L'attualità e gli interventi di "Riforme istituzionali"
http://www.mclink.it/assoc/malcolm/riforme/interventi/indice.htm


N° 163 - 10/01/99
Rassegna stampa - Legge elettorale: interventi di Sartori, Panebianco, Sen. Passigli; Chiarante.


Dal Corriere della Sera del 06/01/99

Come votare? Dibattito aperto sulle riforme

IL PEGGIOR SISTEMA POLITICO D'EUROPA

Di GIOVANNI SARTORI

A che punto siamo? In economia siamo a buon punto. Con il 1999 esordisce l'euro, la moneta comune europea; e grazie a Ciampi e Prodi noi siamo dentro. Evviva. In politica, invece, non siamo a nulla. Il 1999 promette soltanto di perpetuare il marasma che dura da due legislature. Angelo Panebianco ha quindi l'intuizione giusta quando ci invita in apertura d'anno - nel suo fondo del 3 gennaio - a ripartire dalle premesse, e cioè a inquadrare il problema. Secondo il mio stimato amico e collega il problema è che il referendum elettorale del 1993 pone e impone una "concezione maggioritaria della democrazia" che però resta incompiuta perché ostacolata dal retaggio della "democrazia proporzionalistica". Accolgo l'appello di Panebianco. Ma non accolgo le sue premesse.

La distinzione tra democrazia maggioritaria e democrazia proporzionalistica esiste da una cinquantina d'anni. Ma nella versione che oggi prevale nella letteratura internazionale (quella di Arend Lijphart) la democrazia migliore è quella proporzionalistica, mentre nella sua versione italiana (di Panebianco e altri) la democrazia migliore è quella maggioritaria. Il che non dimostra che il maggioritarismo elogiato da Panebianco sia sbagliato, ma dimostra che è opinabile.

In sintesi, dato un sistema elettorale maggioritario Panebianco ne ricava le conseguenze che enumero appresso: 1) che tra elettori e eletti si instaura un vincolo di mandato, 2) vincolo che impone un divieto di ribaltone, e quindi 3) nuove elezioni per ogni crisi di governo. Dal che si ricava, riassuntivamente, 4) che il sistema elettorale maggioritario assicura, di regola, governi forti e stabili. Dissento su tutto. Come passo a spiegare.

1) Esiste un mandato elettorale? Tanto per cominciare la nostra Costituzione lo vieta (articolo 67: "Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato"). Pertanto i nostri maggioritaristi costruiscono il loro edificio interpretativo in violazione di un preciso e fondamentalissimo disposto costituzionale. Il loro primo passo dovrebbe dunque essere di chiederne l'abrogazione. Invece fanno finta di niente. Forse perché coloro che sanno - gli studiosi - sanno benissimo che per la teoria della rappresentanza la loro tesi è inaccoglibile.

2) Dove sta scritto che i cosiddetti ribaltoni sono da vietare? Nella dottrina dei sistemi parlamentari sicuramente no. Il caso esemplare è a questo effetto il caso inglese, visto che l'Inghilterra vota con un sistema integralmente maggioritario. Eppure a Westminster il reato di ribaltone è ignoto. Se un governo cade, il primo dovere del sovrano è di accertare se in Parlamento esistano maggioranze di ricambio. Il problema si pone di rado perché l'Inghilterra è bipartitica e ogni elezione produce quasi sempre un vincitore assoluto che governa da solo. Ma nel 1976 il premier laburista Wilson si dimise e fu sostituito da Callaghan senza che nessuno denunciasse un tradimento di mandato. Idem come sopra quando la Thatcher venne sostituita in corso di mandato da Major. Ancora: nel 1977 il governo Callaghan perse la maggioranza e rimediò - governando ancora per due anni - alleandosi con i liberali. Cosa impediva a Prodi di fare lo stesso, esattamente lo stesso, nell'ottobre scorso? Rispondo: l'autoinganno. Prodi è una vittima dei suoi paraocchi, dell'aver creduto in una dottrina praticata al mondo soltanto da lui. Si capisce che un governo può essere fatto cadere per ragioni vergognose. Non ne consegue che sia di per sé vergognoso far cadere un governo. Molti cosiddetti ribaltoni possono essere utili e necessari. Vietarli in linea di principio snatura e inceppa (senza merito) il funzionamento del sistema parlamentare.

