Riforme Istituzionali
 
ECC. MO TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
DELLA LOMBARDIA
RICORRONO

l’associazione Progetto Diritti o.n.l.u.s., in persona del Presidente legale rappresentante Arturo Salerni, l’associazione Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia (CRED), nella persona del Presidente legale rappresentante Fabio Marcelli, Progetto Diritti Consumatori e Utenti o.n.l.u.s, in persona del Presidente legale rappresentante Ettore Corsale, il Sig. Franco Ragusa (Roma) e il Sig. Sergio Mauri da Milano, tutti elettivamente domiciliati in Milano, Via Cesare Battisti 8, presso lo studio dell’Avvocato Antonino Della Sciucca, che li rappresenta e difende in forza di procura in calce al presente atto unitamente agli Avvocati Arturo Salerni, Maria Rosaria Damizia, Mario Angelelli e Francesco Romito;

CONTRO

la Regione Lombardia in persona del Presidente pro-tempore, domiciliato per la carica in Milano, Via Fabio Filzi 22

AVVERSO

la deliberazione del Consiglio Regionale n. VII/25, adottata nella seduta pubblica del 15 settembre 2000, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, serie editoriale ordinaria del 2 ottobre 2000, recante "Proposta di indizione di referendum consultivo per il trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione, anche professionale, nonché di polizia locale alla Regione".

Il presente ricorso sta altresì avverso ogni altro atto ad esso connesso, sia esso presupposto, conseguente, intermedio e/o applicativo.

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L’associazione Progetto Diritti Onlus, "è un luogo di iniziativa, di ricerca e di discussione – come recita lo statuto – intorno ai temi dei diritti degli individui e delle formazioni sociali". Tra i suoi obiettivi statutari figurano tra gli altri la tutela del diritto alla salute e alla istruzione, materie oggetto dell’eventuale trasferimento di funzioni statali alla Regione, nonché la tutela dei "diritti dei soggetti maggiormente colpiti da discriminazioni ed emarginazioni sul piano economico e sociale"

L’associazione "Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia" propone e sviluppa iniziative politiche, culturali e sociali, sul terreno dell’organizzazione istituzionale, dei diritti degli individui e della partecipazione democratica dei cittadini alle scelte di indirizzo politico e di governo concreto ai vari livelli, da quello locale a quello globale".

L’associazione Progetto Diritti Consumatori e Utenti o.n.l.u.s. – associazione federata a Progetto Diritti - ha tra i propri fini statutari quello della difesa degli utenti dei servizi sanitari e dei servizi scolastici, nonché la tutela degli interessi dei cittadini, sia a livello nazionale che locale, in ordine alla buona gestione della Pubblica Amministrazione secondo i principi di cui all’art. 97 Cost.

Le associazioni ricorrenti in relazione alle rispettive disposizioni statutarie relative alla promozione di iniziative attinenti alla tutela dei diritti individuali e collettivi e alla salvaguardia delle prerogative costituzionali di partecipazione dei cittadini alla vita democratica, secondo le procedure costituzionalmente previste. hanno dunque interesse a proporre il ricorso e sono legittimate ad impugnare la delibera del consiglio regionale lombardo: gli effetti della delibera infatti, e quelli del referendum consultivo, qualunque ne sia l’esito, ricadrebbero senza dubbio oltre che sull’organizzazione e sul quadro dell’assetto istituzionale relativo alle competenze statali e regionali, alla cui tutela sono legati l’interesse e le finalità istituzionali del CRED, sullo stesso esercizio da parte dei cittadini di diritti fondamentali e costituzionalmente garantiti come il diritto alla salute e all’istruzione, istituzionalmente tutelati dall’associazione Progetto Diritti Onlus e dall’associazione Progetto Diritti Consumatori e Utenti o.n.l.u.s.

Progetto Diritti o.n.l.u.s. costituisce altresì "un luogo di iniziativa e di ricerca" anche intorno ai diritti dei "soggetti maggiormente colpiti da emarginazioni sul piano economico e sociale", ovvero di una parte rilevante della popolazione, soprattutto delle regioni meridionali, storicamente svantaggiate sul piano economico e sociale e la cui condizione è evidentemente sensibile ad eventuali riforme costituzionali in senso federalista o che rafforzino o indeboliscano le prerogative delle regioni e conseguentemente alla modalità di realizzazione dell’eventuale riforma in senso federalista dello Stato.

Le ragioni che attribuiscono la legittimazione ad agire alle associazioni ricorrenti, costituiscono il fondamento dell’interesse a ricorrere anche del Sig. Franco Ragusa, titolare, quale cittadino della Repubblica residente nel Lazio, di un interesse qualificato al rispetto delle norme costituzionali, e quindi interessato ad impedire forzature nei meccanismi di riforma costituzionale in forza delle quali, con referendum consultivo votato esclusivamente nella regione Lombardia, si producano irrituali procedure di riforma che finiscano per incidere sulla vita istituzionale dello Stato e della regione in cui si risiede e dello Stato nel suo complesso.

