Prima d'iniziare l'esame
del disegno
di legge costituzionale del Governo licenziato dal consiglio dei Ministri
il 16 settembre 2003, è doveroso ricordare come, in soli due
anni, il Governo Berlusconi abbia presentato ben tre progetti di revisione
costituzionale.
Unico denominatore comune:
la devoluzione di alcune materie alle Regioni secondo l'indicazione della
Lega di Bossi.
Per il resto, tra il secondo
ed il terzo progetto abbiamo addirittura assistito ad un brusco mutamento
di rotta per quanto riguarda gl'interventi da fare sul nuovo Titolo V approvato
dall'Ulivo alla fine della precedente legislatura.
Come si ricorderà,
il progetto licenziato dal CdM l'11 aprile scorso (!), prevedeva l'abolizione
della "legislazione concorrente, del tipo previsto dal terzo comma dell’art.
117 Cost." e la ridistribuzione delle "materie già ricomprese
nella stessa ... tra le Regioni e lo Stato secondo un criterio di adeguatezza
e proporzionalità" (“Nuove
modifiche al Titolo V, parte seconda, della Costituzione” - Consiglio dei
Ministri 11 aprile 2003).
Con la bozza dei 4 saggi,
invece, si ritorna all'impianto complessivo voluto dall'Ulivo.
Brevemente:
rimane invariato
il modello di legislazione concorrente adottato dal legislatore italiano
(e non ci si lasci ingannare dalla formula: il modello di legislazione
concorrente tedesco è tutt'altra cosa dal modello varato dall'Ulivo);
nulla cambia
anche riguardo ai limiti posti all'intervento statale al fine di garantire
l'uguaglianza dei cittadini (diversamente dalla Costituzione tedesca, che
utilizza gli strumenti della legislazione concorrente per garantire eguali
condizioni di vita, il nuovo Titolo V ha introdotto l'assurdo principio
della "tutela dei livelli essenziali").
Dopo due anni di critiche,
quindi, si è ritornati al punto di partenza, guardandosi bene dal
mettere in discussione i due punti più deboli della riforma approvata
dall'Ulivo. Del resto, peggio di quanto già fatto dall'Ulivo proprio
non si poteva fare.
E invece no: "al peggio
non vi è mai fine", e l'interesse nazionale da porre al vaglio
del Senato "federale" rende bene l'idea delle difficoltà
provocate dall'agosto più caldo degli ultimi anni.
La previsione contenuta
nella bozza dei saggi di ricorso al Senato "qualora - il Governo
- ritenga che una legge regionale pregiudichi l’interesse nazionale della
Repubblica", infatti, nulla potrebbe garantire, vista la su citata
costituzionalizzazione del principio della diversità di trattamento
attraverso la formula della "tutela dei livelli essenziali", di fronte
all'insorgere di cittadini di serie A e di serie B.
D'altro canto, il vago richiamo
al pregiudizio dell'interesse nazionale, per di più non sottoposto
ad un chiaro e ben delimitato controllo di legittimità sulla base
delle competenze che la Costituzione attribuisce allo Stato e alle Regioni,
bensì ad un controllo di tipo squisitamente politico inevitabilmente
condizionato dagli interessi delle maggioranze politiche del momento, è
in grado di aprire le porte ad ingerenze e conflitti di ogni tipo.
Vera e propria ciliegina
sulla torta del progetto di revisione, infatti, è la convinzione
che sia sufficiente chiamare una cosa con un determinato nome per far sì
che questa si comporti in un certo modo.
Ma come e perché
il "Senato federale della Repubblica" dovrebbe comportarsi diversamente
dall'attuale?
Forse che il nome e le competenze
attribuite potrebbero impedire il formarsi di un Ulivo ed un Polo regionali
emanazione diretta delle segreterie nazionali?
Paradossalmente, sarà
proprio la possibilità data al Senato, d'intervenire sugli atti
delle Regioni con decisioni politiche e non di legittimità, ad alimentare
l'interesse dei poli a non lasciare troppa autonomia alle strutture locali.
E a nulla varrà la favoletta che ad essere eletti saranno soltanto
quei candidati locali ed autorevoli in grado di fare gl'interessi del proprio
territorio.
L'esperienza dei collegi
uninominali, in tal senso, ha già dato ampie dimostrazioni di malcostume
politico, con candidati calati dall'alto ed il più delle volte sconosciuti
agli elettori; e chi ci sta ci sta, altrimenti a casa con la "libertà"
di non votare.
E' pur vero, però,
che la bozza dei saggi prevede, in Costituzione, che il Senato venga eletto
con il sistema proporzionale. Ma tenendo conto del basso numero di seggi
a disposizione in almeno 11 Regioni, ulteriormente diminuito dal progetto
in esame, è facile prevedere un inevitabile effetto di bipolarizzazione
del quadro politico.