3) Nuove elezioni a ogni ribaltone? Questa è una terapia che può anche aggravare il male. Perché il "voto continuo" stanca l'elettore, e per di più lo irrita quando si accorge che rivotare non serve a nulla (visto che spesso lascia le distribuzioni di voto come erano). Panebianco considera l'obbligatorietà del rivotare un deterrente, e si chiede se questo obbligo non avrebbe bloccato lo strappo di Bossi a Berlusconi nel '94, e lo strappo di Bertinotti a Prodi nel '98. Secondo me, no: Bossi e Bertinotti avrebbero "strappato" lo stesso. Perché la regola è che chi si aspetta di guadagnare da una nuova elezione (e questa era, per esempio, l'aspettativa di Rifondazione) è disposto a accettarne la fatica.

4) Elezioni maggioritarie producono governi forti e durevoli?
Dall'esperienza italiana si evince che la risposta è no, proprio no. Chi rifiuta di capirlo si aggrappa al pretesto che l'insuccesso italiano è dovuto al 25 per cento di quota proporzionale che rende impuro, con il Mattarellum, il nostro maggioritarismo. Ma questa risposta è sicuramente sbagliata. Io appoggio il referendum perché obbliga i partiti a cambiare legge elettorale. Ma non mi illudo (come sono sicuro che nemmeno Panebianco si illude) che la nostra proliferazione di partitini sarà curata da un sistema interamente maggioritario a un turno. E qui vengo al punto. Il Pannellismo ci ha indotti a credere che esista un contrasto manicheo e pressoché metafisico tra sistemi elettorali puramente maggioritari e sistemi puramente proporzionali. Non è così. In Italia il maggioritarismo alla Pannella ci lascerebbe con circa 10 partiti, mentre il proporzionalismo spagnolo o tedesco (sì, anche la Germania produce un parlamento perfettamente proporzionale) ha generato un bipolarismo funzionante che è molto vicino al bipartitismo. In concreto il problema non è dunque di scegliere tra due massimi sistemi ma di stabilire, invece, quale maggioritario, o altrimenti quale proporzionale, sia in grado di risolvere il caso italiano, il caso da risolvere.

Sia chiaro: io attribuisco al sistema elettorale una importanza non minore di Panebianco. Ma per me il sistema elettorale è importante perché fornisce al sistema politico le gambe con le quali andrà a camminare, mentre per Panebianco il sistema elettorale è importante perché permea tutto il sistema politico e così trasforma il sistema parlamentare che abbiamo in un sistema che non lo è più (e che non sappiamo, nella sistematica dei sistemi politici, che tipo di animale sia).

Anno nuovo, idee nuove? Certo è che l'anno nuovo ci dovrebbe indurre a discutere e rivedere le idee che hanno creato il peggior sistema politico dell'Europa occidentale.


Dal Corriere della Sera del 07/01/99

Vietare con una legge i ribaltoni è inutile, creiamo invece le consuetudini per impedirli

Angelo Panebianco replica alle argomentazioni di Giovanni Sartori contenute nel fondo pubblicato ieri sul "Corriere". Sartori aveva preso spunto da alcune osservazioni di Panebianco relative al referendum elettorale del 1993, comparse nell'editoriale del 3 gennaio. Panebianco invocava il dispiegarsi di una concezione maggioritaria della democrazia, che però resta incompiuta perché ostacolata dal retaggio della democrazia proporzionalistica. Ieri Sartori gli ha replicato sostenendo che l'Italia ha scelto il peggior sistema politico d'Europa. Oggi risponde di nuovo Panebianco.