Il Sig. Mauri elettore lombardo ha interesse a rimuovere l’atto impugnato con riferimento alla limitazione, per le ragioni che di seguito si sviluppano, della sua possibilità di esercitare liberamente e correttamente il proprio diritto di voto.

Il provvedimento impugnato, infatti, appare suscettibile d’intervenire su diritti individuali e collettivi dei cittadini oggi improntati al principio di solidarietà tra le differenti regioni in ordine all’erogazione dei servizi in una serie di ambiti, sia in particolare quelli alla partecipazione democratica da attuare nell’ambito delle procedure costituzionalmente previste, determinando la delibera impugnata, per quanto si dirà, un tentativo di alterare tali procedure o quantomeno di condizionarle in modo indebito.

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L’art. 65 dello Statuto della Regione Lombardia prevede che "il Consiglio regionale può deliberare l’indizione di referendum consultivi su provvedimenti interessanti popolazioni determinate, o su questioni di interesse regionale interessanti l’intero corpo elettorale regionale. […]".

La legge regionale della Lombardia n.34/83 disciplina, agli artt.25 e ss., i "referendum consultivi", stabilendo in particolare, all’art. 25, 1° comma, che "il Consiglio regionale, prima di procedere all’emanazione di provvedimenti di sua competenza, può deliberare l’indizione di referendum consultivi delle popolazioni interessate ai provvedimenti stessi".

Mediante il provvedimento che in tale sede si impugna il "Consiglio Regionale della Lombardia

-visto l’art. 123 della Costituzione;

-visto l’art. 65, primo comma, dello Statuto regionale;

-vista la legge regionale 28 aprile 1983, n.34 "Nuove norme sul referendum abrogativo della regione Lombardia" e successive modificazioni ed integrazioni;

-ritenuta l’opportunità, ormai indifferibile, nella prospettiva di un rafforzamento delle prerogative autonomistiche spettanti alla Regione e di riconduzione di materie di competenza dei ministeri ad un modello di amministrazione e gestione ispirato ad un effettivo federalismo che, in base al principio di sussidiarietà, valorizzi il ruolo e le autonomie di tutti i soggetti istituzionali locali, di procedere all’indizione di un referendum consultivo, a base territoriale regionale, volto a domandare alla popolazione lombarda se la regione Lombardia debba intraprendere o meno iniziative istituzionali necessarie alla promozione del trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione, anche professionale, nonché di polizia locale , alla Regione nel quadro dell’unità nazionale;

-atteso che l’espressione favorevole della popolazione regionale sul quesito è condizione ritenuta indispensabile per l’assunzione di un provvedimento specifico volto alla richiesta di devoluzione delle materie di cui sopra;

-sentita la relazione della II Commissione consiliare "Affari istituzionali"

-con votazione palese, per alzata mano;

delibera

-che le premesse fanno parte integrante e sostanziale del provvedimento;

-di indire referendum consultivo ai sensi dell’art.25 e seguenti della l.r. 34/83, rivolto alla popolazione iscritta nelle liste elettorali dei comuni della Regione Lombardia, per l’espressione del voto sul seguente quesito: "Volete voi che la Regione Lombardia intraprenda le iniziative istituzionali necessarie alla promozione del trasferimento delle funzioni statali in materia di sanità, istruzione, anche professionale, nonché di polizia locale, alla Regione?""

-che il Presidente della Giunta Regionale, provveda, con proprio decreto, all’indizione del referendum consultivo, stabilendo altresì la data e le modalità di svolgimento, come stabilito dalla l.r.34/83".

Nella relazione introduttiva della delibera appena riportata il Consiglio Regionale afferma che l’art.65 dello Statuto della Regione Lombardia "disciplina l’istituto del referendum consultivo". Esso è previsto su (1) provvedimenti interessanti popolazioni determinate, (2) questioni di interesse regionale interessanti l’intero corpo elettorale regionale e (3) progetti di legge concernenti l’istituzione di nuovi comuni ed i mutamenti nelle circoscrizioni o denominazioni comunali. Nella relazione viene specificato che "la fattispecie n.2 è quella relativa al provvedimento in questione: quindi referendum consultivo su questioni di interesse regionale, interessanti l’intero corpo elettorale regionale."

Il Consiglio ha inoltre espresso la propria opinione in ordine all’istituto del referendum consultivo, sostenendo che "la inutilizzazione o sottovalutazione del referendum a livello regionale si pone in palese contraddizione con la volontà dei costituenti regionali, ovvero con quella scaturente dal testo degli statuti, ove il referendum appare inserito all’interno di numerose altre forme di consultazione e di partecipazione popolare all’attività pubblica. Quindi lo strumento referendario di carattere regionale si diversifica dallo strumento di carattere nazionale."

