Gli interventi di "Riforme istituzionali"

N° 146 - 07/03/98
Rassegna stampa: abolizione della quota proporzionale ... che passione!


Dal Corriere della Sera del 18/02/98

L'ex Presidente della Consulta Conso: è una proposta ben congegnata e può convincere la Corte

MILANO - (E.Ca.) "Questa proposta mi sembra debba essere vista con molta attenzione": l'ex presidente della Consulta ed ex Guardasigilli, Giovanni Conso, è favorevolmente colpito dall'"uovo di Colombo", l'iniziativa messa a punto dal giovane riformatore Emilio Colombo per abolire attraverso quattro referendum la quota proporzionale nelle leggi elettorali di Camera e Senato.

Perché, professore, il cosiddetto "uovo di Colombo" la convince?

"Premetto che dovrei esaminare la proposta in modo più dettagliato, tuttavia mi pare congegnata in modo intelligente e in vista di un traguardo che merita ogni appoggio, perché questo Paese ha davvero bisogno di un maggioritario effettivo".

Ritiene che i 4 quesiti individuati possano superare lo scoglio della Consulta?

"Per superare il vaglio del giudizio di ammissibilità della Corte è necessario che i quesiti siano formulati in modo completo ed univoco. Quest'ipotesi mi pare sulla buona strada: sembra corrispondere alle esigenze formali e alle finalità sostanziali. In sintesi, idea e metodo scelti sono degni di apprezzamento e se rifiniti bene i quesiti potrebbero superare il vaglio".

Ma eleggere al Parlamento in quel 25% i candidati sconfitti nei collegi uninominali non è in contraddizione con il maggioritario dove a vincere deve essere sempre uno solo?

"Bisogna puntare al rafforzamento del maggioritario senza necessariamente distruggere aspetti che tengono conto di manifestazioni d'una larga rappresentanza di cittadini. Se cioè esiste una forza politica che ha un suo peso è giusto che questo non venga azzerato. In questo modo si realizza un contemperamento accettabile senza gli eccessivi sfilacciamenti dell'attuale disciplina. Arrivare subito ad un'eliminazione di tutte le voci diverse dal maggioritario sarebbe eccessivo: questo tipo di riforme si fa gradualmente, anche se ora c'è bisogno di un passo più marcato nella direzione presa nel '93".


Dal Corriere della Sera del 18/02/98

Contro la legge elettorale di "casa Letta" torna il patto referendario Segni-Occhetto

ROMA - (R. R.) Massimo D'Alema che sabato scorso a Firenze non ha bocciato l'ipotesi che distruggerebbe il "patto" di casa Letta, continua a mostrarsi possibilista sull'ipotesi di un referendum sulla legge elettorale avanzato da Marco Pannella insieme ad altri 42: "Studierò il quesito - assicura non senza un velo di ironia - Guardo sempre con interesse ad iniziative di ampio coinvolgimento popolare".

Ma poi avverte: "Se si tratta solo di abolire le liste dei partiti attribuendo a caso il 25 per cento dei seggi, non mi pare una gran proposta".

Non si fa attendere la replica del leader riformatore. Marco Pannella: "Al contrario di quello che pensa il leader della Quercia il nostro referendum è una rivoluzione copernicana".

La battaglia del leader radicale piace anche ai pattisti. Plaude subito infatti Mario Segni. Secondo lui è una battaglia sacrosanta ma oggi bisogna concentrarsi sul referendum fondamentale, cioè su quello che "abroga la quota proporzionale ancora presente nella legge elettorale".

Mariotto lancia un appello ai riformatori: "Facciamo un solo referendum e uniamo tutte le forze. Una battaglia storica come questa non può essere guidata da una sola forza, ma richiede l'unione di tutti quelli che intendono portare a termine il cammino delle riforme, stiamo lavorando per costruire al più presto possibile un comitato promotore ampio e rappresentativo".

Segni è già in azione. Ieri ha incontrato Achille Occhetto: per valutare insieme - come recita un comunicato diffuso dal fondatore del Pds - la possibilità di dar vita a una nuova campagna referendaria sulla legge elettorale".

Se si volesse chiamare alla consultazione gli italiani l'anno prossimo le 500 mila firme necessarie dovrebbero essere raccolte entro il 30 settembre.


