Riforme Istituzionali
Rassegna stampa
 
www.riforme.net


Nota del curatore: l'articolo che segue affronta, da un diverso punto di vista, le medesime questioni focalizzate nell'intervento Presidenziali USA 2000: quando il maggioritario e i falsi valori del federalismo scoppiano
Corriere della Sera - 11/11/2000
 
Le accuse al sistema elettorale americano
Peccatucci e peccatoni
   Giovanni Sartori
 
      Bei tempi quando anche le notizie dovevano viaggiare a cavallo o arrivare sospinte dal vento (delle navi a vela). Bei tempi. Nessuno pretendeva di sapere le cose in tempo reale, nell’attimo stesso nel quale avvenivano. Il logorio della vita moderna in quei bei tempi non logorava nessuno. Il «pasticcio» delle elezioni americane nasce, in primissimo luogo, dalla fretta. Lo hanno fatto nascere, alle tre di mattina ora italiana dell’8 novembre, la Cnn e altre reti che assegnavano la Florida a Gore e così facevano prevedere agli esperti che la presidenza andava a lui. In realtà questi network ci vendevano in quel momento la pelle di un orso che non avevano ancora ammazzato. Hanno fatto finta di sapere quel che non sapevano. Volevano lo scoop. Hanno prodotto, invece, un caos che si è prima abbattuto sui media di tutto il mondo - che in Europa hanno vissuto la loro notte più lunga - e che i media hanno a loro volta scaricato e ingigantito raccontando ai loro ascoltatori che la democrazia americana entrava in crisi. D’un tratto, e a velocità sempre più supersonica, si è scoperto che il re era nudo e che i suoi abiti nascondevano crepe e malattie a non finire. Davvero? Secondo me la democrazia americana non merita le critiche che ha scatenato. Il che non toglie che abbiamo acceso un incendio potenzialmente devastante, e che quindi urge versare acqua sul fuoco.