MOTIVI DI RICORSO

Violazione degli articoli 70, 121, 123 e 138 della Costituzione

Una corretta ricostruzione dell’istituto del referendum consultivo regionale non può prescindere dall’analisi degli interventi in materia della Corte Costituzionale.

La Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi in tre occasioni sulla funzione e i limiti dei referendum consultivi regionali.

Si tratta della sentenza n.256 del 1989, con cui è stato annullato il decreto del Presidente della Giunta Regionale della Sardegna di indizione di tre referendum consultivi regionali contro il quale era stato sollevato conflitto di attribuzione dal Presidente del Consiglio, della sentenza n. 470 del 1992, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della delibera legislativa della regione Veneto recante "referendum consultivo in merito alla presentazione di proposta di legge statale per la modifica di disposizioni concernenti l’ordinamento delle regioni", nonché della sentenza n. 496 del 2000, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della legge della regione Veneto recante "referendum consultivo in merito alla presentazione di proposta di legge regionale per l’attribuzione alla regione Veneto di forme e condizioni particolari di autonomia".

Nella prima delle citate sentenze la Corte, specificando la portata normativa dell’art. 121, 2° comma, Cost., ha affermato che la potestà di iniziativa legislativa spettante alle Regioni incontra il limite degli "interessi di carattere unitario" ossia di quegli interessi che "riguardano, nella loro essenza unitaria, la collettività nazionale, come tali affidati alla cura dello Stato, che i mezzi a disposizione delle Regioni non possono intaccare".

Nella sentenza stessa sentenza, inoltre, la Corte ha individuato quale questione centrale la considerazione della rilevanza giuridica che deve essere attribuita al referendum consultivo in generale ed a quello consultivo regionale in particolare. La questione sarà successivamente ripresa e ulteriormente sviluppata con la sentenza n. 470/92.

Nella sentenza del 1989 è stata sottolineata la necessità di " evitare il rischio di influire negativamente sull’ordine costituzionale e politico dello Stato". A parere della Corte, infatti, "i referendum consultivi, anche se sul piano giuridico formale non sono vincolanti e non concorrono a formare la volontà degli organi che li hanno indetti, restano, però espressione di una partecipazione politica popolare che trova fondamento negli artt.2 e 3 Cost., manifestazione che ha una spiccata valenza politica ed ha rilievo sul piano della consonanza tra la comunità e l’organo pubblico nonché della connessa responsabilità politica, quale espressione di orientamenti e di valutazioni in ordine ad atti che l’organo predetto intende compiere. Il loro esito potrebbe condizionare gli atti da compiersi in futuro e le scelte discrezionali che spettano a determinati organi centrali".

Alla luce delle considerazioni sopra riportate è possibile sostenere che il referendum consultivo operi su due piani, uno definito dalla stessa Corte come "giuridico formale", l’altro qualificabile come "politico-istituzionale" (Giulio M. Salerno in Giurisprudenza Italiana 1990, parte I, pagg.1063 e segg..). La consultazione referendaria (o meglio l’esito della consultazione) non produce effetti sul piano giuridico formale; i referendum consultivi infatti "non sono vincolanti e non concorrono a formare la volontà degli organi che li hanno indetti". La scelta del corpo votante però, proprio in quanto espressione della partecipazione politica popolare prevista e garantita dalla Costituzione (artt.2 e 3), secondo la Corte, "ha una spiccata valenza politica ed ha rilievo [.....] quale espressione di orientamenti e di valutazioni in ordine ad atti che l’organo predetto intende compiere". Sul piano definibile come politico-istituzionale, pertanto, l’esito della consultazione referendaria regionale esplica la propria efficacia sia nell’ambito dell’ordinamento regionale, sia nell’ambito dell’ordinamento statale quando, come nel caso di specie, il referendum rappresenta il momento iniziale di un procedimento, che attesa la natura della questione trattata e il carattere degli interessi sottesi vedrà necessariamente la partecipazione degli organi centrali dello Stato.

La considerazione dell’efficacia fortemente condizionante che l’esito del referendum consultivo esercita in capo agli organi competenti ad emanare i provvedimenti finali in riferimento ai quali si chiede il parere del corpo elettorale è stata ribadita nella sentenza 470 del 1992.

