Riforme Istituzionali
 
Leggi del Diritto Pubblico e Costituzionale: Approfondimenti 
 
Vecchio e nuovo Titolo V nella bozza dei 4 saggi
 
    Franco Ragusa, 5 ottobre 2003

Prima d'iniziare l'esame del disegno di legge costituzionale del Governo licenziato dal consiglio dei Ministri il 16 settembre 2003, è doveroso ricordare come, in soli due anni, il Governo Berlusconi abbia presentato ben tre progetti di revisione costituzionale.
Unico denominatore comune: la devoluzione di alcune materie alle Regioni secondo l'indicazione della Lega di Bossi.
Per il resto, tra il secondo ed il terzo progetto abbiamo addirittura assistito ad un brusco mutamento di rotta per quanto riguarda gl'interventi da fare sul nuovo Titolo V approvato dall'Ulivo alla fine della precedente legislatura.
Come si ricorderà, il progetto licenziato dal CdM l'11 aprile scorso (!), prevedeva l'abolizione della "legislazione concorrente, del tipo previsto dal terzo comma dell’art. 117 Cost." e la ridistribuzione delle "materie già ricomprese nella stessa ... tra le Regioni e lo Stato secondo un criterio di adeguatezza e proporzionalità" (“Nuove modifiche al Titolo V, parte seconda, della Costituzione” - Consiglio dei Ministri 11 aprile 2003).
Con la bozza dei 4 saggi, invece, si ritorna all'impianto complessivo voluto dall'Ulivo.
Brevemente:
   rimane invariato il modello di legislazione concorrente adottato dal legislatore italiano (e non ci si lasci ingannare dalla formula: il modello di legislazione concorrente tedesco è tutt'altra cosa dal modello varato dall'Ulivo);
   nulla cambia anche riguardo ai limiti posti all'intervento statale al fine di garantire l'uguaglianza dei cittadini (diversamente dalla Costituzione tedesca, che utilizza gli strumenti della legislazione concorrente per garantire eguali condizioni di vita, il nuovo Titolo V ha introdotto l'assurdo principio della "tutela dei livelli essenziali").

Dopo due anni di critiche, quindi, si è ritornati al punto di partenza, guardandosi bene dal mettere in discussione i due punti più deboli della riforma approvata dall'Ulivo. Del resto, peggio di quanto già fatto dall'Ulivo proprio non si poteva fare.
E invece no: "al peggio non vi è mai fine", e l'interesse nazionale da porre al vaglio del Senato "federale" rende bene l'idea delle difficoltà provocate dall'agosto più caldo degli ultimi anni.
La previsione contenuta nella bozza dei saggi di ricorso al Senato "qualora - il Governo - ritenga che una legge regionale pregiudichi l’interesse nazionale della Repubblica", infatti, nulla potrebbe garantire, vista la su citata costituzionalizzazione del principio della diversità di trattamento attraverso la formula della "tutela dei livelli essenziali", di fronte all'insorgere di cittadini di serie A e di serie B.
D'altro canto, il vago richiamo al pregiudizio dell'interesse nazionale, per di più non sottoposto ad un chiaro e ben delimitato controllo di legittimità sulla base delle competenze che la Costituzione attribuisce allo Stato e alle Regioni, bensì ad un controllo di tipo squisitamente politico inevitabilmente condizionato dagli interessi delle maggioranze politiche del momento, è in grado di aprire le porte ad ingerenze e conflitti di ogni tipo.
Vera e propria ciliegina sulla torta del progetto di revisione, infatti, è la convinzione che sia sufficiente chiamare una cosa con un determinato nome per far sì che questa si comporti in un certo modo.
Ma come e perché il "Senato federale della Repubblica" dovrebbe comportarsi diversamente dall'attuale?
Forse che il nome e le competenze attribuite potrebbero impedire il formarsi di un Ulivo ed un Polo regionali emanazione diretta delle segreterie nazionali?
Paradossalmente, sarà proprio la possibilità data al Senato, d'intervenire sugli atti delle Regioni con decisioni politiche e non di legittimità, ad alimentare l'interesse dei poli a non lasciare troppa autonomia alle strutture locali. E a nulla varrà la favoletta che ad essere eletti saranno soltanto quei candidati locali ed autorevoli in grado di fare gl'interessi del proprio territorio.
L'esperienza dei collegi uninominali, in tal senso, ha già dato ampie dimostrazioni di malcostume politico, con candidati calati dall'alto ed il più delle volte sconosciuti agli elettori; e chi ci sta ci sta, altrimenti a casa con la "libertà" di non votare.
E' pur vero, però, che la bozza dei saggi prevede, in Costituzione, che il Senato venga eletto con il sistema proporzionale. Ma tenendo conto del basso numero di seggi a disposizione in almeno 11 Regioni, ulteriormente diminuito dal progetto in esame, è facile prevedere un inevitabile effetto di bipolarizzazione del quadro politico.
In queste Regioni, infatti, per le coalizioni candidate a governare il Paese (interessate ad avere un Senato delle regioni dalla propria parte) e per i partiti minori senza speranza alcuna di ottenere eletti, sarà di vitale importanza evitare inutili dispersioni di voti (l'ultimo seggio disponibile potrebbe ad esempio essere assegnato ad un partito al 6%, lasciando così a bocca asciutta due partiti al 5% che, se coalizzati, avrebbero potuto conseguire quel seggio), riproducendosi così i meccanismi di aggregazione tipici del maggioritario, compreso il tanto vituperato mercato delle vacche in sede di assegnazione delle candidature che, per i bassi numeri a disposizione a livello locale, potrà trovare soluzione soltanto in un ambito allargato, soltanto, cioè, mantenendo un sistema di equilibri sovraregionale.
Diverso è il discorso per le Regioni ad elevato numero di seggi a disposizione. Grazie al proporzionale, si apriranno spazi di rappresentatività anche per le istanze minoritarie più significative, siano esse specificamente locali o di tipo nazionale. Se ciò potrà far storcere la bocca ai sostenitori dei meccanismi elettorali bipolari, nulla di più ovvio per quella che dovrebbe essere una Camera rappresentativa diversa dalla Camera dei Deputati, sia per le funzioni che per gl'interessi da rappresentare.
La scelta del maggioritario, è bene sottolinearlo con chiarezza, non farebbe altro che produrre un inutile Senato "federale" ad immagine e somiglianza della Camera dei Deputati.
Precisato ciò, è però d'obbligo ipotizzare cosa potrebbe accadere nell'ipotesi che la riforma dovesse prendere forma con gli attuali equilibri politici, tenendo conto di entrambi i livelli: nazionale e regionale.

