Enzo d'Errico
«Un'intesa strategica, quella proposta
da Piero Fassino su Il Foglio? No, sarebbe stata una riforma istituzionale
in piena regola. E, a differenza di quella varata dal centrodestra, nemmeno
approvata dal Parlamento. Per fortuna sembra che non avrà seguito,
adesso che Massimo D'Alema pare non essere più in corsa per il Quirinale».
Valerio Onida, ex presidente della Corte
Costituzionale, ha saputo da poco che l'Unione ha candidato Giorgio Napolitano
alla presidenza della Repubblica e finalmente può tirare un sospiro
di sollievo. Il patto proposto nei giorni scorsi da Fassino a Silvio Berlusconi
per spianare la strada a D'Alema nella gara per il Colle, l'aveva colto
di sorpresa: la stesura di un programma concordato in quattro punti, la
sua lettura dinanzi alle Camere riunite in seduta plenaria... L'idea che,
pur di raggiungere un obiettivo di parte, nemmeno il centrosinistra stava
esitando a usare strumentalmente le istituzioni, lo aveva davvero disorientato.
«Avremmo rischiato di alterare profondamente gli equilibri istituzionali
— afferma —. Sarebbero cambiati nei fatti il profilo e i poteri del Capo
dello Stato, dando vita a una sorta di diarchia che avrebbe generato soltanto
caos».
Ma cos'è che non la convinceva?
«Il presidente della Repubblica
non può essere il fulcro di un patto politico e tantomeno l'estensore
di un programma. La Costituzione gli assegna il ruolo di garante, non quello
di protagonista. Non a caso, la sua elezione avviene a scrutinio segreto:
si vota la persona, non un progetto di governo. L'esecutivo, al contrario,
deve guadagnarsi la fiducia in modo palese».
Invece cosa sarebbe cambiato?
«Apparentemente nulla, nella sostanza
moltissimo. Avremmo messo in piedi un sistema bicefalo, riedizione del
modello francese, nel quale le competenze del primo ministro si sarebbero
sovrapposte a quelle del Capo dello Stato. Aveva ragione Sergio Romano
quando, sul Corriere, parlava di tentazione presidenzialista: ci saremmo
ritrovati a fare i conti con una confusione di poteri senza precedenti».
Non le sembra d'essere troppo pessimista?
«No, illustro soltanto le naturali
conseguenze della proposta avanzata da Fassino. Ad esempio, prendiamo in
esame il primo punto, dove si dice che il presidente, in caso di crisi
di governo, dovrebbe garantire il ritorno alle urne».
Qual è il problema?
«Semplice: si prefigura il modo
in cui verrà esercitato il potere di scioglimento delle Camere che,
al contrario, non può essere vincolato. Quella facoltà è
stata assegnata al Capo dello Stato proprio perché deve essere esercitata
con la massima discrezionalità, valutando la situazione politica
del momento e gli interessi generali del Paese».
Punti. Almeno quelli sono accettabili?
«Che dal Quirinale giunga una spinta
diretta a ristabilire un clima di serenità nei rapporti fra giustizia
e politica, mi pare ovviamente auspicabile, considerate le difficoltà
degli ultimi anni. Da questo punto di vista il Capo dello Stato, anche
nelle vesti di presidente del Csm, può fare molto».
L'ultimo passaggio riguarda la riforma
costituzionale: dopo il referendum confermativo, il presidente s'impegnerebbe
a favorire un'ampia intesa destinata a concludere la lunga fase di transizione
istituzionale.
«Anche in questo caso, ci troviamo
di fronte a una sostanziale confusione di ruoli. Il Capo dello Stato non
è chiamato a favorire, e tantomeno a guidare, un processo di riforma.
A lui tocca garantire l'assetto istituzionale così come è
disegnato nella Carta. Un assetto istituzionale, lo ripeto. E non un programma».