In tale pronunzia la Corte, premesso che, ai sensi dell’art.121, secondo comma, Cost., il Consiglio regionale "può fare proposte di legge alle Camere" e che tali proposte - pur caratterizzandosi come atti propri della Regione - assumono natura strumentale rispetto all’attivazione di un procedimento che é e resta di competenza statale e che, ove giunga ad una conclusione positiva, é destinato a sfociare, attraverso l’approvazione della legge da parte del Parlamento, in una espressione di volontà statuale, ha specificato che "un referendum consultivo - per quanto sprovvisto di efficacia vincolante – non può non esercitare la sua influenza, di indirizzo e di orientamento, oltre che nei confronti del potere di iniziativa spettante al Consiglio Regionale, anche nei confronti delle successive fasi del procedimento di formazione della legge statale, fino a condizionare scelte discrezionali affidate alla esclusiva competenza di organi centrali dello Stato". La Corte, che ha in tal modo ribadito il limite posto ai referendum consultivi regionali, già sancito con la precedente sentenza e riferito alla esigenza di evitare "il rischio di influire negativamente sull’ordine costituzionale e politico dello Stato", ha peraltro ulteriormente specificato la portata dei limiti riferibili a referendum consultivi regionali relativi a possibili iniziative legislative, rilevando altresì che "il procedimento di formazione delle leggi dello Stato - quale risulta fissato negli artt.70 e ss. Costituzione - viene a caratterizzarsi per una tipicità che non consente di introdurre, nella fase della iniziativa affidata al Consiglio Regionale, elementi aggiuntivi non previsti dal testo costituzionali e suscettibili di "aggravare", mediante forme di consultazione popolare variabili da Regione a Regione, lo stesso procedimento. Tale considerazione, se vale in relazione al potere di iniziativa delle Regioni così come configurato in generale nell'art.121 Cost., vale a maggior ragione nei confronti di una iniziativa regionale destinata ad attivare un procedimento di revisione costituzionale ai sensi dell'art.138 Cost.: e questo anche in relazione al fatto che la disciplina costituzionale prevede già, al secondo comma dell’art.138, una partecipazione popolare al procedimento, ma nella forma del referendum confermativo, cui può essere chiamato, per il rilievo fondamentale degli interessi che entrano in gioco in sede di revisione costituzionale, solo il corpo elettorale nella sua unità".

In via generale, pertanto, è possibile affermare che l’esito del referendum consultivo regionale su proposta di legge statale rafforzando l’atto di iniziativa legislativa della regione finisce per condizionare sul piano cosiddetto "politico-istituzionale" la volontà degli organi centrali dello Stato a cui compete la decisione finale in ordine alla emanazione di leggi statali, con l’ulteriore conseguenza che l’espressione di una parte ristretta dei destinatari dell’eventuale atto normativo incida sulla volontà degli organi rappresentativi degli interessi dell’intera collettività nazionale. L’atto di iniziativa legislativa della Regione, rafforzato dalla precedente consultazione pertanto determina una alterazione del normale iter di formazione della legge, così come delineato dalla Costituzione (art.70). Si consideri che la Costituzione, nell’attribuire al Consiglio Regionale la potestà di iniziativa legislativa ex art.121 secondo comma, da un lato, non dispone in via generale la possibilità che la funzione regionale di iniziativa possa essere subordinata alla eventuale manifestazione di volontà della comunità regionale, dall’altro prevede espressamente negli articoli 132 e 133 secondo comma che l’iniziativa legislativa relativa a determinate materie possa essere esercitata dalle Regioni soltanto previa consultazione delle popolazioni interessate. Al di là delle eccezioni espressamente poste al principio generale fissato dall’art.121 (e dall’art.71 primo comma), pertanto, risulterebbe costituzionalmente illegittimo l’utilizzo da parte del Consiglio Regionale del parere della popolazione per rafforzare il proprio atto di iniziativa legislativa. Si tenga altresì presente che la Costituzione attribuisce espressamente la potestà di iniziativa legislativa anche al popolo (art.71 secondo comma) collocando tale soggetto su un piano di parità rispetto agli altri organi a cui attribuisce la potestà di fare proposte di legge; ne deriva che l’attribuzione ad esso di una funzione meramente consultiva in ordine alla iniziativa esercitata da altro titolare della stessa funzione finisce necessariamente per svilire la posizione costituzionalmente conferita al popolo.

Con la citata sentenza n. 470 del 1992 la Corte ha peraltro evidenziato come le osservazioni da essa svolte abbiamo ancora più rilevanza nell’ipotesi in cui l’iniziativa regionale preceda l’attivazione di un procedimento di revisione costituzionale. L’inevitabile influenza che un referendum consultivo, pur non vincolante, sarebbe destinato ad esercitare sul procedimento di revisione costituzionale appare, a maggior ragione, indebita data la previsione da parte dell’art.138 della Costituzione, di precise modalità di consultazione dell’elettorato che comportano fra l’altro la portata nazionale della medesima e la sua collocazione al termine del processo di revisione costituzionale.

