale.
Urgenza non sentita come tale dal "democratico" Pannella che, per il
solo fatto che dei comitati siano in qualche modo riusciti a presentare
memorie per denunciare i motivi d’illegittimità costituzionale di
alcuni quesiti, ha trovato modo di lamentare l’ennesima congiura contro
i referendum.
Lasciando Pannella ai suoi deliri, dobbiamo invece chiederci quale
peso hanno avuto, in seno alla Consulta, le obiezioni di legittimità
costituzionale sollevate.
Vista l'ammissione del quesito elettorale e di quello che chiede l'abrogazione
dell'intero art. 18 dello "Statuto dei lavoratori", sembrerebbe proprio
nessuna, come del resto si è già verificato in precedenti
occasioni.
Come si ricorderà, molte obiezioni di legittimità furono
sollevate anche in occasione dell’esame dei referendum elettorali del '93
e del '99: anch’essi ritenuti lesivi di diritti fondamentali delle minoranze,
manipolativi, e persino in grado di sconvolgere equilibri istituzionali
chiaramente funzionanti, secondo gli schemi di garanzie previsti, soltanto
in un regime elettorale di tipo proporzionale.
Ma su tutte queste questioni la Corte Costituzionale non si è
di fatto pronunciata, per il semplice motivo che l’esame per l’ammissione
dei quesiti referendari è di tipo meccanicistico e non investe anche
problemi di presunta incostituzionalità della legge di risulta,
come ribadito dalla Consulta stessa nella sentenza N° 26 del 1987.
- … quanto all’eventualità che a seguito del risultato del
referendum non accompagnato da un immediato intervento del legislatore
si dia luogo a situazioni normative non conformi alla Costituzione, va
ancora una volta ribadito che in questa sede "non viene di per sé
in rilievo l’eventuale effetto abrogativo del referendum". La prospettata
illegittimità costituzionale di una sua possibile conseguenza "non
può essere presa in considerazione e vagliata al fine di pervenire
a una pronuncia di inammissibilità del quesito referendario", tanto
più che la conseguente situazione normativa potrebbe dar luogo,
se e quando si realizzi, ad un giudizio di legittimità costituzionale,
nelle forme, alle condizioni e nei limiti previsti (sentenza N°
26 1987). |
Detta sentenza non è affatto in contrasto con gli altri limiti
fissati con la precedente sentenza, n° 16 del 1978, e più volte
richiamati dalla Corte per giudicare dell'inammissibilità dei referendum.
Anche in occasione delle recenti pronunce, infatti, pur ribadendo l'inammissibilità
di quesiti che investono leggi c.d. "a contenuto costituzionalmente vincolato",
in quanto vertono su disposizioni la cui abrogazione si traduce in una
lesione di principi costituzionali. Ipotesi, questa, nella quale la Corte,
con successive puntualizzazioni, è venuta ad annoverare anche le
leggi ordinarie la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di ogni
tutela per situazioni che tale tutela esigono secondo Costituzione
(sentenza n° 46 del 2000), si è altresì dimostrata la
natura meccanicistica dell'esame nel merito dei quesiti abrogativi.
Sempre facendo riferimento alla sentenza n° 46 del 2000, non può
sfuggire come la Corte abbia ammesso il quesito che chiede di abrogare
l'art. 18 dello "Statuto dei lavoratori" sulla base della persistenza formale,
nell'ordinamento, di una qualche forma di tutela:
... è da escludere, tuttavia, che la disposizione che si
intende sottoporre a consultazione, per quanto espressiva di esigenze ricollegabili
ai menzionati principi costituzionali, concreti l'unico possibile paradigma
attuativo dei principi medesimi.
Pertanto, l'eventuale abrogazione della c.d. tutela reale avrebbe
il solo effetto di espungere uno dei modi per realizzare la garanzia del
diritto al lavoro, che risulta ricondotta, nelle discipline che attualmente
vigono sia per la tutela reale che per quella obbligatoria, al criterio
di fondo della necessaria giustificazione del licenziamento. Né,
una volta rimosso l'art. 18 della legge n. 300 del 1970, verrebbe meno
ogni tutela in materia di licenziamenti illegittimi, in quanto resterebbe,
comunque, operante nell'ordinamento, anche alla luce dei principi desumibili
dalla Carta sociale europea, ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio
1999, n. 30, la tutela obbligatoria prevista dalla legge 15 luglio 1966,
n. 604, come modificata dalla legge 11 maggio 1990, n. 108, la cui tendenziale
generalità deve essere qui sottolineata (sentenza n° 46,
2000). |
In altre parole, la Corte ha ritenuto possibile ammettere un quesito
abrogativo di un articolo di una legge ordinaria, attuativo di principi
costituzionali, soltanto perché un'altra legge è comunque
in grado di garantire una forma di tutela, anche se di portata incredibilmente
inferiore.
Mentre, cioè, si conferma che l'articolo del quale si chiede
l'abrogazione è sì espressivo di esigenze ricollegabili
ai menzionati principi costituzionali; si ribadisce pure che l'esame
sui possibili effetti del referendum finisce lì dove è possibile
constatare che nell'ordinamento vi siano altre norme che facciano riferimento
ai principi costituzionali in oggetto.
Oggetto dei quesiti referendari possono quindi ben essere anche i meccanismi
d'attuazione dei principi tutelati in costituzione, purché
rimanga "qualcosa", non ritenendo in alcun modo di dover tutelare
la realizzazione concreta dei principi sanciti in Costituzione che si è
via via negli anni perfezionata attraverso i successivi interventi legislativi
ordinari. Successivi interventi legislativi resi per l'appunto necessari
(sulla spinta delle richieste e delle lotte portate avanti dai lavoratori)
dall'esigenza di dare concretezza a quei precetti costituzionali che l'esperienza
sul campo aveva ben evidenziato come non pienamente realizzati attraverso
quelle stesse leggi che oggi dovrebbero invece costituire "la tutela che
in ogni caso rimane".
