Riforme Istituzionali
Referendum 2003
 
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Art. 18: aspetti generali e questione di merito
 
Dopo aver molto criticato i radicali per l'uso particolare dello strumento referendario, relativamente all'oggetto di alcuni quesiti referendari, apparirebbe quanto mai ipocrita, ora, evitare l'analisi circa l'impatto che il quesito sull'art. 18 potrebbe avere sul delicato sistema di tutela dei diritti.
Si tratta di rispondere, in primo luogo, ad una sensazione diffusa: paradossalmente, infatti, la battaglia per l'estensione ad una platea più vasta dell'obbligo del reintegro per il lavoratore illegittimamente licenziato, potrebbe cadere in secondo piano di fronte alla necessità di impedire che, attraverso l'eventuale sconfitta dell'iniziativa referendaria, possano essere messi in discussione diritti che vanno ben al di là del contenuto del quesito.
Volendo quindi procedere con il confronto, è bene sottolineare una prima e sostanziale differenza: se, infatti, obiettivo di alcuni quesiti radicali era la cancellazione di un diritto; per il referendum in questione si tratta del processo opposto.
Inoltre, per male che vada, l'attuale sistema di tutela per il licenziamento illegittimo rimarrebbe immutato.
In linea di principio, quindi, non si dovrebbero temere particolari ripercussioni negative quale che sarà il risultato del referendum.
E' forte il rischio, però, che così non sarà; o che, quanto meno, vi saranno forti pressioni sull'opinione pubblica per trasformare un'opportunità di estensione dei diritti nel suo esatto contrario.
Il merito del quesito, infatti, pur riguardando diritti costituzionalmente protetti, ha il "torto" di essere vissuto come un "diritto di altri" da una buona fetta dell'elettorato: vuoi perché direttamente controparte ai destinatari del diritto in questione; vuoi perché le profonde mutazioni del mercato del lavoro hanno già prodotto un humus culturale da legge della giungla in tutti quei soggetti che si ritengono in qualche modo esclusi dal mondo dei cosiddetti "garantiti".
A ciò si aggiunga il forte impegno, sia del Governo Berlusconi, come di alcune organizzazioni sindacali e di una parte considerevole dell'Ulivo, di ricondurre tutta la questione dei diritti del lavoro entro binari diversi da quelli dell'obbligatoria tutela costituzionale.
Su tutti, le dichiarazioni del Segretario della Cisl Pezzotta: «La Cisl è contraria a questo referendum perché rappresenta un'ingerenza nell'autonomia delle parti sociali» ... «lavoreremo perché fallisca, perché la politica non può appropriarsi di questa materia» (il manifesto - 25/04/03).
Con un colpo solo cancellati gli art. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, rei, evidentemente, di regolare questioni che ledono l'autonomia delle parti sociali. Cancellato anche ogni diritto di partecipazione dei cittadini alla vita politica: intervenire affinché le enunciazioni di principio si traducano in diritti sostanziali, pare non sia più una materia che attiene alla politica.
Non più una garanzia sui diritti reali in quanto tali, quindi, a prescindere dai numeri, bensì una vertenza continua da affidare alla sola contrattazione sindacale.
Di fronte ad un tale approccio alle questioni del diritto del lavoro profondamente acostituzionale, è evidente che la questione del cosa si andrà a votare cadrà in secondo piano.
L'eventuale sconfitta del quesito referendario verrà sicuramente spiegata come il segnale di una mutazione in atto nell'intera società e per dimostrare l'inutilità di tutele non più al passo con le nuove esigenze del mercato del lavoro e per lo più riguardanti una fetta limitata di cittadini; con buona pace della tradizione del costituzionalismo democratico, da sempre orientata verso la necessità di garantire l'intangibilità di alcuni diritti.

