Art. 18: aspetti generali e questione di merito
Dopo aver molto criticato i radicali per l'uso particolare dello strumento
referendario, relativamente all'oggetto di alcuni quesiti referendari,
apparirebbe quanto mai ipocrita, ora, evitare l'analisi circa l'impatto
che il quesito sull'art. 18 potrebbe avere sul delicato sistema di tutela
dei diritti.
Si tratta di rispondere, in primo luogo, ad una sensazione diffusa:
paradossalmente, infatti, la battaglia per l'estensione ad una platea più
vasta dell'obbligo del reintegro per il lavoratore illegittimamente licenziato,
potrebbe cadere in secondo piano di fronte alla necessità di impedire
che, attraverso l'eventuale sconfitta dell'iniziativa referendaria, possano
essere messi in discussione diritti che vanno ben al di là del contenuto
del quesito.
Volendo quindi procedere con il confronto, è bene sottolineare
una prima e sostanziale differenza: se, infatti, obiettivo di alcuni quesiti
radicali era la cancellazione di un diritto; per il referendum in questione
si tratta del processo opposto.
Inoltre, per male che vada, l'attuale sistema di tutela per il licenziamento
illegittimo rimarrebbe immutato.
In linea di principio, quindi, non si dovrebbero temere particolari
ripercussioni negative quale che sarà il risultato del referendum.
E' forte il rischio, però, che così non sarà;
o che, quanto meno, vi saranno forti pressioni sull'opinione pubblica per
trasformare un'opportunità di estensione dei diritti nel suo esatto
contrario.
Il merito del quesito, infatti, pur riguardando diritti costituzionalmente
protetti, ha il "torto" di essere vissuto come un "diritto di altri" da
una buona fetta dell'elettorato: vuoi perché direttamente controparte
ai destinatari del diritto in questione; vuoi perché le profonde
mutazioni del mercato del lavoro hanno già prodotto un humus culturale
da legge della giungla in tutti quei soggetti che si ritengono in qualche
modo esclusi dal mondo dei cosiddetti "garantiti".
A ciò si aggiunga il forte impegno, sia del Governo Berlusconi,
come di alcune organizzazioni sindacali e di una parte considerevole dell'Ulivo,
di ricondurre tutta la questione dei diritti del lavoro entro binari diversi
da quelli dell'obbligatoria tutela costituzionale.
Su tutti, le dichiarazioni del Segretario della Cisl Pezzotta: «La
Cisl è contraria a questo referendum perché rappresenta un'ingerenza
nell'autonomia delle parti sociali» ... «lavoreremo perché
fallisca, perché la politica non può appropriarsi di questa
materia» (il manifesto - 25/04/03).
Con un colpo solo cancellati gli art. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione,
rei, evidentemente, di regolare questioni che ledono l'autonomia delle
parti sociali. Cancellato anche ogni diritto di partecipazione dei cittadini
alla vita politica: intervenire affinché le enunciazioni di principio
si traducano in diritti sostanziali, pare non sia più una materia
che attiene alla politica.
Non più una garanzia sui diritti reali in quanto tali, quindi,
a prescindere dai numeri, bensì una vertenza continua da affidare
alla sola contrattazione sindacale.
Di fronte ad un tale approccio alle questioni del diritto del lavoro
profondamente acostituzionale, è evidente che la questione del cosa
si andrà a votare cadrà in secondo piano.
L'eventuale sconfitta del quesito referendario verrà sicuramente
spiegata come il segnale di una mutazione in atto nell'intera società
e per dimostrare l'inutilità di tutele non più al passo con
le nuove esigenze del mercato del lavoro e per lo più riguardanti
una fetta limitata di cittadini; con buona pace della tradizione del costituzionalismo
democratico, da sempre orientata verso la necessità di garantire
l'intangibilità di alcuni diritti.
Di fronte a questo possibile quadro, l'attuale iniziativa referendaria
risente di un difetto di fondo già riscontrato nell'esperienza radicale.