E a conferma che la sentenza n° 26 del 1987 faccia ancora giurisprudenza
in via generale, c'è la mancata analisi degli effetti che concretamente
potrebbero realizzarsi a seguito dell'abrogazione dell'art. 18 dello Statuto
dei lavoratori, relativamente all'effettiva possibilità di poter
garantire i lavoratori contro i licenziamenti discriminatori.
Una volta meno l'art. 18, infatti, introducendo di fatto la possibilità
del licenziamento anche senza motivo, dietro pagamento del risarcimento
del danno nella misura peraltro non particolarmente onerosa fissata dall'art.
8 della L. 15 luglio 1966, n° 604, il datore di lavoro non dovrebbe
fare altro che evitare di compiere atti formalmente discriminatori per
poter licenziare senza incorrere nell'annullamento dell'atto. Altresì,
gli effetti del referendum arrivano al punto di cancellare la puntuale
definizione delle sanzioni contenuta nell'art. 18, per il datore di lavoro,
per l'atto discriminatorio compiuto e in ipotesi annullato dal giudice.
Non solo, quindi, l'abrogazione per la parte che prevede il reintegro per
l'ingiusto licenziamento; ma anche l'abrogazione di norme che una volta
cancellate rimandano ad altri metodi di giudizio più generali relativamente
alla quantificazione del danno subito dal lavoratore per il licenziamento
discriminatorio.
Indipendentemente dalle possibili risposte, questo tipo di rilievi relativi
alla tutela reale e non soltanto formale, come detto, non sono stati oggetto
di esame da parte della Corte, in quanto, una volta appurato che "qualcosa"
formalmente rimarrebbe a tutela dei principi costituzionali, per la Corte
la questione dell'esame sul merito può dirsi conclusa.
Una sorta di esame preventivo di tipo soltanto meccanicistico, quindi,
come confermano anche le sentenze emesse per i quesiti di natura elettorale,
dove la tutela dei principi costituzionali si riduce ad un esame degli
effetti abrogativi al solo fine di salvaguardare la rielezione degli Organi
istituzionali previsti in Costituzione, lasciando cadere in secondo piano
tutti i possibili guasti che il diverso tipo di elezione potrebbe
produrre sull'intero assetto istituzionale:
"Un organo elettivo, previsto dalla Costituzione, non può
essere neppure temporaneamente privato delle norme elettorali che ne rendono
costantemente possibile l’operatività" (sentenza N° 29 1987).
"I referendum abrogativi delle leggi elettorali degli organi costituzionali
non devono paralizzare i meccanismi di rinnovazione, che sono strumento
essenziale della loro necessaria e costante operatività" (sentenza
N° 26 1997).
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Un meccanicismo che, chiaramente, non è in grado di salvaguardare
altre esigenze degne di tutela.
Registrata l'inesistenza di un esame esteso a tutti i possibili
effetti del referendum, si deve purtroppo registrare una nuova impossibilità
ad intervenire in presenza di leggi che, per loro natura, non sono in alcun
modo impugnabili.
Come si fa, infatti, a sollevare la questione incidentale nel corso
di un giudizio, se per alcune leggi, tipo quelle elettorali, le leggi cosiddette
autoapplicative (in quanto non richiedono, per il raggiungimento dei
propri fini, un’applicazione giudiziaria - "La giustizia costituzionale",
Zagrebelsky), non c’è modo alcuno di finire davanti a un giudice?
Per poter sollevare la questione di costituzionalità non vi
è altra via che attendere la legge al varco, durante un procedimento
giudiziario nel quale la legge trovi la sua applicazione, e soltanto in
questa sede poterne contestare la legittimità costituzionale.
Ma indipendentemente dai casi particolari, come per le leggi elettorali
(vigenti ma non impugnabili perché non soggette ad un’applicazione
giudiziaria), è forte il rischio di non poter più sollevare
la questione di legittimità per dei diritti che non esistono più
perché abrogati per via referendaria.
È allora divenuto quanto mai urgente un sistema di controllo
dei referendum esteso a tutti gli effetti possibili, in riferimento alla
legittimità costituzionale, quanto meno per quelle leggi che, come
detto, potrebbe poi non essere concretamente possibile dar luogo ad un
successivo controllo da parte della Corte costituzionale.
Denunciare le urgenze, però, non basta. La gravità delle
questioni e l’impossibilità, di fatto, di ricevere adeguata tutela,
impongono scelte politiche conseguenti.
Se i processi di riforma avvengono in dispregio delle garanzie costituzionali,
può essere sufficiente la semplice presa di posizione contraria?
Come spiegare la “gentilezza” della risposta?
Si può, di fronte ad un simile “strappo” di democrazia, accettare
di scendere sullo stesso piano, partecipando ai processi che concretamente
permettono lo strappo, la violazione costituzionale?
Evidentemente no.
Se si fa un certo tipo di denuncia, la risposta politica deve essere
coerente sino in fondo. La partecipazione a questi referendum va rifiutata
in blocco, perché lesivi di diritti fondamentali nella totale assenza
di Istituti in grado d’impedire forme di totalitarismo della maggioranza.
L’unico impedimento reale oggi opponibile è l’astensione, in
quanto meccanismo di delegittimazione che parte dal basso in assenza di
un controllo credibile di legalità.