Dal Corriere della Sera del 05/03/98

Oggi arriva in Cassazione il referendum anti quota proporzionale.
E Verdi e Ppi promettono battaglia

di Paola Di Caro

ROMA - Comincia stamattina, con il deposito del quesito in Cassazione, l'avventura del referendum per l'abolizione della quota proporzionale dalla legge elettorale. E comincia tra le speranze del Comitato promotore, guidato da Mario Segni, e le proteste di chi alla proporzionale tiene. Tra questi, i più arrabbiati sono i verdi («Mai appoggeremo questo referendum», giura Mauro Paissan) e i popolari.

Per Sergio Mattarella «quello proposto dai referendari è un sistema senza logica». Marini va oltre: «È un imbroglio». Secondo i popolari in realtà con il quesito referendario (che attribuisce il 25% dei seggi oggi distribuiti con la proporzionale ai migliori "secondi" classificati nei collegi uninominali), non si avrebbe per niente un effetto maggioritario ma solo distorsivo. Inoltre, è vero che non si potrebbe più votare per i partiti ma solo per i candidati, ma le piccole forze avrebbero un forte potere di ricatto sulle grandi.

Mario Segni contrattacca, e diffonde i risultati di una ricerca: se alle elezioni del '96 si fosse votato con il sistema proposto dal referendum, alla Camera l'Ulivo avrebbe 17 seggi in più e il Polo 14, mentre sia la Lega che Rifondazione ne avrebbero 16 in meno: «Questo è un referendum che spinge al massimo il bipolarismo e distrugge la frammentazione», assicura Segni. Marco Pannella, che non ha aderito al Comitato referendario, mette in guardia dal fidarsi troppo della Corte costituzionale, che come ha fatto in passato potrebbe anche stavolta bocciare il quesito referendario. Ma il nodo del giorno è tutto politico.

Del comitato infatti fanno parte personaggi molto diversi tra loro: da Antonio Di Pietro a pidiessini ulivisti come Mancina e Occhetto; dai pattisti a Scognamiglio a imprenditori come Abete e Letizia Moratti. E non tutti vogliono la stessa cosa, cioè la mera abolizione della quota proporzionale. Pier Ferdinando Casini, leader del Ccd, si allarma: con il referendum «il Pds avrebbe gioco facile a rilanciare il doppio turno di collegio» e a mantenere così «la sua egemonia sul centro sinistra». In effetti, Claudia Mancina non ha problemi a confermare: «Certo che siamo per il doppio turno. Sosteniamo l'abolizione della quota proporzionale, ma insieme speriamo con questa pressione di modificare gli schieramenti in Parlamento per passare dall'accordo elettorale di casa Letta al doppio turno di collegio. Senza assolutamente voler bloccare le riforme». Per questo la presenza di Di Pietro nel Comitato referendario non sorprende la Mancina: «Lui si è sempre detto favorevole sia al semi-presidenzialismo che al doppio turno. In questo è stato coerente». Concetto ripreso da un altro pidiessino, Mauro Zani, che plaude all'iniziativa di Di Pietro e spera che attraverso il referendum «si dia nuovo slancio alle riforme». Ma dunque anche D'Alema (grande sostenitore del doppio turno), alla fine, potrebbe avere i suoi vantaggi dal referendum? Barbera, costituzionalista del Pds e referendario, pensa proprio di sì: «E infatti sia lui che Fini non si sono affatto detti contrari al referendum...».


Dal Corriere della Sera del 07/03/98

Referendum, D'Alema boccia Di Pietro
Anche Ppi, Rifondazione e Verdi attaccano il simbolo di Mani pulite. Ma lui: reazioni ringhiose e rabbiose di chi teme di perdere la poltrona

«I partiti strumenti fondamentali per la democrazia». Le formazioni minori insorgono contro il senatore del Mugello.
Scoppia la polemica sull'iniziativa contro la quota proporzionale. Pidiessini divisi: sì degli ulivisti - sinistra contraria

di Francesco Alberti

MILANO - Massimo D'Alema, pur senza citarlo, lo ha sonoramente bocciato: giù le mani dai partiti, sono le travi portanti della democrazia. Popolari, Verdi e Rifondazione gli hanno rovesciato addosso una valanga di critiche: quel referendum è un pasticcio. E così Antonio Di Pietro - ritrovatosi nuovamente in solitudine all'interno del centrosinistra, e per la prima volta in rotta di collisione anche con il leader della Quercia, suo principale sponsor al Mugello - ha dovuto difendersi da solo, accusando «i soliti sapientoni» di reazioni «rabbiose e ringhiose», unicamente basate «sulla preoccupazione di perdere la poltrona». E ricordando di essere, sul fronte referendario, «in qualificatissima compagnia».

