Gli interventi di "Riforme istituzionali"

N° 78 - 01/02/97
Comitato per la democrazia Costituzionale
L'Italia, l'Europa, la Costituzione. Quali riforme per la democrazia? Manifestazione nazionale a Roma il 1° marzo.


Comitato per la democrazia Costituzionale

L'ITALIA' L'EUROPA, LA COSTITUZIONE: QUALI RIFORME PER LA DEMOCRAZIA?

L'apertura ormai imminente della stagione delle riforme istituzionali pone il nostro Paese dinnanzi a una grande opportunità e a un grande rischio.

Opportunità e rischi. Se l'opportunità, che vorremmo fosse interamente colta, ci induce a parlare, come già abbiamo fatto col documento che, rifiutando il presidenzialismo, proponeva delle "Idee per un programma di riforme istituzionali", il rischio che intravvediamo ci costringe a parlare, accomunati come siamo - giuristi, sindacalisti, scrittori, artisti, poeti, cittadini - in questa battaglia.
C'è infatti un rischio, come sempre accade quando si pone mano alla legge fondamentale; c'è un rischio, per il fatto che non è questo un momento particolarmente felice di unità dei cittadini e dello spirito pubblico; c'è un rischio, perché la spinta riformatrice, in sé fisiologica e anzi sempre necessaria in ogni istituzione, è stata ispirata da intenti regressivi e di restaurazione fin dal messaggio alle Camere, denigratore della Costituzione vigente, dell'allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel luglio 1991; c'è un rischio perché l'attuale fase riformatrice parte col piede sbagliato a causa dello stravolgimento, operato dalla legge istitutiva della Commissione Bicamerale, dell'art. 138 della Costituzione, cioè proprio di quella norma che il costituente aveva posto a garanzia di una corretta opera di revisione; stravolgimento di fronte al quale noi ribadiamo che un buon risultato non si può perseguire con procedure arbitrarie, e che proprio la garanzia del nesso tra sostanza e metodo, tra diritti e procedure, è ciò che fa che una Costituzione sia una Costituzione; perciò noi, ribadendo la contrarietà a un'Assemblea Costituente che significherebbe negazione dei principi e del fondamento storico-politico della Repubblica, propugnamo che la riforma affidata alla Commissione Bicamerale segua la via maestra segnata dall'art. 138 della Carta.

Le novità cui far fronte. Questa prima rottura sul piano del metodo, è un preannuncio peraltro delle ben più gravi questioni destinate ad aprirsi sul piano dei contenuti, anche in rapporto all'estrema difficoltà della situazione nella quale verrà a iscriversi il processo riformatore. Le novità che si affacciano all'orizzonte, e che in gran parte già sono all'opera, sono infatti quali nessuna Costituzione ha mai dovuto affrontare. Non solo infatti l'Italia dovrà attrezzarsi per far fronte alla nuova condizione di una sovranità largamente trasferita all'Unione Europea e, al di là di essa, al mercato globale - a cominciare da quella prerogativa della sovranità che consiste nel battere moneta e nel potere di regolare i flussi di scambio - ma dovrà far fronte ad una trasformazione destinata a cambiare i fondamenti stessi della vita privata e sociale.

Una Costituzione europea. Sotto il primo profilo il problema da risolvere è che il carattere democratico della sovranità, che in Italia è "sovranità popolare", segua la sovranità dovunque essa venga trasferita, come è previsto dall'art. 11 della Costituzione, uno degli articoli non sottoposti a riforma. Ciò pone come prioritaria la questione della Costituzione europea, che non può essere confusa con il Trattato di Maastricht, che è un Patto di inclusione-esclusione degli Stati sulla base di criteri economici selettivi, mentre la Costituzione deve essere un Patto di inclusione di tutte le persone ricomprese nel nuovo spazio pubblico cosi creato, sulla base dell'universalità dei diritti.
Perciò l'Italia, che è uno dei soci fondatori dell'Europa, nel momento in cui all'interno mette all'opera il potere costituito per la riforma della sua Costituzione, deve assumere un'iniziativa costituente per concorrere, con i suoi partners europei della prima così come dell'undicesima ora, alla formazione di una Costituzione democratica europea.

