Gli interventi di "Riforme istituzionali"

N° 150 - 026/04/98
Rassegna stampa: Federalismo ... che passione!


Dal Corriere della Sera del 22/04/98

Le Regioni potranno dotarsi di statuti speciali e lo Stato non potrà intervenire nelle materie di loro competenza

Primo sì al federalismo flessibile

Tranne la Lega, tutti d'accordo in Bicamerale sul modello spagnolo

ROMA - Non è ancora federalismo, ma la strada è imboccata. Con l'accordo raggiunto ieri nel Comitato dei 19 della Bicamerale tra tutte le forze politiche tranne la Lega, l'Italia si avvia a diventare uno Stato a forte decentramento, basato su un sistema di autonomie speciali per le Regioni di tipo "flessibile", sul modello spagnolo. In sostanza, con una procedura abbastanza snella, le Regioni che lo vorranno, nei tempi e con le modalità che sceglieranno, potranno decidere di adottare uno Statuto speciale e di appropriarsi di una serie di competenze finora esclusive dello Stato. Il "pacchetto federalista", preparato dal relatore sulla forma di Stato Francesco D'Onofrio, deve essere ancora votato da Camera e Senato ed è strettamente collegato ad altri due temi che verranno affrontati da oggi: il federalismo fiscale e la struttura del Senato. Punti essenziali, sui quali l'accordo è da definire, anche se l'ottimismo c'è.

Tornando al pacchetto che ha ottenuto il via libera ieri, due sono i punti importanti. In primo luogo, la possibilità che le Regioni possano dotarsi di statuti speciali che ne aumentano i poteri e le competenze. La novità, frutto dell'accordo, è che (come richiedevano Forza Italia e Lega e come previsto da due emendamenti di Pisanu (Fi) e Bressa (Ppi)), gli statuti non dovranno essere ratificati da una legge costituzionale ma con una semplice legge ordinaria. E c'è di più: il Parlamento, prima di votare lo statuto, dovrà raggiungere un'intesa con la Regione. Alla fine il popolo si esprimerà con un referendum regionale.

L'altra vittoria importante ottenuta dal Polo passa attraverso un emendamento, accolto, formulato dal leader ccd Casini: nelle materie riservate alle Regioni non c'è più, rispetto al testo originario, la possibilità dello Stato di intervenire "in caso di imprescindibili interessi nazionali". Allo Stato restano comunque competenze essenziali ed esclusive in materia di moneta, giustizia, difesa, esteri, beni culturali: su questo punto è Forza Italia ad avere accettato l'impostazione delle forze di maggioranza e di An, lasciando sola la Lega. Restano altri punti su cui ancora Forza Italia è impegnata (l'amministrazione della giustizia amministrativa territoriale, il coordinamento delle forze di polizia sul territorio, la possibilità da parte delle Regioni di modificare le leggi elettorali per gli enti locali), ma non sono richieste pregiudiziali, tali da provocare una rottura.

Alle Regioni dunque, se l'accordo passerà, spetteranno competenze importanti, tra l'altro, in materia di istruzione, gestione del territorio, attività produttiva, trasporti, energia, comunicazione, politiche del lavoro. Forza Italia è soddisfatta. Secondo Calderisi "è stato fatto un bel passo avanti", giudizio condiviso da Pisanu per il quale però "una rondine non fa primavera...". Felicissimo e ottimista D'Onofrio: "La nave è disincagliata", mentre più cauto è il pidiessino Michele Salvati: "Aspettiamo di vedere cosa succede sul federalismo fiscale e sul Senato a base federale". Grande soddisfazione tra i popolari, che hanno avuto un ruolo importante nella mediazione, mentre chi grida allo scandalo con tutte le sue forze è la Lega. Replica secco il leader di An, Fini: "Non sanno quel che dicono".


Da il manifesto del 24/04/98

RIFORME: TAPPE FORZATE PER IL FEDERALISMO
La camera vota le regioni fai da te.
Solo 10 le competenze dello stato, sì al federalismo flessibile.
I Verdi salvano la tutela dell'ambiente e le leggi sull'urbanistica

GIOVANNA PAJETTA

- ROMA - Intervengo come semplice deputato...". Adotta un tono dimesso, il ministro Berlinguer, ma ci vuol poco a capire che si trattiene a stento. Per l'occasione infatti non solo è arrivato nell'aula di Montecitorio, ma si è anche iscritto a parlare subito, il primo intervento della seduta pomeridiana. Sul tappeto infatti c'è il potere del suo ministero, ridotto dall'articolo 58 della nuova Costituzione a produrre solo leggi di indirizzo generale. Basta con i regolamenti, con le norme attuative, saranno le singole regioni a farsi la loro scuola o la loro università. "Ma noi dobbiamo anche uniformare i curricula delle varie università - obietta così in aula, con un esempio concreto, il ministro - E questo si fa normalmente con atti amministrativi". I "timori" espressi da Berlinguer del resto paiono largamente condivisi, a destra come a sinistra.