Sì, la bomba è scoppiata: a nemmeno 36 ore dall'avvio in Cassazione dell'avventura referendaria di Segni, Occhetto e Di Pietro contro la quota elettorale proporzionale, il mondo politico è attraversato da fiammate di tensione. Nel mirino, in particolare, l'ex pm di Mani pulite, colpevole di aver lanciato giovedì un appello contro «la proliferazione e le prepotenze dei partitini», indicati tra l'altro come «i veri ostacoli alle riforme». Parole che, oltre a non essere piaciute ai tanti «cespugli» (ma non solo) che popolano la flora parlamentare, hanno messo in allarme anche Botteghe Oscure, al cui interno si sta consumando una spaccatura fra gli ulivisti - decisi a mobilitarsi a favore dell'iniziativa referendaria - e la sinistra interna, per nulla convinta della necessità di abolire la proporzionale. Fra le due sponde, in posizione di attesa, si colloca per ora la maggioranza.

Un'attesa che non ha impedito però al segretario di Botteghe Oscure di replicare a stretto giro di posta agli appelli antipartitici lanciati dall'ex pm. «Sono un convinto difensore - ha detto - del ruolo dei partiti politici e non è stato ancora inventato nulla di ugualmente efficace per garantire il funzionamento della vita democratica». Ma anche dal resto dell'Ulivo si sono alzate voci durissime contro il senatore del Mugello e, più in generale, contro l'intera iniziativa referendaria. Il capogruppo dei popolari, Sergio Mattarella, riesumando un termine in voga qualche tempo fa, ha definito «un pastrocchio» l'offensiva antiproporzionalistica: «In realtà non verrebbe soppressa la quota del 25% - scrive oggi su il Foglio - ma cambierebbe solo il modo di assegnazione dei seggi col risultato che verrebbe eletto sia chi ha vinto sia chi ha perso». E Dario Franceschini, uno dei vicesegretari del Ppi: «Puntare al bipartitismo mi pare un'operazione ardita. E poi voglio vedere Di Pietro nello stesso gruppo di Bertinotti ...». E proprio da Rifondazione arriva una delle botte più dure all'ex pm: «Chi è convinto - ha affermato Marco Rizzo - che la rappresentanza popolare passi attraverso un demiurgo o un dittatore, non sa cos'è la democrazia». E le cose, per il senatore del Mugello non migliorano fuori dal recinto del centrosinistra. Il capogruppo di Forza Italia, Enrico La Loggia, definisce il referendum «un falso ideologico», il suo collega Lucio Colletti (che ha abbandonato il comitato referendario appena saputo dell'arrivo di Di Pietro) si dice convinto che l'ex pm «strumentalizzerà l'iniziativa» e il ccd Carlo Giovanardi parla di «solenne fregatura agli elettori che non potranno votare per il partito in cui si riconoscono».

Tra tante voci contro, le uniche che si sono levate in difesa dell'ex magistrato sono quelle dei suoi fedelissimi, pattuglia trasversale che a fine mese darà vita al Movimento di Di Pietro. «La verità - afferma il retino Giuseppe Scozzari - è che molti di quelli che lo attaccano sono dei miracolati... del proporzionale».


Da La Repubblica del 07/03/98

LA LEZIONE DEI REFERENDUM

di ANDREA MANZELLA

PROCEDERE a colpi di referendum istituzionali non è certo la via migliore per dare un assetto definitivo alle regole della politica. Ma cinque anni sono lunghi. E se uno si volta indietro a guardare il cammino percorso, dall'ultimo referendum del 1993, capisce che motivi di impazienza ce ne sono molti. Le leggi elettorali vigenti sono state "maggioritarie per caso" (secondo il titolo del migliore e più completo studio su di esse). Le coalizioni elettorali si sono sparpagliate alle Camere in gruppi parlamentari, più numerosi che in epoca proporzionale, e in una sequela di partiti-cespuglio, più divisibili dell'atomo e moltiplicati dagli incentivi economici di una lassista legge di finanziamento pubblico.