L'espulsione dal lavoro. Sotto il secondo profilo il problema è di dar luogo a ordinamenti non rigidi, non immobilizzati, ma che siano dotati della necessaria flessibilità e capacità di agire per affrontare una transizione che, a cavallo del millennio e del secolo, si annunzia gravida di esiti imprevedibili. Si tratta infatti di affrontare una trasformazione che investirà tutte le società, non solo le nostre società sviluppate, ma ormai anche quelle "in ritardo", e che consiste nella progressiva e sempre più massiccia eliminazione del lavoro umano - cioè del lavoro nella forma in cui fin qui lo abbiamo denominato e conosciuto - dai processi di produzione dei beni e di erogazione dei servizi. Ciò che in tal modo è messo in causa non è solo un equilibrio economico-sociale, ma il fondamento stesso della società in una "Repubblica fondata sul lavoro", e non sull'impresa. Quando, in derivazione diretta da questo art. 1, è stato scritto l'art. 35 della Costituzione, per il quale "la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni", non si immaginava nemmeno la gravità e la portata che questo impegno era destinato ad assumere.
La sostituzione delle macchine all'uomo, che con l'avvento dell'era industriale ha avuto il massimo impulso, e che tuttavia ha permesso l'aprirsi di nuovi sempre più vasti settori produttivi - dall'agricoltura, all'industria, ai servizi - in grado di offrire più lavoro di quanto il progresso tecnologico sopprimeva, è giunta ora nell'era dei computers e delle biotecnologie, ad invertire il ciclo e a realizzare una imponente e tendenzialmente illimitata emancipazione della produzione dal lavoro e perciò dai lavoratori, così trasformati in esuberi.
Se oggi ci sono ottocento milioni di disoccupati o sottoccupati nel mondo, vi sono due miliardi e quattrocento milioni di persone che ancora vivono dell'agricoltura, e che le nuove tecnologie meccaniche, informatiche e biogenetiche espelleranno dai campi, mentre nei Paesi dove questa rivoluzione è già avvenuta, come negli Stati Uniti, le innovazioni tecnologiche, la riorganizzazione delle imprese (reengineering) e le tecniche di riduzione del fattore lavoro (labor-saving) svuotano di lavoratori le industrie, gli uffici, gli esercizi commerciali, i servizi, fino a far calcolare un esubero potenziale di 90 milioni di persone sui 124 milioni che costituiscono l'attuale "forza" di lavoro del Paese. Benché le cifre relative al futuro siano in realtà del tutto imprevedibili (perché tutto ciò non avverrà a bocce ferme e senza controspinte e reazioni sociali), la tendenza, in tutti i Paesi, è tuttavia innegabile. Questo Fenomeno che, se così si producesse, sarebbe del tutto nuovo nella millenaria storie umana, è stato definito come la "fine del lavoro". Ma il lavoro non può "finire"; possono finire forme di organizzazione sociale del lavoro, ma non il lavoro, vale e dire l'opera dell'uomo. In ogni caso, quella e cui assistiamo non è una fine, di cui si possa parlare come della morte naturale di un caro estinto; non si tratta infatti solo della ineluttabile conseguenze del progresso tecnico e informatico, che come tale avrebbe probabilmente andamenti più lenti, e dunque più capaci di essere gradualmente assorbiti; si tratta piuttosto di una eliminazione, cioè di un effetto anche artificialmente voluto: il lavoro è visto infatti come uno dei costi di produzione, e il più rilevante, che tutta l'intelligenza scientifica, tecnologica e manageriale tende a ridurre, e se possibile ad eliminare, nella corsa per raggiungere gradi sempre più elevati di produttività, di competitività e di profitto nella grande guerra, che si pretende incruenta, del mercato globale.
Ciò è destinato ed introdurre delle contraddizioni nello stesso mercato: perché il lavoro non è solo alla base della produzione, me anche del consumo, come mezzo o moneta universale che mette in relazione l'uomo con i beni di cui ha bisogno; e se è possibile un'offerta senza o con un minimo lavoro, non è possibile una domanda senza lavoro; onde l'essere umano, senza lavoro, a meno di non essere considerato esubero anche rispetto alla vita, dovrebbe diversamente essere dotato dei mezzi per provvedere alla vita e per attivare la domanda.