Tantomeno un «partito personale»,
che nascerebbe fatalmente dall'accordo tra i gruppi che hanno aderito al
patto.
«Certo. E ciò sarebbe ancora
più inquietante. Comunque non dovrebbe mai esistere un "partito
del Presidente", cioè una forza politica che rappresenti la base
del suo potere e che possa tendere a trasferirne o a imporne la volontà
nei circuiti decisionali dell'attività parlamentare e di governo».
Un leader con la stazza «partitica»
di D'Alema cambierebbe questa prassi storica. O no?
«Probabilmente sì. Non è
un caso se, dal '48 ad oggi, non è mai stato eletto un grande leader
di partito. Ci provarono Forlani e Fanfani, all'epoca della Dc, e andò
male a entrambi. L'incarico è stato affidato quasi sempre a persone
provviste senza dubbio di una storia politica importante, ma che quando
sono state elette non rappresentavano un "pezzo" determinante del potere
partitico del momento. Erano esponenti di gruppi minori o anche della Democrazia
cristiana, che era la forza di maggioranza relativa, ma non s'identificavano
quasi mai con la leadership di quel partito».
Un po' come potrebbe essere Giorgio Napolitano
se venisse eletto: un profilo politico di grande rilievo, ma certamente
non il numero uno della gerarchia ds.
«Sì, in questo senso la designazione
di Napolitano segue la tradizione e cancella il surplus d'innovazione,
chiamiamolo così, che emergeva dalla proposta di Piero Fassino.
Bisognerà vedere adesso come evolverà la situazione».
Sembra tramontata tuttavia, almeno per
il momento, la stagione dei «tecnici». E questo nonostante
il grande settennato di Ciampi. Strano, vero?
«Qui non si tratta di pensare che
in cima al Colle ci debba essere necessariamente un "tecnico", altrimenti
si viene meno alle caratteristiche di cui parlavo prima. Credo, però,
importante che non venga indicato un capo di partito. La Costituente ha
definito il Capo dello Stato un "magistrato di persuasione e di influenza".
Il suo ruolo non va esercitato in virtù di un "peso politico", ma
di un'autorevolezza personale e della capacità di rappresentare
l'unità nazionale».
Il programma del presidente
Un esercizio comunque previamente condonato,
anche moralmente, almeno stando alle dichiarazioni e alle giustificazioni
dello stesso Berlusconi quando ancora era Presidente del Consiglio. Ne
deduco che se venisse eletto un candidato diverso da D´Alema, unanimemente
i berlusconiani darebbero mandato ai loro commercialisti di pagare tutto,
pagare subito. Purtroppo, lo scambio berlusconiano: «eliminate la
candidatura D´Alema per farci pagare le tasse» non appare credibile.
Piuttosto la sua minaccia di sciopero fiscale è davvero sovversiva,
anti-costituzionale e chiama in causa proprio il compito del Presidente
della Repubblica come custode della Costituzione che c'è.
In Italia i candidati alla presidenza
della Repubblica non possono avere un programma politico e non debbono
avere un programma costituzionale. Il loro programma politico è
dettato dalla Costituzione: rappresentare non una parte politica, ma l´unità
nazionale. Il loro programma istituzionale sta scritto nella Costituzione
vigente, per l´appunto, quella che c´è e, se il pacchetto
di riforme costituzionali approvato dalla maggioranza parlamentare della
Casa delle Libertà non verrà rovesciato dal referendum del
25 giugno, nella Costituzione che ne deriverà.
Dunque, al momento sarebbe davvero sbagliato
e oserei dire anticostituzionale se, al di là del merito che assolutamente
non condivido, qualsiasi candidato alla Presidenza, si esprimesse, ad esempio,
contro eventuali ribaltoni e a favore di immediati scioglimenti del Parlamento
in caso di crisi della maggioranza di governo. L'attuale Costituzione che
il centro-sinistra sostiene di volere «salvare» stabilisce
esattamente il contrario. È sufficiente che il governo goda la fiducia
delle due Camere (art. 94) perché nasca, viva e svolga il suo compito.