In queste Regioni, infatti,
per le coalizioni candidate a governare il Paese (interessate ad avere
un Senato delle regioni dalla propria parte) e per i partiti minori senza
speranza alcuna di ottenere eletti, sarà di vitale importanza evitare
inutili dispersioni di voti (l'ultimo seggio disponibile potrebbe ad esempio
essere assegnato ad un partito al 6%, lasciando così a bocca asciutta
due partiti al 5% che, se coalizzati, avrebbero potuto conseguire quel
seggio), riproducendosi così i meccanismi di aggregazione tipici
del maggioritario, compreso il tanto vituperato mercato delle vacche
in sede di assegnazione delle candidature che, per i bassi numeri a disposizione
a livello locale, potrà trovare soluzione soltanto in un ambito
allargato, soltanto, cioè, mantenendo un sistema di equilibri sovraregionale.
Diverso è il discorso
per le Regioni ad elevato numero di seggi a disposizione. Grazie al proporzionale,
si apriranno spazi di rappresentatività anche per le istanze minoritarie
più significative, siano esse specificamente locali o di tipo nazionale.
Se ciò potrà far storcere la bocca ai sostenitori dei meccanismi
elettorali bipolari, nulla di più ovvio per quella che dovrebbe
essere una Camera rappresentativa diversa dalla Camera dei Deputati, sia
per le funzioni che per gl'interessi da rappresentare.
La scelta del maggioritario,
è bene sottolinearlo con chiarezza, non farebbe altro che produrre
un inutile Senato "federale" ad immagine e somiglianza della Camera dei
Deputati.
Precisato ciò, è
però d'obbligo ipotizzare cosa potrebbe accadere nell'ipotesi che
la riforma dovesse prendere forma con gli attuali equilibri politici, tenendo
conto di entrambi i livelli: nazionale e regionale.
In primo luogo è bene
ricordare la spada di Damocle costituita dal sistema di elezione di tipo
maggioritario per l'elezione del Governo del Paese, con l'inevitabile conseguenza,
sotto gli occhi di tutti, di alleanze tra le forze politiche stipulate
al solo fine di battere la concorrenza. E al riguardo, fanno sorridere
tutte le parole spese nel progetto di revisione sui poteri del Premier
(argomento che verrà trattato in un altro approfondimento).
A meno di non essere politicamente
ciechi, è sin troppo evidente come gli attuali problemi del Governo
Berlusconi, dalle sortite di Bossi ai distinguo in "doppio petto" di Casini
e Fini, dipendano tutti dalla certezza che non si può andare a nuove
elezioni divisi. Perdere ad esempio la Lega, fortemente premiata dal sistema
maggioritario in quanto concentrata nel Nord e quindi di fondamentale importanza
per la vittoria dei seggi uninominali di tutta quell'area, significherebbe
la sconfitta certa, sia che si arrivi alle elezioni alla scadenza naturale
della Legislatura, sia che vi si arrivi in conseguenza di uno scioglimento
anticipato delle Camere.
Di fronte ad un Governo, quindi, come quello che è sotto gli occhi di tutti, si collocherà un Senato federale nel quale a prevalere non saranno gl'interessi regionali (forse è per questo che si è preferito chiamarlo Senato federale e non Senato delle Regioni), certamente da ricomporre, bensì gl'interessi sovraregionali della Lega Nord (anche se soltanto al 4% nazionale, la Lega è fortemente concentrata nelle tre Regioni del nord, Lombardia, Piemonte e Veneto che, da sole, avranno a disposizione circa 60 senatori su 200), più tendenti al secessionismo che al federalismo; e quelli sovraregionali delle forze politiche più inclini a fare gl'interessi delle coalizioni di appartenenza.
A chiudere il cerchio, infine,
i limiti per l'eleggibilità a Senatore. Saranno infatti eleggibili
a Senatore soltanto "gli elettori che nel giorno delle elezioni hanno
compiuto i venticinque anni di età e hanno ricoperto o ricoprono
cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all’interno
della Regione, o sono stati eletti senatori o deputati nella Regione".
Sulla carta, secondo le
intenzioni dichiarate dai proponenti, per garantire l'espressione di una
classe politica matura e già a conoscenza dei problemi del territorio.
Volendo spostare lo stesso metodo di ragionamento sull'altro ramo del Parlamento,
c'è da credere che ben presto ci verrà proposta una Camera
dei Deputati costituita da soli ex europarlamentari: avendo già
difeso gl'interessi dell'Italia all'europarlamento, infatti, chi meglio
di loro potrebbe conoscere i problemi del territorio nazionale?