LA BICAMERALE, pur con punti di eccellenza (le regole di bilancio, i poteri del governo in Parlamento, il disegno della pubblica amministrazione) non ha creato ancora consenso e propulsione sui punti fondamentali (la direzione di governo, il processo federalista, le garanzie della giustizia, il rapporto con la costituzione europea). Di più, essa si porta dentro due incertezze di fondo: quella sull' assetto elettorale, indispensabile per definire la forma di governo; quella sul referendum finale, prevedibile canale di raccolta di tutti i malesseri e i disfattismi del paese.
Non vi è nessuna meraviglia, allora, se la "rivoluzione costituzionale" italiana abbia ripreso il filo della sua originaria corrente referendaria. Accanto al gruppo storico dei referendari istituzionali (da Segni ad Occhetto, da Barbera a Scoppola) si è posto, con esatto tempismo, il nuovo movimento di Antonio Di Pietro, che ha trovato così il terreno ideale per il suo vero esordio politico. E queste due componenti danno visivamente il senso di una saldatura tra quelle che sono ancora le due domande istituzionali più popolari della transizione imperfetta. La domanda di stabilità politica in una prospettiva di bipolarismo "garantito" contro la frammentazione partitica. La domanda di indipendenza della magistratura inquirente come bene pubblico, ben distinto dalla parallela richiesta di certezza di garanzie giudiziarie e di tempi processuali.
Anche quest'ultimo referendum propone un'operazione di tagli e di risulta. Dai pezzi e bocconi della legge vecchia sorgerà una legge elettorale nuova per effetto di tecniche che solo noi permettiamo, ostinandoci a chiamarle "abrogative".
A prima lettura, sembra che gli effetti saranno limitati per quanto riguarda il confronto diretto tra i due poli; saranno fortemente penalizzanti per chi cerca uno spazio fuori dai poli (come la Lega); non sono decifrabili nella composizione interna ai poli.
Una indubbia spinta bipolare, dunque, che però può essere senza qualità, se si guarda agli squilibri che può provocare nel sistema politico generale.
Il primo squilibrio è proprio nella mimetizzazione dei piccoli e medi partiti. Saltano, con l'eliminazione del voto di lista ma anche della clausola di sbarramento, gli unici indicatori della reale presa elettorale delle sigle politiche (ne hanno contate cinquantadue, appena ieri...). Nei due poli, il loro valore presunto costituirà un fattore di incertezza e di malessere sia che lo si sopravvaluti sia che lo si sottovaluti. Il tutto si scaricherà, senza alternative, sulla scelta dei candidati nei collegi uninominali, unico imbuto di ogni rissa.
Il secondo squilibrio è nella mancanza di congegni riduttivi delle spinte al localismo elettorale nei singoli collegi. Un fenomeno che è contrario sia alla "regionalizzazione" dei partiti nazionali sia alla nascita di partiti "regionali": che sono invece due logici movimenti di sviluppo nel quadro delle autonomie politiche territoriali.
Il terzo e più grave squilibrio è che il sistema elettorale di risulta dal referendum non potrà essere ovviamente collegato ad una coerente forma di governo. È un "buco" simmetrico a quello della Bicamerale. Qui vi è l' abbozzo di un semipresidenzialismo senza meccanismo elettorale servente. Lì una combinazione elettorale che viene fuori dalla slot machine del referendum, senza essere preordinata ad un disegno istituzionale di governo.
Detto tutto questo, vi è però anche da aggiungere che, con la presentazione della richiesta di referendum, due immediate conseguenze sbloccano l'orizzonte che si stava facendo basso sulla spinta riformista.
È stato, innanzitutto, invertito l'ordine del giorno. Al primo posto è ora la questione elettorale che la Bicamerale aveva consegnato all'appendice dei suoi lavori. Per evitare un sistema elettorale squi librato, quale quello che rischia di uscire dal referendum prossimo venturo, è necessaria quindi una nuova legge elettorale che, rafforzando il bipolarismo maggioritario, arresti la macchina referendaria già in movimento. L'epoca del doppio turno, con una seria manovra d'innalzamento delle soglie minime d'ingresso e di "credibilità" elettorale, è forse veramente arrivata (come al solito, per effetto di un vincolo esterno). È la prospettiva che indica, con il consueto realismo politico, il presidente del Senato nell'intervista di oggi a Repubblica.
La seconda conseguenza è che al discorso delle riforme si associa, con rango costituzionale il comitato promotore del referendum (con quello di nuovo e con quello di antico che esso reca con sé). E poiché, fin dal giorno in cui cominciarono ad esistere gli ordinamenti politici, la legge elettorale non è mai stata in un ghetto, tutto in un certo senso è rimesso in movimento. Bisognerà, insomma, aggiungere un posto a tavola.
Un matrimonio tra Bicamerale e referendum è nella logica di queste cose. Lo sforzo riformista in Parlamento dovrà ora armonizzarsi con la democrazia diretta referendaria che è alle origini della seconda fase di questa Repubblica.