Di ANGELO PANEBIANCO

Effettivamente Sartori tocca nel suo fondo di ieri il punto, forse l'unico, in mezzo a tanti argomenti che ci trovano concordi, su cui c'è un effettivo dissenso fra noi. È verissimo: io apprezzo quella democrazia maggioritaria che né l'inventore della formula nella versione più nota (il politologo olandese Lijphart) né Sartori apprezzano. La ragione per cui l'apprezzo, e la vorrei vedere trapiantata in Italia, è che essa si pone in contrasto con la storia (centenaria) del parlamentarismo italiano. Per quanto riguarda i problemi specifici sollevati da Sartori, nego che l'articolo 67 della Costituzione, l'articolo che vieta il vincolo di mandato, sia di impedimento all'instaurazione della democrazia maggioritaria. In realtà, quell'articolo non vieta proprio niente: non ha per esempio mai vietato che i parlamentari, anziché rappresentare liberamente "la nazione", fossero rigidamente sottomessi alla volontà delle segreterie di partito. Il problema non è dunque di norme ma di comportamenti. Idem per quanto riguarda i ribaltoni. Non si tratta di vietarli per legge. Si tratta di costruire consuetudini che servano da deterrente contro il ricatto dei piccoli partiti. Tutto qui. Vero che in Gran Bretagna nel 1976, del tutto eccezionalmente, ci fu un cambio di maggioranza e di premier (mentre non cambiò la maggioranza al momento della staffetta Thatcher-Major). C'è però una bella differenza fra un sistema nel quale i ribaltoni sono l'eccezione e un sistema (l'Italia) nel quale vale l'inverso, nel quale i ribaltoni sono la regola.

Perché i ribaltoni non creano inconvenienti se vige la proporzionale e ne creano se vige il maggioritario? Per la seguente ragione: nel primo caso l'elettore non vota per il candidato di una coalizione, vota per un partito (le coalizioni si formano dopo, in Parlamento) e dunque, in caso di cambiamenti di maggioranza nel corso della legislatura, non c'è nessun tradimento della volontà dell'elettore. Possiamo anzi dire, a rigore, che non c'è, in senso proprio, alcun ribaltone. Nel secondo caso l'elettore vota il candidato di una coalizione e se la coalizione si spezza in corso d'opera (in Parlamento) il tradimento della volontà dell'elettore c'è, eccome. Il nostro elettore ha votato per un candidato inserito, poniamo, in una coalizione di sinistra, e lo ha votato proprio per questo, e se lo ritrova ad appoggiare un governo di destra (o viceversa). Osservo che ciò è vero anche nel caso in cui sia in vigore il doppio turno di collegio. Col doppio turno è infatti probabile che, per il gioco dei ritiri concordati, l'elettore si trovi a votare, al secondo turno, per il candidato di una coalizione.

Ne deriva che se vogliamo continuare a considerare i ribaltoni come normali ciò va benissimo ma allora è giusto che si arrivi alla seguente conclusione: scusateci, abbiamo scherzato, che si torni senza indugio alla proporzionale.

Da ultimo, faccio un'osservazione sul sistema elettorale preferito da Sartori, il doppio turno di collegio. Poiché, a differenza di Sartori, apprezzo la democrazia maggioritaria, trovo ottimo il doppio turno abbinato al semi-presidenzialismo (perché produce, plausibilmente, quel risultato), mentre ne diffido se lo si vuole abbinare al parlamentarismo. In ogni caso, ritengo negativissimo, foriero delle peggiori forme di trasformismo parlamentare, un doppio turno che stabilisca una soglia di sbarramento, o di esclusione, troppo bassa fra primo e secondo turno. A un doppio turno di quest'ultimo tipo preferisco senz'altro la proporzionale. Credo che la differenza fra me e Sartori anche su questo punto (lui non teme affatto un doppio turno con soglia di sbarramento bassa) sia perfettamente spiegata dal nostro diverso atteggiamento e dal nostro diverso giudizio in materia di ribaltoni e di trasformismo parlamentare.


Dal Corriere della Sera del 09/01/99

Serve una legge che impedisca la frammentazione politica

Dopo gli interventi sul "Corriere" di Giovanni Sartori (6 gennaio) e quelli di Angelo Panebianco (3 e 7 gennaio) su referendum e riforma elettorale, oggi sugli stessi temi pubblichiamo un intervento del senatore Passigli .