L'aggravante italiana. I problemi vanno dunque ben oltre quelli che già ci assillano con 1'11,8 per cento della disoccupazione italiana, di cui oggi non è di fatto programmata - ma solo sperata - una riduzione; sono i problemi già più seriamente annunciati dal 22 per cento della disoccupazione del Sud, e dalla disoccupazione giovanile che in tali regioni già supera il 50 per cento; è il problema di una società cui giungono inequivocabili segnali della necessità di ripensare interamente se stessa. Ma questi problemi, che si pongono anche agli altri Paesi, l'Italia li dovrà affrontare in condizioni di maggiore svantaggio, combattendo con una mano legata dietro le schiena, perché a causa del suo debito pubblico deve dirottare ogni anno una quantità enorme dei proventi fiscali e delle risorse pubbliche al pagamento dei relativi interessi (131.000 miliardi di avanzo primario nel 1997), e ulteriormente indebitarsi per soddisfarne l'intera entità. Un tale attivo di bilancio, al netto degli interessi, che non può essere convertito né in diminuzione di tasse né in prestazioni dello Stato, è senza precedenti e non ha riscontri in alcun altro Paese del mondo. Tra le sue conseguenze negative c'è anche una sorta di inquinamento nella conoscenza e nelle percezione delle condizioni dell'economia reale, per cui si accusa lo Stato di succhiarne le risorse come una sanguisuga, mentre esso le redistribuisce, trasferendo una ingente quantità di risorse dai contribuenti ai risparmiatori.

Le risposte possibili. Molte sono le proposte che sono state avanzate per fronteggiare questa crisi che in vario modo investe tutti i Paesi europei. A parte le soluzioni che, contro la Costituzione, consisterebbero unicamente nel restituire il lavoro al suo "stato di natura", di merce sovrabbondante e a basso prezzo, precario e flessibile, senza regole e senza tutele, si discute della riduzione del tempo di lavoro per ripartirlo più equamente tra tutti, dello sviluppo di un terzo settore intermedio tra sfera pubblica e privata, di un reddito minimo incondizionato per tutti, come corrispettivo del fatto stesso di esistere. Ma certo altre risposte sono possibili, che richiedono probabilmente, proprio in ragione della novità della situazione, una misura ancora maggiore di inventiva sociale e di coraggio intellettuale, se non addirittura una nuova prospettiva antropologica e culturale.
Che d'altra parte delle risposte siano possibili, in Italia e in Europa, così da trasformare questa crisi in una nuova tappa dell'incivilimento, è suggerito sia dal fatto che i progressi tecnologici sono pur sempre il frutto dello spirito umano, cui appartiene l'anelito a una liberazione dal lavoro più costrittivo e più pesante, sia dal fatto che il lavoro resta un valore in sé, indipendentemente dal suo valore di scambio sul mercato, sia dal fatto che la forza stessa delle cose promuove l'invenzione di nuovi lavori, di nuove funzioni e figure sociali, di nuove originali combinazioni di lavoro dipendente e di lavoro autonomo; prospettive positive, dunque, sempre che sia la ragione, e non il caso, a governare i processi.
Alla gravità del problema del lavoro, si accompagna poi quella del problema del cibo, cui non hanno accesso 800 milioni di persone nel mondo, di cui almeno la metà sono state ufficialmente e definitivamente lasciate senza speranza dal recente vertice della FAO, si accompagna la gravità del problema ecologico, egualmente minaccioso per tutti i Paesi e per tutte le classi, e si aggiungono i nuovi problemi che si incontreranno al di là delle ignote frontiere che stanno per essere varcate dalla manipolazione e dalla invenzione genetica, sia nelle loro applicazioni alla medicina, che nelle loro applicazioni alla zootecnia e all'agricoltura.