Di fronte a questo possibile quadro, l'attuale iniziativa referendaria risente di un difetto di fondo già riscontrato nell'esperienza radicale.
Come già ampiamente trattato in queste pagine riguardo ad alcuni quesiti abrogativi degli anni scorsi, un conto è chiamare la maggioranza ad esprimersi sulla soppressione di un diritto generale, rispetto al quale ogni singolo elettore potrebbe subire le eventuali conseguenze, positive o negative, del voto espresso; altro discorso, invece, è chiamare la maggioranza ad esprimersi per la soppressione di un diritto specificatamente concepito ed attribuito ad una determinata categoria di cittadini per rispondere a particolari esigenze.
In quest'ultimo caso, infatti, risulta sin troppo evidente come tutti gli elettori in qualche modo "esterni" al diritto in questione potrebbero decidere di votare non sulla base di ciò che potrebbe essere giusto in linea di principio, bensì perché così potrebbe convenire loro in riferimento agli eventuali vantaggi che gli potrebbero derivare dall'eventuale soppressione dei diritti altrui.
Di fatto, nella logica iperliberista dei radicali, un sistema sbrigativo di risoluzione delle questioni in grado di sopprimere i diritti di ognuno. Un meccanismo in grado di assemblare maggioranze diverse per ogni questione, che oggi fa decidere sui diritti di Tizio, domani di Caio, sempre secondo un principio di "decisione a maggioranza"; una maggioranza, però, che di volta in volta non è mai chiamata, nel suo insieme, a rispondere delle conseguenze negative in ordine ai diritti soppressi.
Certamente, come già sottolineato all'inizio, nel caso del quesito sull'art. 18 non si tratta di eliminare un diritto, quanto di estenderlo anche a quei lavoratori che oggi non possono farvi ricorso per mere considerazioni di opportunità in riferimento alle dimensioni e alla natura dell'impresa.
Il risultato finale, però, in termini di accettazione del principio maggioritario applicato a questioni inerenti diritti "particolari", nel senso di diritti che, per quanto generali, si rivolgono a tutela delle minoranze, purtroppo non cambia.
La realizzazione (la cancellazione nel caso di molti quesiti radicali) delle tutele rivolte a specifici settori della società, siano esse minoranze etniche, religiose o, come nel caso dell'attuale referendum, la parte più debole nel rapporto impresa-lavoratori, dovrebbe sempre avvenire, in linea di principio, a prescindere da ogni logica maggioritaria.
In un sistema di democrazia ideale, il controllo di costituzionalità delle leggi dovrebbe di per sé stesso già essere in grado di far rispettare e realizzare i principi costituzionali.
E che questo sistema non appartenga del tutto al mondo dei sogni, lo dimostrano le tante sentenze in conseguenza delle quali molti principi hanno avuto modo di affermarsi nonostante la maggioranze del momento avessero altri interessi da tutelare. Sono state le sentenze della Corte Suprema americana a costringere i Parlamenti statali ed il Congresso a legiferare per abbattere le barriere raziali. Fosse dipeso dal voto a maggioranza, le minoranze di colore sarebbero ancora fortemente discriminate.
 
Accertato l'errore di metodo, non si può però sottacere riguardo ad un aspetto positivo di tutta l'iniziativa: finalmente, avremo un chiaro quadro politico delle posizioni in campo.
Nulla di nuovo dal lato del Governo, apertamente impegnato nel portare avanti un programma di rivisitazione dell'intero sistema delle tutele, secondo la logica che pone il mercato al centro del sistema. Non a caso, il cambio del soggetto destinatario delle attenzioni del Governo: dallo "Statuto dei lavoratori" si dovrebbe infatti passare allo "Statuto dei lavori".
Non si tratta di uno slogan ad effetto, ma di una concezione ben precisa attraverso la quale reinterpretare e riscrivere la Costituzione, rea, allo stato attuale, di porre troppi limiti alla libera iniziativa economica privata.
Limiti che, per l'appunto, dovrebbero invece essere patrimonio delle forze politiche d'opposizione.
Del resto, di fronte alla chiarezza di certi articoli della Costituzione, come il 41, non sono ammissibili mezze misure: o si è favorevoli, con tutto ciò che ne consegue; o si è contrari.
 

Art. 41 Cost.
L’iniziativa economica privata è libera. 
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
 
Quali i motivi, allora, per arrivare a dichiarare di voler boicottare l'iniziativa referendaria, tanto più visti i possibili effetti indiretti su tutta la normativa riguardante il licenziamento illegittimo?
Il merito del quesito, infatti, è di una semplicità disarmante:
è giusto o no che il lavoratore licenziato senza giusta causa abbia diritto alla conservazione del posto di lavoro, e questo indipendentemente dalle dimensioni dell'impresa?
Il licenziamento senza giusta causa, ovunque esso avvenga, offende o no la sicurezza, la libertà e la dignità umana?
 
Sono la semplicità del quesito e i principi costituzionali alla base dello stesso che non permettono di comprendere i motivi di tanto astio proveniente da larghi settori dell'Ulivo e da parte di CISL e UIL. Tanto più in assenza di concrete possibilità di realizzare, laddove fosse anche possibile, un sistema credibile di tutele alternativo: non è stato fatto nei cinque anni di governo del centro-sinistra, come e perché dovrebbe farlo oggi Berlusconi, nemico dichiarato di norme costituzionali da lui considerate soltanto d'intralcio?
Certamente, il referendum non sarà in grado di risolvere le altre questioni aperte; su tutte, la condizione di precarietà diffusa, merito soprattutto delle politiche dei governi precedenti, rispetto alla quale è divenuto urgente intervenire per dare forza e diritti a chi non li ha.
Ma cosa c'entra tutto ciò con la volontà dichiarata di negare al licenziato senza giusta causa, fosse anche l'ultima persona a poter godere di un vero contratto di lavoro, il diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro?
 
Questo referendum potrebbe rivelarsi una iattura, certo, per i meccanismi che potrebbero mettersi in moto nel caso di una sua sconfitta. Ma proprio per questo, è d'obbligo intervenire per avviare un'ampia discussione che faccia chiarezza sulla reale portata di un'iniziativa referendaria finalizzata ad estendere dei diritti e che non può essere trasformata in una consultazione su dei diritti che la sconfitta del referendum non potrebbe in ogni caso scalfire.
Pur nella diversità di opinioni riguardo all'opportunità o meno di estendere il reintegro anche nelle imprese sino a 15 dipendenti o di tendenza, sarebbe infatti grave un atteggiamento volto a lasciare l'iniziativa nelle mani di chi, lo si sa per certo, ha già pronto nel cassetto un più ampio progetto di demolizione del sistema di garanzie.

     28 aprile 2003 -  Franco Ragusa
 
     (ultima revisione: 2 maggio 2003)



 
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