Da ultimo l’illegittimità costituzionale dei provvedimenti regionali di indizione di referendum consultivi regionali in merito a proposte di revisione costituzionale è stata vieppiù ribadita dalla Corte Costituzionale con la recentissima sentenza n. 496 del 2000. L’illegittimità costituzionale di siffatti provvedimenti dipende, a parere della Corte, della posizione costituzionale che il popolo occupa in relazione alla revisione della Costituzione e cioè dalla risposta al quesito se il popolo può essere chiamato a pronunciarsi su provvedimenti intesi ad innovare all’ordinamento a livello costituzionale , sia pure nella forma partecipativa apparentemente più tenue e nella sua più limitata dimensione di corpo elettorale regionale, quale ricorre nei referendum consultivi. La Corte analizza il ruolo del referendum e la collocazione di tale istituto nel sistema costituzionale, sostenendo al riguardo che il referendum abrogativo di cui all’art. 75 Cost. " può avere ad oggetto leggi ed atti con valore di legge, ma non può incidere su fonti di grado costituzionale, poiché diversamente verrebbero compromessi il principio di rigidità e la tipicità del procedimento di revisione di cui all'art. 138."

L’istanza protettiva delle fonti superiori è così intensa, e così cogente è l’esigenza che l’abrogazione popolare di leggi non raggiunga mai quel livello che all’art. 2 della legge costituzionale del 11 marzo 1953 n. 1, ha istituito un apposito giudizio preventivo di ammissibilità delle richieste di referendum inteso "anche a controllare che il referendum stesso si attenga ad un livello subordinato alla costituzione ed alle fonti di rango costituzionale". La considerazione della collocazione del referendum abrogativo, pertanto "depone nel senso che nel nostro sistema le scelte fondamentali della comunità nazionale, che ineriscono al patto costituzionale, sono riservate alla rappresentanza politica, sulle cui determinazioni il popolo non può intervenire se non nelle forme tipiche previste dall'art. 138 della Costituzione." Se tali considerazioni valgono per il referendum abrogativo " che pure, diversamente dai referendum consultivi, interviene su un atto legislativo in vigore e dal contenuto interamente determinato, in ordine al quale è più agevole per l'elettore maturare un consapevole convincimento che non trasmodi in manifestazione plebiscitaria" esse rafforzano l’ipotesi per cui "nel nostro sistema le scelte fondamentali della comunità nazionale, che ineriscono al patto costituzionale, sono riservate alla rappresentanza politica, sulle cui determinazioni il popolo non può intervenire se non nelle forme tipiche previste dall'art. 138 della Costituzione". La Corte pertanto esclude che il popolo in sede referendaria possa assumere il ruolo di "propulsore della innovazione costituzionale"; esso può intervenire rispetto alla volontà di revisione costituzionale espressa dalla rappresentanza politico-parlamentare ma il suo intervento "non è a schema libero, poiché l'espressione della sua volontà deve avvenire secondo forme tipiche e all'interno di un procedimento, che, grazie ai tempi, alle modalità e alle fasi in cui è articolato, carica la scelta politica del massimo di razionalità di cui, per parte sua, è capace, e tende a ridurre il rischio che tale scelta sia legata a situazioni contingenti".

Tali ordini di considerazioni appaiono perfettamente applicabili al referendum promosso con il provvedimento impugnato.

Infatti, l’indizione di un referendum consultivo regionale sulla proposta regionale di promozione delle "iniziative istituzionali" volte alla ridefinizione delle competenze rispettive dello Stato e della Regione in una serie di campi verrebbe necessariamente ad incidere su materia costituzionalmente disciplinata, con gli effetti ritenuti del tutto indesiderabili dalla Corte con le motivazioni ampiamente condivisibili che si è ritenuto opportuno riportare in forma integrale.

Esso quindi, si configurerebbe come lo stadio iniziale di un procedimento, del tutto atipico, di revisione costituzionale, caratterizzato dall’intervento del corpo elettorale regionale che avviene con il fine deliberato di conferire alla proposta una maggiore forza politica, ma che snatura fortemente il procedimento di revisione costituzionale previsto dall’art.138 Cost.

Occorre peraltro ritenere che tale difetto sia ulteriormente rafforzato dal carattere vago e indeterminato del quesito proposto, carattere che, mirando evidentemente a potenziare l’elemento politico insito nell’operazione, non vale per ciò stesso a sottrarla alle censure giuridiche operabili secondo la logica delle riportate affermazioni della Corte, ma al contrario ne evidenzia vieppiù la pertinenza.