A parte le facili battute,
è evidente come ci si trovi di fronte all'ennesimo vincolo posto
da una classe politica refrattaria al rinnovamento e da un sistema dei
partiti che, dall'alto, potrà con più facilità condizionare
la vita politica locale.
Agli inevitabili timori per
le immediate conseguenze della Riforma applicata all'attuale quadro politico,
debbono poi aggiungersi altri aspetti che contribuiscono a creare un quadro
d'incertezze tale da far dubitare che si possa arrivare ad una seconda
Camera in grado di svolgere una reale funzione di raccordo tra gl'interessi
locali e quelli nazionali.
Il primo, il potere di scioglimento
del Senato, attribuito al Presidente della Repubblica secondo una previsione
costituzionale che più vaga non poteva essere: "Il Presidente
della Repubblica, in caso di prolungata impossibilità di funzionamento
del Senato federale della Repubblica, può decretarne lo scioglimento,
sentito il suo Presidente."
Al di là dell'indeterminatezza
della formula, ciò che risulta di difficile comprensione è
la previsione stessa dello scioglimento.
Il Senato ha sì competenze
legislative specifiche, ma in un ambito nel quale le competenze legislative
delle Regioni possono già ora essere assolte anche in assenza di
specifiche "leggi quadro" (vedi sentenze della Consulta).
Come e perché, allora,
porre sotto tutela un Organo che, per sua natura, potrebbe benissimo non
essere in grado di lavorare secondo parametri di efficienza che sono invece
richiesti, per la diversità di competenze, a partire dalla fiducia
o meno al Governo, per la Camera dei Deputati?
Se si accetta di assegnare
alle Regioni, attraverso il Senato, la priorità nella definizione
dei "principi fondamentali nelle materie di cui all'art. 117, terzo
comma (legislazione concorrente)", si accetta pure la possibilità
che nelle sede di ricomposizione dei diversi interessi si possa arrivare
all'immobilismo (si vota, quindi formalmente il Senato "funziona", ma non
si approva nulla), né più e né meno di quanto già
avviene ora.
Certamente, di fronte ad
un simile immobilismo i Governi cadono ed è alta la possibilità
di andare a nuove elezioni.
Ma il problema è
proprio questo: il Senato federale non viene eletto per sostenere il Governo
e l'attività di governo.
La questione da porsi, quindi,
non dovrebbe tanto riguardare il come garantire l'efficienza del Senato,
quanto, piuttosto, la definizione del tipo d'intervento da attribuire all'Organo
rappresentativo delle Regioni in merito alle competenze legislative assegnate
allo Stato.
Ma è proprio in questa
definizione che il progetto dei saggi realizza un'assurda suddivisione
di competenze tra la Camera dei Deputati ed il Senato, togliendo alla prima
competenze che la Costituzione assegna alla legislazione statale, quale
la definizione dei principi fondamentali nelle materie di cui all'art.
117, terzo comma (legislazione concorrente).
In altre parole, attraverso
il "bicameralismo asimmetrico" proposto, gli elettori votano per il Governo
del Paese ben sapendo, però, di non avere voce in capitolo riguardo
la determinazione di alcuni interessi nazionali.
Per concludere con le questioni
riguardanti l'abbandono del bicameralismo perfetto e l'aver sottratto al
Senato la possibilità di sfiduciare il Governo, è d'obbligo
un cenno sulla durata e sui tempi di elezione di quest'Organo.
Vista la differenziazione
di competenze, si poteva tranquillamente decidere per un meccanismo di
rinnovo del Senato di tipo parziale, ad esempio ogni 12 o 24 mesi, secondo
una distribuzione territoriale che coinvolga tutte le aree del paese.
Uno dei pregi del sistema
americano, nell'assenza di meccanismi di fiducia verso il Presidente e
in assenza di poteri di scioglimento del Presidente nei confronti del Congresso,
è proprio quello di prevedere rinnovi parziali, un terzo ogni due
anni, del Senato.
Un sistema simile, applicato
al Senato "delle Regioni", potrebbe permettere ad un buon numero di elettori,
attraverso il rinnovo parziale, di mutare fondamentali equilibri alla luce
dei comportamenti concreti (degli uni come degli altri, Governo e rappresentanze
regionali) e non delle promesse elettorali.
Per concludere, infine,
con le modifiche al Titolo V, rimane lo sconcerto di dover commentare quanto
previsto per Roma Capitale.
Incredibile ma vero, in
poche righe è possibile trovare tutto ed il contrario di tutto.
Che senso ha, infatti, rinviare
allo Statuto della Regione le forme e le condizioni particolari di autonomia,
anche normativa?
Delle due l'una: o vi sono
necessita di forme particolari di autonomia per la città-Capitale,
che vanno quindi immediatamente riconosciute; o non vi sono... punto e
a capo.