L'alternativa sul ruolo della politica e del diritto. Di fronte a tutto ciò qualunque riforma istituzionale presuppone la risposta a una domanda essenziale: può tutto questo essere affrontato, sia sul piano interno che sul piano globale, con una drammatica esaltazione dell'ideologia privatistica, rimettendo ogni soluzione alle mano invisibile del mercato, o non dovranno ritrovare un ruolo, una responsabilità, una qualificazione, una più accentuata partecipazione democratica l'ordinamento giuridico e i poteri pubblici delle comunità politiche e degli Stati, comunque, innovandosi, configurati?
Noi siamo convinti in effetti che non potrà esserci una risposta adeguata a queste sfide senza una appropriata azione dei poteri pubblici, senza che la politica e il diritto assolvano al loro ruolo inteso al perseguimento del bene comune al di là delle motivazioni e delle azioni dei soggetti privati, senza una effettiva pratica e crescita della democrazia. Mentre il mercato rivendica la sua libertà, sarebbe del tutto illusorio e puramente ideologico ritenere che il mercato, da solo, possa risolvere problemi, quali l'occupazione e l'attribuzione di un potere d'acquisto a tutti i cittadini, che esso nemmeno si pone, e che proprio dal libero svolgersi delle sue dinamiche sono suscitati nella loro presente drammaticità.
Ma è proprio questa alternativa pregiudiziale che influisce su tutta l'impostazione delle riforme istituzionali. Se infatti si ritiene che il lavoro e l'esercizio degli altri diritti fondamentali debbano essere affidati alle mere opportunità del mercato, se si sostiene che i poteri pubblici debbano ritrarsi ed estraniarsi dall'economia, che la fiscalità e la spesa pubblica debbano contrarsi sempre di più per lasciare alla sfera privata la preponderanza o la totalità dell'amministrazione delle risorse e del prodotto interno del Paese, se si afferma il primato dell'economia sulla politica e sul diritto, allora sono consequenziali o plausibili riforme istituzionali che puntino soprattutto alla forza e alla speditezza del potere, all'organizzazione di uno Stato tanto più presente e invadente nella tutela dell'ordine pubblico quanto più assente dai processi genetici del disordine sociale, alla semplificazione del gioco politico e allo sfoltimento dei protagonisti e dei soggetti della vita politica e sociale.
In questa direzione vanno le proposte rivolte a togliere potere al Parlamento, a blindare l'esecutivo, a renderlo immune da "interferenze" e controlli, a imporre alla Camera la clausola suicida dell'autodissoluzione in caso di sfiducia al governo, e trasferire il grosso dei poteri legislativi al capo dell'esecutivo, al governo e alle burocrazie ministeriali, e predisporre sistemi elettorali sempre più maggioritari e sempre più capaci di rendere ininfluenti e inoffensive le opposizioni e invisibili le minoranze, ipotizzando premi di maggioranza e quorum di esclusione che sembrano ritagliati al millesimo sulla attuale situazione politica.
Al contrario, se si ritiene che il lavoro, l'accesso a un reddito, la rimozione degli ostacoli che di fatto limitano la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, la tutela ambientale, i limiti delle biotecnologie, il godimento effettivo dei diritti fondamentali siano una grande questione politica, se si ritiene che la Repubblica e i poteri pubblici debbano assolvere al ruolo che loro compete in ordine all'interesse generale, che la soluzione di tali problemi richieda uno straordinario concorso e incontro di volontà pubbliche e private, allora le riforme istituzionali dovranno non solo mantenere ferma la prima parte della Costituzione, ma adeguare e rendere più efficienti ed operanti, rispetto a quei principi e valori fondamentali, gli istituti e gli ordinamenti, e sviluppare ed accrescere la democrazia, il pluralismo, la condivisione e la gestione sociale delle istituzioni e dei servizi, ben oltre i limiti in cui ciò è stato possibile nel primo cinquantennio di storia repubblicana. Ciò comporta il superamento dello Stato accentratore e la sua evoluzione in senso federale, ed esige che sia sostenuto lo sviluppo di tutte le forme di partecipazione e di autogoverno, e in particolare che si realizzi una effettiva corresponsabilità nella gestione delle prestazioni dello Stato sociale, ciò che già trova un riferimento esemplare nelle attività di volontariato.
Di questo quadro è parte altresì la soluzione del problema della democrazia e della rappresentatività sindacale, lasciato irrisolto dall'esito del referendum sull'art. 19 dello Statuto dei lavoratori.

