Nei Paesi di democrazia maggioritaria «normale»,
la verifica la fanno gli elettori quando sono chiamati a pronunciarsi.
Da noi, che siamo una democrazia maggioritaria «pasticciata»,
la fanno i partiti nel corso della stessa legislatura. La differenza, che
non è da poco, la fa un equivoco. Nei Paesi di democrazia «normale»,
soggetti di diritto pubblico sono i cittadini; in quelli di democrazia
«pasticciata» sono, surrettiziamente, i partiti. Così,
in Italia, la totalità della politica si concentra nel «totalitarismo
dei partiti», mentre in democrazia si articola, innanzi tutto, nella
sovranità dei cittadini-elettori e, successivamente, nel principio
di rappresentanza. Revocabile. Nella passata legislatura, il centrosinistra
ha cambiato tre capi di governo, e persino maggioranza, senza che né
il leader della coalizione che aveva vinto le elezioni (Prodi), né
il capo dello Stato (Scalfaro), che ne aveva il dovere morale e politico,
avvertissero l’esigenza di chiedere agli elettori cosa ne pensassero. In
questa legislatura, si è andati avanti per mesi con una sorta di
«verifica virtuale», che è stata un tentativo di suicidio
politico collettivo, da parte della maggioranza di governo, e un abominio
di diritto pubblico. Entrambi tollerati da un Berlusconi troppo «liberale»,
in questa circostanza, con i propri alleati. Il capo del governo mi consenta,
allora, un consiglio: qualora la manfrina dovesse ripetersi, verifichi
se ha ancora la maggioranza in Parlamento. E, qualora non l’avesse più,
vada da quello della Repubblica a dirglielo. A questo punto, la verifica
la farebbero nuovamente gli elettori. L’equivoco, però, nasce dalla
stessa Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi
liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare
la politica nazionale» (art. 49). La Costituzione sembra, infatti,
adombrare (ambiguamente) che i partiti - che sono associazioni private
- siano soggetti di diritto pubblico. L’ambiguità costituzionale
scaturisce, a sua volta, dalla preoccupazione, da parte dei costituenti,
di chiudere con il passato totalitario - che concentrava nel partito unico
(fascista) la rappresentanza dell’intera comunità politica - e di
trasferire lo stesso principio di rappresentanza politica alla pluralità
dei partiti. Ora, che, uscendo dal Ventennio, tale preoccupazione fosse
legittima e lodevole, nonché, tenuto conto del clima compromissorio
in cui è nata la Costituzione, anche umanamente comprensibile, è
un fatto. Ma è anche un fatto che il risultato non è stata
la chiusura, ma una sorta di paradossale saldatura col passato.
La Costituzione non sanziona, infatti, la sovranità
(democratica) del cittadino-elettore sul processo di elezione dei propri
rappresentanti e sulla loro revocabilità, ma continua a codificare
la supremazia dei rappresentanti, una volta eletti, sul cittadino-elettore,
cioè registra semplicemente il passaggio dalla dittatura del partito
al singolare alla dittatura dei partiti al plurale. Dal duro totalitarismo
formalizzato a un soffice totalitarismo di fatto. Che piaccia o no, sia
che ci si riferisca alla Costituzione formale, sia che si faccia appello
a quella materiale, continuiamo, cioè, a vivere, almeno sotto questo
profilo, nel passato. Che si è tradotto in un sistema costituzionale
formalmente ambiguo e materialmente poco democratico, a cavallo fra la
teoria della sovranità popolare e la prassi della sovranità
dei partiti. Come non bastasse, chi invoca la riforma della Costituzione
in una «Repubblica dei cittadini» è accusato, magari
da quegli stessi che dei regimi totalitari sono stati fino a ieri gli esegeti
e della «Repubblica dei partiti» sono oggi i beneficiari, di
tentativo di eversione. In nome della democrazia!
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