La prima accusa è che il sistema elettorale americano consente che il voto popolare (la somma dei voti individualmente espressi in tutto il territorio degli Stati Uniti) possa essere diverso dal voto elettorale dei 538 «grandi elettori» che davvero andranno a eleggere il 18 dicembre il presidente. Possibile? Sì, è possibile. Questa possibilità è posta dal principio maggioritario del «primo che prende tutto». Principio che a sua volta comporta che sia possibilissimo che chi prende più voti può perdere ottenendo meno seggi.
Mettiamo che il partito Rosso vinca cento seggi uninominali con un solo voto di maggioranza (in ciascun collegio). Mettiamo poi che il partito Giallo vinca novanta seggi uninominali ogni volta con 100 voti in eccesso. In tal caso il partito Rosso non avrà sprecato nemmeno un voto, mentre il partito Giallo ne avrà sprecati parecchi. Ergo, il partito Rosso vince le elezioni con meno voti popolari del partito Giallo. Succede di tanto in tanto in Inghilterra e nei vari Paesi che adottano il sistema maggioritario. E quindi può succedere anche negli Stati Uniti. Rientra nelle regole di quel gioco. E se le regole di quel gioco non ci piacciono, allora dobbiamo optare per un sistema proporzionale. Ma fa abbastanza ridere che siano proprio gli italiani a dichiarare antidemocratico il sistema americano. Non abbiamo di recente proposto, con ben due referendum, di introdurre in Italia, come diceva Pannella, il «voto all’americana»?
La seconda accusa è che il sistema americano elegge il presidente in modo indiretto, e quindi (addirittura) in modo «elitista», e cioè con il passaggio intermedio posto dal surricordato collegio dei grandi elettori. Non sarebbe più democratica, ci chiediamo, una elezione diretta? La risposta è sì se ci dimentichiamo che gli Stati Uniti sono un sistema federale; ma forse è no se ce lo ricordiamo. Quando abbiamo un sistema federale è razionale che la rappresentanza non sia solo individuale (le persone votano come cittadini degli Stati Uniti), ma anche territoriale (le persone votano come cittadini del loro Stato e non, invece, di tutti gli Stati «riuniti»). In America la Camera Bassa è espressione della rappresentanza individuale, mentre il Senato è espressione della rappresentanza territoriale (uno o due senatori per ogni Stato a prescindere dal peso demografico).
Sbagliato? No di certo. E il collegio dei grandi elettori rientra nella stessa logica, e anzi ne costituisce una rifusione che a me (sicuramente meno intelligente dei tanti geni che sputano sentenze in proposito) sembra intelligente. Vale a dire, il collegio dei grandi elettori si basa sul principio della rappresentanza territoriale ma lo «pondera» e corregge contando il peso demografico. Così la California, lo Stato più popolato, dispone di 45 grandi elettori mentre l’Alaska, spopolata, ne ha soltanto 3. A me, ripeto, questo sistema sembra intelligente. Certo, non è intoccabile. Ma nemmeno è da demonizzare.
I suddetti sono dunque peccati immaginari, peccati che il sistema americano non ha. Passo ora brevemente ai peccatucci, ai peccati che in materia elettorale abbiamo un po’ tutti. Per esempio, il mondo è pieno, ovunque, di schede di voto annullate. Sarà perché la scheda di voto non è chiara, o sarà perché il votante è stupidino. Non importa. Importa che se si affermasse il principio che chi sbaglia il voto ha diritto di rivotare, allora tutte le elezioni del mondo sarebbero sempre da rifare. Poveri noi. Nemmeno mi impressionano molto i possibili imbrogliucci elettorali che probabilmente verranno scoperti in Florida. Finché si tratta di imbrogliucci, chi è senza peccato scagli la prima pietra. In Italia i voti di partito sono sempre stati esatti, ma i voti di preferenza (finché abbiamo avuto le preferenze) sono sempre stati truffaldini, e cioè aggiunti dagli scrutatori. E il colmo è stato raggiunto ieri da Salman Rushdie che ha avuto l’impudenza di scrivere su Repubblica che l’India fa meglio degli Stati Uniti nel «portare avanti un sistema di elezione diretta». Forse Rushdie, competente in romanzi ma certo non in altro, è l’unico a non sapere che l’India batte qualsiasi altro Paese in brogli elettorali. Ma siccome è già un miracolo che l’India riesca a essere una democrazia, tutti fanno finta di non vedere. E fanno bene.
Tornando agli Stati Uniti, è noto che Kennedy vinse per una manciata di voti la presidenza degli Stati Uniti grazie ai brogli elettorali del sindaco di Chicago Richard Daley e che Nixon, assai più elegante in questo dei Gore e dei Bush di oggi, concesse la vittoria a Kennedy, fondata sui quindicimila morti risuscitati dalla macchina elettorale di Daley, dicendo «voglio salvare l’America». Ma i tempi di Nixon sembrano oggi, ahimé, bei tempi antichi.
Allora, al momento ci troviamo in questa assurda situazione: che le cose sulle quali stiamo starnazzando sono quasi tutte stupide o irrilevanti. Mentre a tutt’oggi ci sfuggono i pericoli veri dell’incendio che siamo andati irresponsabilmente innescando. Il primo è che la questione del voto della Florida si trasformi in un cavillismo giuridico dal quale non sapremo più come uscire. I magistrati esibizionisti e irresponsabili dell’età dei media esistono anche in Florida; e quindi le legioni di avvocati inviate in loco da Gore e da Bush rischiano di trovare magistrati la cui celebrità personale prevale sull’esigenza che gli Stati Uniti abbiano un presidente in tempo utile.
Il secondo, e ancor più grave pericolo, è che il collegio elettorale non funzioni, questa volta, come previsto dalla prassi e dalle convenzioni della costituzione. Di regola i grandi elettori del presidente «obbediscono» agli ordini. Ma li possono anche «tradire». E questo è il vero tallone d’Achille del sistema. Se andremo, nel collegio elettorale, per un voto o due, è possibilissimo che qualcuno tradisca. Nel qual caso l’America avrebbe davvero un presidente di dubbia legittimità. Questo sì che sarebbe un disastro. Ed è di questa eventualità, e non di altri peccatucci, che ci dobbiamo davvero preoccupare.



 
Indice "Rassegna Stampa"