Occorre aggiungere che la scelta di indire il referendum con provvedimento amministrativo, anziché con legge, determina il rischio dell’elusione dei precetti costituzionali, data l’impossibilità di attuare il controllo preventivo di costituzionalità delle leggi regionali previsto dall’art.127 della Costituzione. La sicura conoscenza, da parte del Consiglio regionale, delle citate sentenze del 1989 e del 1992 avrebbe dovuto imporre la scelta dell’atto legislativo per l’indizione del referendum consultivo in questione, e ciò proprio per percorrere le vie istituzionali più logiche ai fini della verifica della correttezza dell’azione della Pubblica Amministrazione. La scelta dell’atto amministrativo, invero, proprio perché esente dai controlli preventivi previsti dall’art. 127 Cost. (è di questi giorni il rinvio al Consiglio regionale veneto, da parte del Governo, di un provvedimento di legge regionale produttivo di analoghi effetti), palesa la chiara volontà della maggioranza del Consiglio regionale di aggirare le norme costituzionali immediatamente in grado di risolvere l’eventuale questione d’illegittimità costituzionale.

 

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Violazione delle disposizioni di natura costituzionale e delle normative poste per legge e per legge della Regione Lombardia in tema di referendum e di formulazione del quesito.

Violazione degli articoli 3, 25 e 26 della legge regionale della Lombardia n.34/83.

Violazione dell’art.76 bis del regolamento del Senato della Repubblica.

Eccesso di potere per illogicità.

La sentenza della Corte costituzionale n. 29 del 4 febbraio 1993 ha chiarito come "a partire dalla sent.16/1978 questa Corte ha costantemente affermato che essa – nella sede del giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo ai sensi dell’art.21. c. 11 marzo 1953, n. 1 e degli artt.32, 2° co. e 33 l. 15 maggio 1970, n. 352 – è chiamata a verificare se le richieste referendarie, oltre a non rientrare fra le materie non sottoponibili a referendum a norma dell’art.75, 2° co., Cost. ("leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali") contengano domande omogenee ed univoche".

Con riferimento alla proposta di referendum nazionale allora formulata da una serie di Consigli regionali in ordine all’art. 4 del D.P.R. 616/77, motivata con lo scopo di "circoscrivere le funzioni dello Stato alle sole competenze strettamente necessarie al mantenimento della compagine nazionale e alle politiche di coordinamento solidaristico", la Corte ebbe ad osservare che "il quesito referendario presenta un significato non chiaro e non univoco, tale da non consentire all’elettore di approvare o di respingere con la dovuta consapevolezza la proposta di abrogazione, dal momento che i promotori hanno ricompreso nella loro richiesta disposizioni dal contenuto eterogeneo, comunque prive di una matrice razionalmente unitaria".

Anche nella sentenza n. 34 del 4 febbraio 1993, che dichiarava inammissibile la proposta di referendum nazionale volto all’abolizione del Ministero della Sanità presentata da alcune Regioni, la Corte osservò che tale proposta esprimeva "un quesito referendario privo di quella evidenza ed univocità del momento teleologico, cioè del suo fine intrinseco, di cui invece deve essere dotato, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentt. 29/1987 e 47/1991), affinché il corpo elettorale sia garantito nell’esercizio del suo potere (sent. 29/1987); un quesito quindi carente della chiarezza necessaria per assicurare l’espressione di un voto consapevole (sentt. 28/1987 e 29/1987)".

Analoghe considerazioni conteneva poi la sentenza n. 36 del 4 febbraio 1993.

La necessità di formulare il quesito in modo chiaro è stata ribadita da ultimo in alcune delle sentenze – in particolare la n.38 e la n.39 - della Corte costituzionale, adottate il 7 febbraio del 2000, che hanno avuto ad oggetto l’ammissibilità di varie proposte di referendum abrogativo, e deve considerarsi pertanto espressione di un principio ben consolidato nella giurisprudenza costituzionale.

Bisogna peraltro ritenere che i principi enucleati dalla giurisprudenza costituzionale con riferimento ai referendum nazionali possano essere applicati anche ai referendum regionali di natura consultiva come quello oggetto del provvedimento impugnato. Tale giurisprudenza è infatti volta a garantire un bene giuridico di carattere generale, costituito dalla salvaguardia del principio della partecipazione popolare che, per essere correttamente attuato, necessità una preventiva chiara ed univoca definizione dell’oggetto della consultazione.

Va rilevato, al riguardo, come nella già citata sentenza 470/92, nel rigettare l’obiezione del Governo che ipotizzava l’esistenza di limiti di contenuto alla legge impugnata, la Corte, negando che argomenti decisivi a favore della tesi restrittiva potessero essere desunti dal carattere di "determinatezza" che la norma statutaria ha inteso riferire ai provvedimenti da sottoporre alla consultazione referendaria, con riferimento al carattere meramente "territoriale" degli interessi ha affermato che il richiamo al carattere della determinatezza nella dizione statutaria, "si presenta orientato a esprimere, più che a una limitazione di ordine territoriale, l’esigenza che il quesito referendario, proprio ai fini della sua chiarezza e percepibilità, sia tale da investire oggetti definiti e agevolmente identificabili da parte dell’elettore".