È il Presidente della Repubblica che scioglie le Camere, «o
anche una sola di esse», «sentiti i loro Presidenti»
(art. 88) che gli comunicano l´esistenza, o meno, di una maggioranza
parlamentare operativa.
Nelle democrazie parlamentari, questi
sono due punti cardine che garantiscono flessibilità, operatività,
rappresentatività. Comunque, nessun candidato alla Presidenza della
Repubblica deve impegnare i suoi futuri comportamenti costituzionali a
favore di qualsivoglia parte politica, al governo o all'opposizione. Al
contrario, è legittimo che venga giudicato, accettato ed eletto
per quello che ha dichiarato e fatto in materia costituzionale sapendo
che il ruolo di Presidente lo costringerà nei binari limpidi della
Costituzione esistente.
Posso anche non approvare alcune delle
idee espresse da D´Alema in sede di Commissione Bicamerale, ma questo
non significa che D´Alema debba necessariamente sentirvisi vincolato
per sempre e, se eletto Presidente, attenervisi completamente. Soprattutto,
non implica affatto che D'Alema intenda imporre le sue idee a costo di
violare la Costituzione. Anzi, ho molta fiducia nel suo autocontrollo istituzionale
che, in Bicamerale, fu persino eccessivo. Cosicché, non mi pare
affatto una buona idea quella di proporre uno scambio fra voti parlamentari
e proposte costituzionali a futura memoria, per di più con uno schieramento
che parte cospicua del centro-sinistra ha giustamente accusato di volere
stravolgere la Costituzione, o quantomeno di averne fatto un documento
confuso, mediocre, con obiettivi particolaristici e compromissori.
A proposito di dittature della maggioranza,
il centro-destra, quando era maggioranza, non ha mai cercato nessun accordo
costituzionale con il centro-sinistra. Non lo cerca neppure adesso. Tenta
soltanto di insinuarsi nelle eventuali differenze di opinione del centro-sinistra
per sfruttarle. Il tentativo più insidioso lo ha fatto non del tutto
inaspettatamente Fedele Confalonieri, il più stretto collaboratore
di Berlusconi, rompendo il fronte del no a D´Alema e dichiarando,
in maniera un po´ strumentale e sibillina, la sua fiducia nella volontà
del presidente dei Democratici di Sinistra di rispettare quanto disse dodici
anni fa su Mediaset «patrimonio del Paese». Peraltro, Confalonieri
dovrebbe sapere che, fermo restando che le evasioni fiscali ed eventuali
altri reati dovranno comunque essere sanzionati, toccherà al governo
Prodi e al Parlamento, ma non al Presidente della Repubblica, D´Alema
o altri, il compito di regolamentare in maniera equa il settore dell´informazione
televisiva e del relativo mercato pubblicitario. Dovrà essere fatto,
senza sconti, applicando la norma della Costituzione (art. 21) e secondo
le leggi approvate dal Parlamento che il Presidente della Repubblica si
limita a promulgare quando sono conformi alla Costituzione stessa. Ecco,
che cosa sarà un Presidente di garanzia e super partes, come lo
desiderano non soltanto gli esponenti della Casa delle Libertà,
ma un po´ tutti coloro che auspicano un sistema politico decente.
Sarà l´autorità istituzionale più elevata che
rispetta il suo impegno prioritario: la Costituzione.
Sui 4 punti di Fassino, si veda anche:
08-05-2006 Referendum e le
mani libere di Fassino - Opinioni in Area Referendum 2006
07-05-2006 La Quercia e i rischi di una diarchia
di governo - La tentazione presidenzialista - Sergio Romano - Corriere.it
06-05-2006 L'on. Fassino tra i sostenitori
del Sì al referendum costituzionale? - Riforme.net
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