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Riforme.net  -  9 gennaio 2008
 
Tra il Referendum elettorale e la Veltroneide ... meglio il Referendum

Franco Ragusa

Di fronte alle continue sortite dell'entourage veltroniano circa la legge elettorale e le riforme istituzionali, viene immediatamente alla mente un noto spot pubblicitario: Walter Veltroni un giorno sì ... e un giorno sì.
Diversamente dallo spot pubblicitario, però,  il "Veltroni quotidiano" sta avendo l'effetto di lasciare con il palato amaro. Non a tutti, è vero. Ma anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un'anomalia, se così possiamo definire la circostanza che vede tutti gli alleati di governo contrariati e il maggior partito di opposizione (che "un giorno sì ... e un giorno sì" le prova tutte per far cadere il Governo Prodi) favorevolmente disposto di fronte alle "diverse" soluzioni elettorali provenienti da Veltroni.
Una sorta di giro dell'oca che ad oggi ha procurato solo divisioni all'interno del centrosinistra e che, a seconda della casella occupata, qualche volta ha accontentato Fini, quasi sempre  Berlusconi.
Un giorno il Vassallum, il giorno dopo può andar bene anche la Bozza Bianco, il giorno dopo ancora, invece, diritti verso il doppio turno francese e, per l'elezione diretta del capo del governo, vediamo come butta; per poi ricominciare dall'inizio con la minaccia del referendum elettorale.
Una vera e propria veltroneide rispetto alla quale è bene prepararsi ad altri colpi di scena.
Il più imprevedibile di questi, paradossalmente, sarebbe lo scoprire che il primo a temere il referendum potrebbe essere proprio Veltroni.
"Life is now", per rimanere in tema di citazioni pubblicitarie, e Veltroni sa bene di essere ora il Leader di quello che dovrebbe essere il primo o secondo partito italiano: e se dopo essersi consumati nell'attesa della fine naturale, o prematura, del Governo Prodi, alle prossime elezioni il Partito Democratico non dovesse conquistare il governo del paese, la via per il dimenticatoio sarebbe la fine più onorevole che potrebbe capitargli.
Ma perché mai Veltroni dovrebbe temere di perdere le elezioni con la legge elettorale che risulterebbe "approvata" (virgolette d'obbligo per i cultori della materia) dal referendum?
Ma il problema non è questo. O meglio, è questo nella misura in cui, per non far vincere le elezioni al centro destra, si riproporrà la questione delle alleanze.
Non sta infatti scritto da nessuna parte che, una volta cancellati dalla legge elettorale i riferimenti alle coalizioni, Berlusconi andrà alle prossime elezioni senza trovare forme di accordo con gli attuali ex-soci della casa della libertà.
Rimanendo in piedi la logica del premio di maggioranza, ciò che conta è arrivare primi, e tra le intenzioni dei referendari e i timori degli aspiranti vincitori c'è di mezzo la politica.
Per cui, se Berlusconi si accorda, Veltroni che fa?
Ma prima di proseguire è il caso di riapprofondire gli effetti del referendum.

L'attuale legge elettorale per la Camera dei Deputati prevede un premio di maggioranza variabile per la lista o la coalizione che ottiene più voti. Un premio che potrebbe assumere proporzioni assurde, in quanto vincere al 49%, al 40% o al 30% non farebbe differenza. In tutti questi casi verrebbero comunque assegnati 340 seggi.
Il sistema di voto prevede quindi la possibilità, per l'elettore, di votare o per una singola lista, o per una coalizione attraverso il voto dato ad una delle liste collegate.
Per le liste collegate alle coalizioni ammesse al riparto dei seggi (nell'insieme la coalizione deve ottenere il 10%) vige lo sbarramento del 2%, con il recupero del miglior risultato al di sotto del 2%. Per le liste non collegate lo sbarramento è al 4%.
Il risultato del referendum lo si ottiene facilmente cancellando, da questa breve sintesi dell'attuale legge elettorale, ogni riferimento alle coalizioni.
Continua a persistere il premio di maggioranza, nelle stesse identiche proporzioni, da assegnare però ad una singola lista. Altresì, venute meno le coalizioni, potranno partecipare alla distribuzione dei seggi le sole liste che supereranno lo sbarramento del 4%.