Analoghi caratteri, in quanto ricollegabili a un’esigenza di carattere generale, vanno ritenuti necessari, pur nella differenza delle formulazioni statutarie applicabili, ai referendum consultivi promossi dalla Regione Lombardia, dato fra l’altro il puntuale richiamo a tali requisiti nella legislazione regionale attuativa dell’istituto referendario.

La necessità della chiarezza del contenuto del provvedimento sottoposto a referendum consultivo risulta infatti chiaramente desumibile dal complesso dalla legislazione regionale applicabile. Ai sensi dell’art. 25 l.r. 34/83 "il consiglio regionale prima di procedere all’emanazione di provvedimenti di sua competenza , può deliberare l’indizione di referendum consultivi delle popolazioni interessate ai provvedimenti stessi. La deliberazione del consiglio regionale che determina l’effettuazione del referendum consultivo deve indicare il quesito da rivolgere agli elettori..." Ai sensi dell’art. 26, 3° comma, nelle schede per i referendum consultivi "sono formulati i quesiti da sottoporre alla consultazione popolare ed è riportato integralmente il testo del provvedimento o della proposta di legge sottoposta a referendum". E’ implicito in tali formulazioni legislative che il quesito referendario debba essere formulato in modo chiaro e preciso e tale da consentire l’identificazione di provvedimenti specifici.

La volontà del legislatore di garantire "l’espressione consapevole" del corpo elettorale emerge d’altronde in modo del tutto esplicito dalla lettura dell’artt. 3, lettera c), della legge regionale.

Tale disposizione prevede, con riferimento a proposte di referendum di iniziativa popolare, che l’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale verifichi, ai fini dell’ammissibilità della proposta stessa, "che il quesito sia formulato in modo chiaro ed univoco, al fine di garantire la consapevole scelta degli elettori". I requisiti di chiarezza e univocità, pertanto, devono necessariamente caratterizzare il testo del quesito referendario pena la pronuncia di inammissibilità da parte del Presidente del Consiglio regionale. Pare evidente che agli stessi criteri debba ispirarsi, nella formulazione del testo, il Consiglio Regionale, quando il referendum derivi dalla sua iniziativa.

Venendo al provvedimento impugnato, occorre ritenere l’assenza dei considerati requisiti di chiarezza e univocità. Esso consiste nella mera evocazione di "iniziative istituzionali necessarie alla promozione del trasferimento di funzioni statali" in una serie di campi (sanità, istruzione, anche professionale, polizia locale).

L’eterogeneità delle materie inserite nel quesito innanzitutto impedisce che l’elettore possa esprimere il suo parere ad esempio nel caso in cui egli sia favorevole al trasferimento delle funzioni dallo Stato alle Regioni in materia di sanità e non invece di istruzione o di polizia locale.

E’ noto come la ripartizione delle competenze, di ordine legislativo e amministrativo, fra Stato e Regioni sia materia complessa e oltremodo ampia, che è oggetto di disciplina di varie disposizioni costituzionali e di una ormai più che cinquantennale (trentennale per le Regioni a statuto ordinario) evoluzione avvenuta sul piano normativo e giurisprudenziale. Le materie contemplate dal provvedimento impugnato, che sono tutte ricomprese nell’elenco di cui all’art.117 della Costituzione, sono peraltro già da tempo oggetto di competenza concorrente fra Stato e Regioni, che esercitano in tali materie una funzione di crescente importanza.

Enigmatico appare pertanto l’effettivo contenuto delle iniziative istituzionali caldeggiate e sottoposte a referendum. Vero è che, più che a un concreto provvedimento identificabile in quanto tale nei suoi presupposti, oggetto, contenuto, destinatari ed effetti, ci si trova di fronte a una vaga espressione di volontà politica, che si vorrebbe sottoporre ad approvazione plebiscitaria per aumentarne l’impatto politico sugli organi costituzionali. Tale elemento rafforza peraltro la censura di indebita influenza sul procedimento complessivo di revisione costituzionale già espresso dalla Corte con sentenza 470 del 1992 ed evidenziata in precedenza.

Il testo del quesito formulato dal Consiglio della Regione Lombardia non appare quindi presentare i requisiti richiesti dalle norme sopra citate. Esso infatti non definisce né in alcun modo indica quali provvedimenti, definiti e determinati negli effetti, potrebbero essere adottati in conseguenza dell’esito positivo del referendum. La mancata indicazione, nel quesito, del testo del progetto di legge o dell’indicazione del medesimo, rende di fatto vuoto di contenuto il presunto provvedimento che si intende sottoporre agli elettori. Ci si trova, pertanto, di fronte ad una ipotesi di referendum consultivo il cui quesito, oltre ad investire materie di interesse generale, risulta del tutto vago ed impreciso quanto alla definizione della successiva azione concreta imputabile all’Ente promotore della consultazione.