Come già ampiamente trattato in queste pagine riguardo ad alcuni
quesiti abrogativi degli anni scorsi, un conto è chiamare la maggioranza
ad esprimersi sulla soppressione di un diritto generale, rispetto al quale
ogni singolo elettore potrebbe subire le eventuali conseguenze, positive
o negative, del voto espresso; altro discorso, invece, è chiamare
la maggioranza ad esprimersi per la soppressione di un diritto specificatamente
concepito ed attribuito ad una determinata categoria di cittadini per rispondere
a particolari esigenze.
In quest'ultimo caso, infatti, risulta sin troppo evidente come tutti
gli elettori in qualche modo "esterni" al diritto in questione potrebbero
decidere di votare non sulla base di ciò che potrebbe essere giusto
in linea di principio, bensì perché così potrebbe
convenire loro in riferimento agli eventuali vantaggi che gli potrebbero
derivare dall'eventuale soppressione dei diritti altrui.
Di fatto, nella logica iperliberista dei radicali, un sistema sbrigativo
di risoluzione delle questioni in grado di sopprimere i diritti di ognuno.
Un meccanismo in grado di assemblare maggioranze diverse per ogni questione,
che oggi fa decidere sui diritti di Tizio, domani di Caio, sempre secondo
un principio di "decisione a maggioranza"; una maggioranza, però,
che di volta in volta non è mai chiamata, nel suo insieme, a rispondere
delle conseguenze negative in ordine ai diritti soppressi.
Certamente, come già sottolineato all'inizio, nel caso del quesito
sull'art. 18 non si tratta di eliminare un diritto, quanto di estenderlo
anche a quei lavoratori che oggi non possono farvi ricorso per mere considerazioni
di opportunità in riferimento alle dimensioni e alla natura dell'impresa.
Il risultato finale, però, in termini di accettazione del principio
maggioritario applicato a questioni inerenti diritti "particolari", nel
senso di diritti che, per quanto generali, si rivolgono a tutela delle
minoranze, purtroppo non cambia.
La realizzazione (la cancellazione nel caso di molti quesiti radicali)
delle tutele rivolte a specifici settori della società, siano esse
minoranze etniche, religiose o, come nel caso dell'attuale referendum,
la parte più debole nel rapporto impresa-lavoratori, dovrebbe sempre
avvenire, in linea di principio, a prescindere da ogni logica maggioritaria.
In un sistema di democrazia ideale, il controllo di costituzionalità
delle leggi dovrebbe di per sé stesso già essere in grado
di far rispettare e realizzare i principi costituzionali.
E che questo sistema non appartenga del tutto al mondo dei sogni, lo
dimostrano le tante sentenze in conseguenza delle quali molti principi
hanno avuto modo di affermarsi nonostante la maggioranze del momento avessero
altri interessi da tutelare. Sono state le sentenze della Corte Suprema
americana a costringere i Parlamenti statali ed il Congresso a legiferare
per abbattere le barriere raziali. Fosse dipeso dal voto a maggioranza,
le minoranze di colore sarebbero ancora fortemente discriminate.
Accertato l'errore di metodo, non si può però sottacere
riguardo ad un aspetto positivo di tutta l'iniziativa: finalmente, avremo
un chiaro quadro politico delle posizioni in campo.
Nulla di nuovo dal lato del Governo, apertamente impegnato nel portare
avanti un programma di rivisitazione dell'intero sistema delle tutele,
secondo la logica che pone il mercato al centro del sistema. Non a caso,
il cambio del soggetto destinatario delle attenzioni del Governo: dallo
"Statuto dei lavoratori" si dovrebbe infatti passare allo "Statuto
dei lavori".
Non si tratta di uno slogan ad effetto, ma di una concezione ben precisa
attraverso la quale reinterpretare e riscrivere la Costituzione, rea, allo
stato attuale, di porre troppi limiti alla libera iniziativa economica
privata.
Limiti che, per l'appunto, dovrebbero invece essere patrimonio delle
forze politiche d'opposizione.
Del resto, di fronte alla chiarezza di certi articoli della Costituzione,
come il 41, non sono ammissibili mezze misure: o si è favorevoli,
con tutto ciò che ne consegue; o si è contrari.
Art. 41 Cost.
L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. |
28 aprile 2003 - Franco Ragusa
(ultima revisione: 2 maggio 2003)