Di Stefano Passigli - Senatore Ds

La risposta di Panebianco a Sartori rischia di confondere il lettore: non si tratta infatti di scegliere tra una democrazia maggioritaria (cara a Panebianco) e una democrazia proporzionalistica aperta ai rischi del trasformismo parlamentare (che non è certo la scelta di Sartori). Il vero motivo del contendere tra i due studiosi sta: 1) nel "come" stabilizzare e rendere omogenee le maggioranze di governo per evitare crisi e ribaltoni; 2) in una diversa valutazione del mandato elettorale; e 3) in ultima analisi, della democrazia rappresentativa.

Quanto al primo, Sartori indica nella legge elettorale, e in particolare nel doppio turno di collegio, lo strumento più adatto a conseguire maggioranze coese e a scongiurare il rischio di "ribaltoni", che sono l'effetto e non la causa dell'instabilità delle coalizioni. Panebianco, invece, si affida ad un divieto di ribaltone di difficile costruzione dato che esso potrebbe fondarsi solo sull'abbandono della forma di governo parlamentare. Inoltre, Panebianco si contraddice quando si dichiara favorevole al semi-presidenzialismo, ma auspica che il prossimo presidente rinunci ad uno dei suoi più tipici poteri impegnandosi a sciogliere le Camere in occasione di qualsivoglia crisi di governo. Panebianco è ossessionato dai ribaltoni, e vede in questi, anziché nella frammentazione partitica che ne è la causa, il principale problema cui portare rimedio. Ma i ribaltoni sono oggi possibili perché le nostre coalizioni hanno prodotto soltanto maggioranze elettorali e non vere maggioranze di governo per la realizzazione delle quali sono necessarie leggi elettorali che - come il doppio turno di collegio - incidano sulla frammentazione. Come appunto propone Sartori. Un divieto di ribaltone in assenza di una ristrutturazione del sistema dei partiti, si tradurrebbe in una ingessatura di maggioranze friabili, paralizzate dalle loro divisioni ma obbligate a convivere per evitare il ricorso alle urne, o in continue quanto vane consultazioni elettorali.

Vengo al secondo punto. Panebianco sembra ritenere la democrazia maggioritaria incompatibile con il divieto di vincolo di mandato, sancito non solo dalla nostra Costituzione ma da tutte le liberal-democrazie. La sua risposta agli esempi ricordati da Sartori è debole: il fatto che in Inghilterra cambiamenti nella maggioranza siano l'eccezione e non la regola è ascrivibile alla natura bipartitica di quel sistema, e conferma anziché negare l'argomento che nei sistemi multipartitici simili cambiamenti possano essere più frequenti senza rappresentare necessariamente un "tradimento" dell'elettore. E ciò soprattutto quando l'elettore sia chiamato a votare un candidato di coalizione anziché di un singolo partito. Domando infatti a Panebianco: il fatto che un elettore moderato dell'Ulivo sia chiamato a votare in nome della coalizione per un esponente dei Comunisti Italiani (o viceversa, e ciò vale anche per il Polo) non modifica la natura del mandato? Se nel corso dell'esperienza di governo la coalizione si rinnova marginalmente sulle ali, mantenendo tuttavia fede al programma elettorale, dove è il "tradimento" dell'elettore? Per restare al caso italiano (ove io vedo una grande continuità programmatica tra i governi Prodi e D'Alema), se Rc esce e l'Udr entra, se esce insomma chi dissentiva dal programma della coalizione su punti fondamentali quali la politica estera, la forma di governo, o la legge elettorale (che l'Ulivo voleva a doppio turno di collegio, come è opportuno ricordare anche a Ppi e Verdi) dove è il "tradimento" del mandato elettorale?

Tocchiamo qui il cuore del dissenso tra Sartori e Panebianco. Il primo resta fedele ai principii fondamentali della democrazia rappresentativa e affida alla legge elettorale la correzione dei mali del sistema partitico e la stabilità e coesione dei governi. Panebianco - memore forse delle sue origini pannelliane - diffida dei partiti e delle assemblee rappresentative, e implicitamente sposa buona parte delle tradizionali critiche al governo parlamentare: in una parola diffida della democrazia rappresentativa e inclina alla democrazia diretta. Senza nulla dirci peraltro dei rischi di deriva plebiscitaria e cesaristica che - specie in tempi di videocrazia - questa inevitabilmente si porta dietro.