Deve osservarsi, su di un piano più generale, come tali forme referendarie, che hanno ad oggetto quesiti formulati in modo eccessivamente generico, non rispondano all’obiettivo della valorizzazione della sovranità popolare, ma al contrario ne comportino un immiserimento.

Si tenga presente l’ulteriore aspetto di indeterminatezza in relazione all’art.76-bis del regolamento del Senato, in cui si afferma che "Non possono essere assegnati alle competenti Commissioni permanenti i disegni di legge …di iniziativa regionale…che comportino nuove o maggiori spese ovvero diminuzioni di entrate e non siano corredati dalla relazione tecnica, conforme alle prescrizioni di legge, sulla quantificazione degli oneri recati da ciascuna disposizione e delle relative coperture". Nel caso di specie il pronunciamento popolare avverrebbe senza la minima cognizione degli effetti e dei costi delle "iniziative istituzionali", atteso che nessuna relazione tecnica è stata affiancata alla delibera in oggetto.

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Con riferimento alle questioni inerenti al carattere di indeterminatezza del quesito referendario deve inoltre essere considerato, sempre sviluppando le considerazioni della Corte Costituzionale, che la consultazione referendaria in ordine ad una qualsiasi iniziativa da intraprendere deve caratterizzarsi quale atto che determini necessariamente l’attivazione della "responsabilità politica" dell’organo competente. Ai fini dell’attivazione di tale responsabilità è indispensabile che nel quesito sia fissato il collegamento tra esito referendario e azione concreta attraverso l’indicazione del provvedimento specifico che si intenda emanare. A prescindere dalle considerazioni relative alla esigenza di garantire "l’espressione consapevole" del corpo elettorale, la mancanza o l’indeterminatezza nel quesito circa le modalità specifiche mediante le quali l’organo rappresentativo intenda concretizzare la deliberazione referendaria comporta l’assoluta irresponsabilità politica dell’apparato richiedente il parere popolare. In dottrina si afferma al riguardo che "i referendum consultivi se caratterizzati come referendum ad iniziativa dall’alto, ad opera di soggetti politici, hanno un senso e sono democraticamente ammissibili solo se possono attivare i meccanismi della responsabilità politica" (Caravita in "Il referendum sui poteri del Parlamento Europeo"). L’inesistenza del nesso tra esito referendario ed iniziativa concreta incide, svilendola, sulla sovranità popolare atteso il venire meno della possibilità di verificare il comportamento del soggetto rappresentativo della volontà popolare.

Eccesso di potere per carenza di motivazione, irragionevolezza, sviamento e ingiustizia manifesta.

L’agire discrezionale della Pubblica Amministrazione non si è svolto nel senso di garantire l’effettivo interesse pubblico prefissato dalle precise disposizioni di legge che disciplinano la materia. L’indagine per accertare la sussistenza del vizio dell’eccesso di potere deve essere svolta a verificare se si sia concretata una violazione dei principi preposti all’agire discrezionale, in quanto l’accertamento di tale circostanza implica di per sé l’esistenza dell’eccesso di potere. Il provvedimento impugnato, infatti, si inserisce forzatamente in un procedimento che sfocia in una proposta di legge deliberata dal Consiglio regionale, senza alcun bisogno del pronunciamento popolare, non ricorrendo alcuna motivazione valida per giustificare il ricorso alla consultazione referendaria. Questa, nel caso di specie, proprio perché attivata forzatamente senza valide e ragionevoli argomentazioni, determinerà un aggravio dell’iter procedimentale, oltre che dei costi inspiegabile, oltre che su un piano giuridico anche un piano razionale. Il provvedimento impugnato, ferma restando la mancanza dei requisiti di univocità, omogeneità e chiarezza del quesito, determina una ingiusta situazione di disparità di trattamento tra i residenti in Lombardia ed i residenti nel resto dell’Italia, in quanto chiama a pronunciarsi, per rafforzare l’illegittima proposta, soltanto una parte delle popolazioni interessate ai contenuti del provvedimento stesso.

L’eccesso di potere è poi rinvenibile anche sotto il profilo dello sviamento, nel tentativo di far pronunciare inconsapevolmente il corpo elettorale regionale, sulla base di un quesito talmente generico da trasformare una espressione di voto, necessariamente responsabile, in un plebiscito volto ad essere utilizzato per ingerire arbitrariamente nel processo formativo della legge dello Stato, ordinaria o costituzionale, configurandosi anche una grave violazione di legge, che proprio la copertura della consultazione referendaria può rendere meno agevole una valutazione a norma dell’art.126 della Costituzione.

CONCLUSIONI

Piaccia al Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, in accoglimento del presente ricorso e con ogni pronunzia connessa, annullare l’atto impugnato indicato in epigrafe ed ogni altro allo stesso in qualsiasi in modo connesso.

Con vittoria di spese, onorari e diritti e con attribuzione ex art.93 c.p.c.

Milano, 27 novembre 2000



 
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