Ovviamente, come per tutte le leggi, ci può scappare l'inganno, in tutte le direzioni.
Di fatto, gli unici a rimetterci saranno gli elettori.
Premesso che l'attuale legge elettorale è un maggioritario di lista o di coalizione, agli elettori è oggi data la possibilità di disegnare la composizione parlamentare delle coalizioni attraverso il voto ad una lista collegata piuttosto che un'altra. Sono state cioè le scelte degli elettori a determinare il numero dei deputati da assegnare ad ogni singola forza politica che oggi sostiene il Governo Prodi. Con l'attuale legge non sono possibili accordi a tavolino per imporre agli elettori dei numeri piuttosto che altri nell'ambito della distribuzione dei seggi all'interno della coalizione.

Diversamente, abolendo i riferimenti alle coalizioni e avendo così a disposizione un solo simbolo, l'eventuale accordo fra i diversi partiti per marciare uniti comporterà, necessariamente, un ulteriore accordo per la collocazione dei candidati nelle lista elettorale.
Trattandosi infatti di liste bloccate, l'elettore vota solo e soltanto l'unico simbolo a disposizione e i candidati vengono eletti in ordine di successione. I primi della lista avranno praticamente il posto assicurato, da una certa posizione in poi no. In altre parole, gli elettori non avranno più alcuna possibilità d'intervento per modificare gli equilibri predeterminati tra i partiti.

Ma vediamo ora la cosa dalla parte delle singole forze politiche.
Per le minori, ovviamente, non trovare l'accordo con altre forze politiche potrebbe comportare il rischio del non superamento della soglia di sbarramento del 4%. E il rischio di non ottenere seggi verrebbe certamente usato dalle forze maggiori per imporre condizioni pesanti per l'eventuale accordo (qualche posto sicuro qua e là, per il resto in coda).
In tal senso, non correndo rischi di estinzione, per le forze intermedie rimarrebbe invece la possibilità di salvaguardare la propria identità rifiutando forme di accordo insoddisfacenti.

Tutt'altre aspirazioni per le forze maggiori. Secondo l'idea dei referendari, infatti, il sistema dovrebbe stimolare il passaggio dal bipolarismo al bipartitismo: uno scontro alla pari tra i partiti maggiori e chi arriva primo si  accaparra (ed è un eufemismo, considerato che in una simile ipotesi si tratterebbe di un premio di maggioranza nell'ordine delle 2 cifre percentuali) il governo del paese.

Ma come sopra accennato, tra le aspirazioni dei referendari (consegnare il paese ad una forza politica che ad oggi, "Berlusconi" o PD che sia, sì e no può raggiungere il 30-35% dei voti validi) e i timori degli aspiranti vincitori, c'è di mezzo la politica.
E' sufficiente infatti che una delle forze maggiori decida e trovi l'accordo con una forza minore o addirittura intermedia per reinnescare lo spettacolo avvilente della rincorsa agli accordi elettorali (ovviamente infiocchettati con espressioni del tipo "accordo di programma") e il "mercato delle vacche" per l'assegnazione dei posti migliori nelle liste elettorali.
Quale che sarà l'esito di questo teatrino, di sicuro addio sogni di onnipotenza per chi, come Veltroni, sta lavorando per arrivare a governare senza l'intralcio costituito da quel 10-15% di elettorato che non vota a destra ma che neanche si riconosce nel PD.

Per questo motivo, sarebbe quanto mai curioso che, per evitare i rischi di un referendum che potrebbe risultare fortemente negativo proprio per chi sostiene che ne trarrebbe il massimo del risultato, si finisse per consegnare il massimo del risultato cedendo su una delle varie bozze, oggi Vassallum, domani Bianco e dopodomani doppio turno alla francese.

Si tratta, certamente, di una scelta difficile, ma le attuali alternative al referendum non lasciano scelta: si vada al referendum con il massimo della determinazione per impedirne la vittoria.
In ogni caso, meglio il caos del dopo referendum che la resa su una delle proposte di legge elettorale sino ad ora avanzate.


 

 
 
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