La maggioranza per le riforme. Dunque, ben più che nelle immediate questioni di governo, c'è qui un'alternativa, una bipolarità di culture e di prospettive politiche. Ciò appare oggi meno chiaro, perché in una grande parte delle sinistra, finalmente assurta a responsabilità di governo, sia per difetto di cultura politica, sia per esigenze tattiche perseguite oltre il dovuto, si è manifestata una accentuata subalternità alle istanze privatizzatrici della destra, e un'attitudine riduzionista proclive a minimizzare il ruolo dello Stato e a risolvere le garanzie in mere opportunità.
Se questa è una ragione di indebolimento dell'istanza democratica, nondimeno resta un'alternativa che non è, oltre una certe misura, mediabile. La sua forza di verità sta anche nella fallacia della tesi di chi dice "meno Stato" e nello stesso tempo pretende più ordine e più sicurezza. Perché non sarà "meno Stato" quello che, lasciando crescere il disagio sociale, dovrà alzare il livello del suo intervento a tutela dell'ordine pubblico, e non sarà "più ordine" quello di una società esacerbata in cui la stessa sicurezza finirà per affidarsi sempre più a mezzi privati, come già si profila negli Stati Uniti dove, secondo studi recenti, "la spesa per servizi privati di sicurezza supera quella sostenuta dallo Stato per garantire l'ordine pubblico, e il numero degli addetti del settore privato è pari a due volte e mezzo quelli delle forze di polizia".
Perciò se in astratto è giusto dire che altra è la maggioranza di governo e altra quella per le riforme, e che nella fissazione delle regole va ricercato il massimo consenso possibile, di fatto è proprio sulle riforme che la distanza è più grande, perché è una distanza tra diverse concezioni della società e dello Stato. Questa distanza è difficilmente colmabile, in una situazione culturale e politica che paradossalmente appare oggi più divisa di quanto non fosse, per ragioni storiche precise, al momento della stesura delle Costituzione repubblicana. In effetti oggi tra Polo e Ulivo dovrebbe essere molto più difficile fare insieme le riforme che governare, essendo ancora maggiori le contraddizioni che ne deriverebbero.
Di tale situazione è saggio prendere atto, perseguendo un coerente disegno di riforma, giungendo fin dove è possibile, piuttosto che mettere insieme, seguendo l'onda degli equilibri politici, un caleidoscopio di misure e di istituti, in cui né gli uni né gli altri potrebbero riconoscersi e che non reggerebbe alle prove che ci attendono. Né meno importante è mantenere una limpida e non mercanteggiata posizione sulla questione della giurisdizione, la cui capacità di controllo di legalità sull'esercizio di ogni potere deve essere salvaguardata e anzi resa più effettiva; ciò di cui è condizione l'indipendenza della magistratura.

Opinione pubblica e riforme. Una manifestazione nazionale a Roma. Perciò il Comitato per le democrazia costituzionale ripropone le linee di riforme istituzionali enunciate nel suo documento presentato il l0 aprile, e invita l'opinione pubblica a una vigile e attiva presenza rispetto al processo di revisione che sta per prendere avvio con la Commissione bicamerale, per il quale annuncia fin da ora che costituirà un gruppo permanente di osservazione inteso anche a fare da tramite di conoscenza, di informazione e di partecipazione tra questo decisivo lavoro parlamentare e i cittadini.

Il Comitato per la democrazia costituzionale indice altresì, per il 1° marzo, a conclusione di una serie di seminari promossi in diverse città d'Italia, una manifestazione nazionale a Roma, a cui parteciperanno giuristi, scrittori, politici, artisti, sindacalisti e poeti, per illustrare e ribadire l'istanza di "riforme per la democrazia".

COMITATO PER LA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE
(Associazione Italiana Giuristi Democratici - Comitati per la Costituzione - Magistratura Democratica - Pace e Diritti - Allegorein - Questione Giustizia - Nuvole)

Le adesioni al presente documento si raccolgono presso Pace e Diritti, tel. 06-6833678 --- Fax 06-6869327



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