Il salto dell'aula.
QUANTO CONTA il parlamento per l'Ulivo? Nei programmi elettorali molto. Nell'esperienza concreta della politica quotidiana, quella vissuta dall'interno di Montecitorio, le cose vanno però un po' diversamente. Nel corso del primo anno di governo, come è noto, si sono avute molte e ripetute richieste di voti di fiducia. Che i parlamentari della maggioranza hanno comprensivamente giustificato con la fretta imposta dai tempi e anche con gli effetti della celebre sentenza della Corte costituzionale sui decreti legge. Di recente però alcune vicende hanno fatto accendere la spia rossa. La riforma del 513, ad esempio. Una riforma che investiva questioni di principio rilevantissime, degne di essere discusse in aula. Eppure in quel caso il dibattito è arrivato in aula solo per l'impegno testardo di pochissimi parlamentari. Altrimenti tutto - in omaggio al risultato da raggiungere - sarebbe stato deciso usando la Commissione giustizia in sede legislativa, come il regolamento prevede.
Questa settimana è toccato agli esami di maturità; riforma attesa da circa trent'anni. Il disegno di legge se n'è rimasto per mesi interi al senato, pur essendo nota la (condivisibile) intenzione del ministro Berlinguer di vararlo in tempo per l'inizio del prossimo anno scolastico. Poi dal senato il provvedimento è arrivato alla camera a metà luglio con l'esplicito imperativo "qui non si tocca neanche una virgola". Come mai? Per chiudere tutto (così almeno si illudevano i cattivi consiglieri del ministro) entro la fine di luglio. Insomma: la riforma va varata, il risultato va ottenuto, la camera faccia da illustre commentatrice. Poi tutto è stato per forza di cose rinviato a settembre. Ma quel che preoccupa è la tendenza culturale a saltare l'aula; soprattutto viste le motivazioni striscianti ed esplicite con cui essa viene giustificata. Che non sono più l'intollerabile lentezza dei lavori o le procedure logoranti. Ormai è in atto una vera e propria nouvelle vague di filosofia istituzionale. Non per altro si ascolta sempre più (ed è diventato motivo esplicito proprio nel dibattito sulla maturità) il riferimento al monocameralismo. In sintesi fedele: cari deputati, dovete "abituarvi", è in arrivo in monocameralismo, non ci sarà più la doppia lettura. Abituarsi, come se l'esercizio della funzione parlamentare fosse sfizio o privilegio. O come se una legge (peraltro nebulosa) all'orizzonte autorizzasse la decadenza di quelle (costituzionali) vigenti. Oppure ancora: cari deputati, la funzione parlamentare non si esprime solo nel legiferare ma anche nel votare. Certo, se poi si vota, come è comprensibile, secondo una disciplina di coalizione, ciò vuol dire che ormai il parlamento va di nuovo, come già negli anni '80, verso una sgradevole identità da "credere, obbedire, pigiare (il bottone)" che ai suoi tempi già diede pessimi risultati, dal raddoppio del debito pubblico alla protezione dei corrotti.
Così, tra il "salto d'Aula" e il parlamento che surroga la Corte costituzionale (in un passo ardito la legge della maturità dà infatti anche l'interpretazione autentica del noto articolo 33 della Costituzione sulla "parità scolastica"), tra un (giusto) invito ai magistrati a lasciar fare le leggi ai parlamentari e un (parallelo) invito ai parlamentari a lasciar fare le leggi al governo, ai partiti o all'altra camera, la maggioranza cerca affannosamente la sua identità culturale. Nell'incertezza, i nervosismi dell'alleanza e perfino la querelle su Di Pietro, finiscono per essere, probabilmente, la spia di qualcosa di più profondo.
* Deputato verde coordinatore Italia democratica
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