In primo luogo è bene ricordare la spada di Damocle costituita dal sistema di elezione di tipo maggioritario per l'elezione del Governo del Paese, con l'inevitabile conseguenza, sotto gli occhi di tutti, di alleanze tra le forze politiche stipulate al solo fine di battere la concorrenza. E al riguardo, fanno sorridere tutte le parole spese nel progetto di revisione sui poteri del Premier (argomento che verrà trattato in un altro approfondimento).
A meno di non essere politicamente ciechi, è sin troppo evidente come gli attuali problemi del Governo Berlusconi, dalle sortite di Bossi ai distinguo in "doppio petto" di Casini e Fini, dipendano tutti dalla certezza che non si può andare a nuove elezioni divisi. Perdere ad esempio la Lega, fortemente premiata dal sistema maggioritario in quanto concentrata nel Nord e quindi di fondamentale importanza per la vittoria dei seggi uninominali di tutta quell'area, significherebbe la sconfitta certa, sia che si arrivi alle elezioni alla scadenza naturale della Legislatura, sia che vi si arrivi in conseguenza di uno scioglimento anticipato delle Camere.

Di fronte ad un Governo, quindi, come quello che è sotto gli occhi di tutti, si collocherà un Senato federale nel quale a prevalere non saranno gl'interessi regionali (forse è per questo che si è preferito chiamarlo Senato federale e non Senato delle Regioni), certamente da ricomporre, bensì gl'interessi sovraregionali della Lega Nord (anche se soltanto al 4% nazionale, la Lega è fortemente concentrata nelle tre Regioni del nord, Lombardia, Piemonte e Veneto che, da sole, avranno a disposizione circa 60 senatori su 200), più tendenti al secessionismo che al federalismo; e quelli sovraregionali delle forze politiche più inclini a fare gl'interessi delle coalizioni di appartenenza.

A chiudere il cerchio, infine, i limiti per l'eleggibilità a Senatore. Saranno infatti eleggibili a Senatore soltanto "gli elettori che nel giorno delle elezioni hanno compiuto i venticinque anni di età e hanno ricoperto o ricoprono cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all’interno della Regione, o sono stati eletti senatori o deputati nella Regione".
Sulla carta, secondo le intenzioni dichiarate dai proponenti, per garantire l'espressione di una classe politica matura e già a conoscenza dei problemi del territorio. Volendo spostare lo stesso metodo di ragionamento sull'altro ramo del Parlamento, c'è da credere che ben presto ci verrà proposta una Camera dei Deputati costituita da soli ex europarlamentari: avendo già difeso gl'interessi dell'Italia all'europarlamento, infatti, chi meglio di loro potrebbe conoscere i problemi del territorio nazionale?
A parte le facili battute, è evidente come ci si trovi di fronte all'ennesimo vincolo posto da una classe politica refrattaria al rinnovamento e da un sistema dei partiti che, dall'alto, potrà con più facilità condizionare la vita politica locale.