Chi ha ragione? A me sembra che per buttar via l'acqua sporca (le degenerazioni del nostro sistema politico) Panebianco butti via anche il bambino (la democrazia rappresentativa) ed introduca eccessive rigidità nel funzionamento del sistema.


Da il manifesto del 09/01/1999

La via tedesca contro il referendum

Di GIUSEPPE CHIARANTE - Direzione DS

Nel dibattito che si viene sviluppando a proposito del possibile nuovo referendum in materia elettorale sarebbe bene attenersi un po' di più ai fatti (e tra i fatti si deve certamente considerare anche l'esperienza compiuta negli ultimi decenni dalle maggiori democrazie europee) e lasciarsi trasportare un po' meno dal così diffuso pregiudizio ideologico che attribuisce alla legge maggioritaria - la più maggioritaria possibile - una sorta di virtù risanatrice del costume e del sistema politico.

Contro questa ventata di ideologismo aprioristico e manicheo ha significativamente messo in guardia, sul Corriere della Sera di mercoledì scorso, anche uno studioso che da anni è fautore del maggioritario quale Giovanni Sartori: il quale ha sottolineato che, quanto agli effetti, c'è da distinguere fra maggioritario e maggioritario come fra proporzionale e proporzionale; e a questo riguardo ha correttamente ricordato che proprio un sistema proporzionale, opportunamente corretto con la soglia del 5 per cento, ha dato alla Germania il meccanismo elettorale che fra quelli in vigore nei maggiori paesi europei ha tutto sommato funzionato meglio negli ultimi 50 anni, assicurando contemporaneamente un'equa rappresentanza parlamentare dei maggiori orientamenti politici e le condizioni di un'indiscussa stabilità ed efficienza di governo.
Ma restando al caso italiano, quali fatti conforterebbero la tesi che il processo degenerativo e trasformistico di continua frantumazione della rappresentanza parlamentare (giunto al punto che oggi si contano in parlamento fra i 25 e i 30 partiti, gruppi o movimenti) sarebbe stroncato da un referendum che abolisse la quota proporzionale del 25 per cento? Alla base di questo ragionamento vi è l'ipotesi di un rapporto di causa ed effetto tra quota proporzionale e frantumazione partitica: ipotesi che però non trova alcun riscontro nella realtà delle cose. Infatti:

1) anche se si volesse risalire all'epoca della proporzionale pura -che nessuno, si badi bene, propone di restaurare - si dovrebbe ricordare che anche allora sia il numero dei partiti presenti in parlamento (non più di una decina), sia la trasmigrazione trasformistica da un gruppo parlamentare all'altro erano assai più contenuti di quel che accada oggi;

2) se si assume come punto di riferimento quel che è accaduto nelle ultime elezioni, è un fatto che nel '96 riuscirono a superare nella quota proporzionale la soglia del 4 per cento e quindi ad avere accesso in Parlamento solo sette liste (Pds, Rifondazione, Ppi, lista Dini, Lega nord, Forza Italia, Alleanza nazionale), a parte le minoranze etnico linguistiche del Trentino Alto Adige e della Val d'Aosta;

3) è dunque chiaro che la frantumazione in partiti e partitini verificatasi in parlamento non è affatto derivata dalla quota proporzionale (che, se mai, ha fatto da freno) ma dalla tendenza - che ha forti radici nella tradizione clientelare, trasformistica, localistica, mai scomparsa in Italia - alla contrattazione dei posti nel maggioritario anche con gruppi o formazioni di dimensioni quasi insignificanti, il cui apporto è stato comunque ricercato per cercar di raggiungere la maggioranza nei vari collegi. Occorre dire con chiarezza che vi sono partitini (o gruppi altrimenti denominati) che sono oggi presenti alla camera e al senato solo per il potere di ricatto esercitato, all'interno dell'uno o dell'altro dei due maggiori schieramenti, al momento della distribuzione dei candidati nella quota maggioritaria;