Da il manifesto del 07/03/98

Referendum, "partitini" in rivolta, nel Pds si discute.
"Chi spingesse per la conta, chi lavorasse ad acuire le differenze si metterebbe contro il partito".

di MICAELA BONGI

ROMA - DUE TIPI di reazioni negative: una ringhiosa e una rabbiosa". Così Antonio Di Pietro commenta la rivolta dei cosiddetti "partitini" contro il referendum anti-proporzionale lanciato dall'ex pm insieme a Occhetto e Segni con l'"imprimatur" di Cossiga. I "partitini", che non si considerano tali, al senatore dell'Ulivo che li accusava di volersi solo salvare la pelle, avevano ribattuto: è lui a volere a tutti i costi una poltrona. Un demagogo, un dittatore... Così Di Pietro è stato tra l'altro definito ieri. E allora lui va al contrattacco dei "soliti saputoni" preoccupati "solo di perdere la poltrona". Alle reazioni "ringhiose volte solo a insultare la mia persona" nemmeno risponde.

Tra i contrari al referendum, Cossutta, presidente del Prc, ieri aveva affermato: "Noi non abbiamo alcun timore, ma consideriamo gravissima l'iniziativa, che servirebbe a eliminare i partiti politici in quanto tali: tutti". Gli ha fatto eco Franceschini, del Ppi: "Se si vuole fare una battaglia per il bipartitismo, cancellare tutti i partiti, lo si dica". Duro il verde Paissan: "Solo una buona dose di ignoranza e malafede può portare a queste scivolate di volgarità da parte di Di Pietro: proprio lui accusa gli anti-referendari di essere cacciatori di poltrone?".

E il Pds, cosa pensa della marcia anti-proporzionale? I vertici del partito non provano alcuna simpatia per un referendum ritenuto parte di una campagna tesa a eliminarli, i partiti. Ma questo atteggiamento viene assunto a porte chiuse. Ufficialmente, se nella Quercia si apre un altro terreno di confronto (gli ulivisti sono tra i promotori del referendum e la sinistra è nettamente contraria all'abolizione della quota proporzionale) la maggioranza del partito è prudente. Il Pds ritiene vantaggiose le iniziative tese a un rafforzamento del maggioritario e il referendum è considerato uno stimolo per fare una buona legge in parlamento. "Può essere - secondo Mauro Zani, che nel comitato politico rappresenta la maggioranza - uno stimolo a concludere in modo positivo l'impegno sulle riforme. Non è un caso che emerga in un momento di difficoltà per la Bicamerale". Però l'iniziativa di Segni e co. è anche considerata un'occasione perduta per come è formulato il quesito. Eleggere con il maggioritario anche i restanti 155 deputati, ma scegliendoli tra i secondi che hanno ottenuto più voti, potrebbe introdurre elementi di casualità.

E il segretario, cosa pensa? D'Alema ufficialmente non si mostra ostile al referendum ma ieri ha sottolineato di essere "un convinto difensore del ruolo dei partiti", senza i quali non ci sarebbe democrazia. Sostenendo l'importanza di portare alla politica "la ricchezza di competenze specifiche", ha poi affermato che "c'è bisogno di ricostruire il tessuto democratico" e che per farlo ci sono da una parte le riforme istituzionali ed elettorali per garantire la stabilità di governo; dall'altra, la capacità dei partiti "di rimettere i cittadini nella società".

Intanto per il segretario del Pds sul fronte Bicamerale si apre uno spiraglio di ottimismo. In un'intervista che uscirà oggi sulla Stampa il segretario del Pds si dice pronto a ridiscutere i punti che riguardano il federalismo. Per la giustizia e la separazione delle carriere, però, non è disposto a concedere nulla. E da Forza Italia arriva forse qualche segnale distensivo. Giuseppe Pisanu, infatti, ieri ha usato parole molto di verse da quelle pronunciate a Verona da Berlusconi, che aveva posto la separazione delle carriere come pregiudiziale. E' favorevole, Pisanu, a "ridurre all'essenziale le parti da trattare nella Costituzione" demandando il resto alla legislazione ordinaria. "Deve essere chiaro che per noi l'obiettivo fondamentale è arrivare alla equiparazione delle condizioni tra accusa e difesa. La strada migliore è quella della separazione delle carriere, ma se altri hanno percorsi diversi ce li facciano conoscere e li discuteremo". Poi, il presidente dei deputati forzisti ha così risposto a Vertone che minaccia di lasciare Forza Italia nel caso di un accordo con la Lega: non "fasciarsi la testa prima di essersela rotta". Per quanto riguarda il referendum Pisanu afferma che per Forza Italia l'intesa di casa Letta sulla legge elettorale resta un "punto fermo".


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