Agli inevitabili timori per le immediate conseguenze della Riforma applicata all'attuale quadro politico, debbono poi aggiungersi altri aspetti che contribuiscono a creare un quadro d'incertezze tale da far dubitare che si possa arrivare ad una seconda Camera in grado di svolgere una reale funzione di raccordo  tra gl'interessi locali e quelli nazionali.
Il primo, il potere di scioglimento del Senato, attribuito al Presidente della Repubblica secondo una previsione costituzionale che più vaga non poteva essere: "Il Presidente della Repubblica, in caso di prolungata impossibilità di funzionamento del Senato federale della Repubblica, può decretarne lo scioglimento, sentito il suo Presidente."
Al di là dell'indeterminatezza della formula, ciò che risulta di difficile comprensione è la previsione stessa dello scioglimento.
Il Senato ha sì competenze legislative specifiche, ma in un ambito nel quale le competenze legislative delle Regioni possono già ora essere assolte anche in assenza di specifiche "leggi quadro" (vedi sentenze della Consulta).
Come e perché, allora, porre sotto tutela un Organo che, per sua natura, potrebbe benissimo non essere in grado di lavorare secondo parametri di efficienza che sono invece richiesti, per la diversità di competenze, a partire dalla fiducia o meno al Governo, per la Camera dei Deputati?
Se si accetta di assegnare alle Regioni, attraverso il Senato, la priorità nella definizione dei "principi fondamentali nelle materie di cui all'art. 117, terzo comma (legislazione concorrente)", si accetta pure la possibilità che nelle sede di ricomposizione dei diversi interessi si possa arrivare all'immobilismo (si vota, quindi formalmente il Senato "funziona", ma non si approva nulla), né più e né meno di quanto già avviene ora.
Certamente, di fronte ad un simile immobilismo i Governi cadono ed è alta la possibilità di andare a nuove elezioni.
Ma il problema è proprio questo: il Senato federale non viene eletto per sostenere il Governo e l'attività di governo.
La questione da porsi, quindi, non dovrebbe tanto riguardare il come garantire l'efficienza del Senato, quanto, piuttosto, la definizione del tipo d'intervento da attribuire all'Organo rappresentativo delle Regioni in merito alle competenze legislative assegnate allo Stato.
Ma è proprio in questa definizione che il progetto dei saggi realizza un'assurda suddivisione di competenze tra la Camera dei Deputati ed il Senato, togliendo alla prima competenze che la Costituzione assegna alla legislazione statale, quale la definizione dei principi fondamentali nelle materie di cui all'art. 117, terzo comma (legislazione concorrente).
In altre parole, attraverso il "bicameralismo asimmetrico" proposto, gli elettori votano per il Governo del Paese ben sapendo, però, di non avere voce in capitolo riguardo la determinazione di alcuni interessi nazionali.

Per concludere con le questioni riguardanti l'abbandono del bicameralismo perfetto e l'aver sottratto al Senato la possibilità di sfiduciare il Governo, è d'obbligo un cenno sulla durata e sui tempi di elezione di quest'Organo.
Vista la differenziazione di competenze, si poteva tranquillamente decidere per un meccanismo di rinnovo del Senato di tipo parziale, ad esempio ogni 12 o 24 mesi, secondo una distribuzione territoriale che coinvolga tutte le aree del paese.
Uno dei pregi del sistema americano, nell'assenza di meccanismi di fiducia verso il Presidente e in assenza di poteri di scioglimento del Presidente nei confronti del Congresso, è proprio quello di prevedere rinnovi parziali, un terzo ogni due anni, del Senato.
Un sistema simile, applicato al Senato "delle Regioni", potrebbe permettere ad un buon numero di elettori, attraverso il rinnovo parziale, di mutare fondamentali equilibri alla luce dei comportamenti concreti (degli uni come degli altri, Governo e rappresentanze regionali) e non delle promesse elettorali.
 
Per concludere, infine, con le modifiche al Titolo V, rimane lo sconcerto di dover commentare quanto previsto per Roma Capitale.
Incredibile ma vero, in poche righe è possibile trovare tutto ed il contrario di tutto.
Che senso ha, infatti, rinviare allo Statuto della Regione le forme e le condizioni particolari di autonomia, anche normativa?
Delle due l'una: o vi sono necessita di forme particolari di autonomia per la città-Capitale, che vanno quindi immediatamente riconosciute; o non vi sono... punto e a capo.
 



 
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