4) è evidente infine che tutto questo favorisce quella degenerazione del costume e della vita politica, quel prevalere della manovre trasformistiche, quell'appannamento delle distinzioni politiche e programmatiche che sono fra le cause principali di disaffezione e anzi di distacco sempre più esteso dei cittadini dalla partecipazione all'attività politica e alle stesse competizioni elettorali. Si ha un bel dire - come molti hanno detto negli scorsi anni - che il calo medio dei votanti era la conseguenza fisiologica di un minor tasso di ideologismo e avvicinava l'Italia alle altre democrazie occidentali. Quando si giunge a livelli del tutto minoritari di partecipazione, come è accaduto nelle ultime elezioni parziali (in particolare per la provincia di Roma) e quando nel passaggio dal primo al secondo turno, che è quello decisivo, si verifica un ulteriore tracollo dei votanti, è evidente che si è di fronte a un fenomeno patologico: che può certamente avere anche cause tecniche (come il ruolo limitato della Provincia o la dispersione delle prove elettorali), ma che è prima di tutto il segnale - come ha giustamente sottolineato anche il presidente della repubblica nel suo messaggio di Capodanno - di un assai preoccupante calo di impegno e d'interesse politico da parte della collettività
So bene che a questi dati di fatto (che sono indiscutibili e che tuttavia si cerca in generale di sottacere) si oppone da parte dei fautori del referendum che un esito positivo sarebbe comunque uno stimolo per modificare una legge elettorale che non ha fatto buona prova e quindi per introdurre quel doppio turno di collegio che sarebbe la strada maestra per eliminare la frantumazione politica.

Obietto a mia volta che, prima di tutto, non mi convince la tesi del referendum-stimolo: tesi che si rivelò impraticabile già nel '93, col risultato che non vi fu altro da fare che adottare la legge che scaturiva dal referendum, cioè quella che oggi è con tante lamentele praticata. Temo che così accadrebbe anche questa volta: l'esito sarebbe una legge elettorale peggiore dell'attuale e, anzi, addirittura aberrante, perché vi sarebbe persino la possibilità (di questo si preferisce non parlare) di dare la maggioranza in parlamento allo schieramento sconfitto nelle elezioni.

Ma, in secondo luogo, non credo nell'efficacia risolutiva del doppio turno di collegio: a parte che non vi sarebbe alcuna sicurezza circa la formazione di una maggioranza di governo, la contrattazione di tipo trasformistico avverrebbe - come già accade - al momento della scelta dei candidati dei due maggiori schieramenti nei vari collegi.
Che cosa fare, allora? La tesi, ovviamente, è che va innanzitutto respinta l'illusione di combattere una crisi che è politica solo con stratagemmi elettorali. Il problema è, prima di tutto, dell'iniziativa dei partiti e del rilancio della loro capacità programmatica e progettuale. Ma sul terreno strettamente elettorale, se non vi è il coraggio di una decisa autocritica che abbia come fine - come io auspico - l'adozione di un sistema come quello tedesco, mi sembrerebbe per lo meno prudente puntare su un doppio turno fra le due maggiori coalizioni (che è la condizione per formare con certezza una maggioranza programmatica di governo): con la clausola - esattamente contraria all'impostazione della proposta Amato, rivolta invece praticamente a premiare la polverizzazione dei partitini - che alla formazione dell'una o dell'altra coalizione possano partecipare solo quelle liste che nella quota proporzionale del primo turno (che dovrebbe comunque restare, per ragioni di democrazia, e non essere ridotta solo a un diritto di tribuna) superino la quota del 4 per cento. Sarebbe per lo meno un avvio alla riduzione di una frammentazione patologica della rappresentanza parlamentare e a una maggiore chiarezza politico-programmatica.

Infine un corollario. E' un segno non trascurabile di crisi del costume democratico la campagna d'intimidazione psicologica che si è cercato negli ultimi tempi di sviluppare nei confronti della Corte costituzionale perché "non osi" non ammettere il referendum. La Corte deciderà - certamente - nella piena consapevolezza del suo ruolo e delle sue responsabilità. Ma il minimo che si possa dire è che non è affatto strano che anche in questo consesso vi siano dubbi sull'ammissibilità di un referendum che potrebbe produrre, attraverso un'esasperata manipolazione, gli effetti distorcenti che sopra ho richiamato.


Intervento successivo

Intervento precedente


Indice Interventi