Dai banchi di Rifondazione si protesta in nome del "diritto fondamentale alla cultura e alla formazione", la diniana Sbarbati dice che così "nasceranno le scuole padane" e annuncia voto contrario. Persino tra i deputati di An c'è scompiglio, e Gustavo Selva chiede norme che valgano "dalle Alpi alla Sicilia". Ma non c'è niente da fare. La richiesta di una sospensione della seduta, e di un ripensamento (magari con il passaggio della scuola al comma uno, ovvero tra le materie di esclusiva competenza dello Stato) non viene nemmeno presa in considerazione. Francesco D'Onofrio si arrampica sugli specchi, e sostiene che in fondo al ministero della pubblica istruzione rimangono poteri di coordinamento, che nessuno vuol toccare ad esempio l'esame di stato ("e non c'è mica scritto regionale") con cui si chiude ogni ciclo di scuola. L'ultimo no arriva proprio da Fabio Mussi, che di scuola e università si occupato per anni, ed è ovviamente il più imbarazzato. "Siamo arrivati al cuore della questione federalismo - premette il capogruppo della Quercia - E forse c'è una difficoltà perché abbiamo accantonato l'ultima parte dell'articolo 57, quello che tratta della autonomie speciali...". La conclusione però è netta. "Questo articolo - dice Mussi a Berlinguer - è in linea con la politica dell'autonomia scolastica svolta dal governo".

"Lo so bene che c'è un accordo politico - commenterà in Transatlantico, dopo il voto, Luigi Berlinguer - Ma si potevano affrontare un po' meglio i problemi tecnici". E certo non è un'opinione personale. L'improvvisa sterzata federalista imposta da Massimo D'Alema per salvare le "sue" riforme ha stravolto infatti i termini di una discussione durata mesi e mesi. Facendo felice per l'appunto i più convinti nemici del centralismo, dal popolare Bressa ai liberisti di Forza Italia, ma lasciando molti problemi irrisolti.

Il testo votato ieri (con il no dei leghisti, dei cossighiani e di Rifondazione) definisce 10 "competenze esclusive dello stato". Oltre a quelle classiche (moneta, giustizia, esteri, difesa) ci sono le leggi elettorali, i beni culturali e l'ambiente, e anche uno standard (ma solo "minimo") per i diritti sociali, ovvero sanità e istruzione "da garantire in tutto il il territorio nazionale". Segue poi, al comma 2, l'elenco delle materie su cui allo stato spetta solo "determinare con legge la disciplina generale". Mentre saranno le Regioni a decidere norme attuative e regolamenti amministrativi. Tra queste spiccano, oltre all'istruzione, la salute, le grandi reti di trasporto, la comunicazione e protezione civile. Anzi, per qualcuno sarebbe dovuto stare qui anche la questione ambientale. Ma alla fine i Verdi, che giustamente ieri hanno cantato vittoria, sono riusciti a imporsi. Ottenendo anche ciò che prima non c'era, ovvero la possibilità per il ministero dell'ambiente di dettare la normativa sull'urbanistica (oggi di competenza delle Regioni).

Ma chi assumerà tutte queste competenze, ogni Regione automaticamente o solo quelle che chiederanno la cosiddetta "specialità"? La questione non è da poco, visto che è difficile pensare che le piccole regioni o le zone più povere del paese siano in grado, da un giorno con l'altro, di fare ciò che oggi rivendicano a gran voce il Veneto o la stessa Toscana. Secondo Gianclaudio Bressa, autore dell'emendamento sugli statuti speciali (anch'esso approvato ieri) la risoluzione di tutto sta nel federalismo fiscale. "Quello descritto dal comma 2 è un elenco di opportunità - sostiene il deputato prodiano, e veneto - Se ad esempio il Veneto presenta un progetto speciale, su un pacchetto di materie, lo stato sarà tenuto a concedergli una quota più alta del gettito locale di Irpef". Gli altri, chi volesse lasciare tutto (o quasi) così com'è, si dovrebbe accontentare di meno soldi, meno potere e forse anche di meno servizi.


Dal Corriere della Sera del 26/04/98

Il rischio di un referendum sull'unità

LA VIA ITALIANA AL FEDERALISMO

Ernesto Galli della Loggia

Come se non bastassero gli altri già in cantiere, anche un bel referendum sull'unità nazionale: è questa la bomba a orologeria che la politica italiana sta inconsapevolmente piazzando sotto il proprio tavolo avendo deciso - nella Bicamerale prima e nel Parlamento dopo - di mettere da parte lo Stato italiano fin qui esistente e di inventarsene uno nuovo, all'insegna di un federalismo casereccio invadente e sgangherato. In questo modo è più che probabile, è inevitabile infatti, che il referendum finale previsto per l'insieme di norme di revisione della Costituzione vigente si trasformi, come dicevo, in un referendum sull'unità nazionale; diventi l'occasione chiave a disposizione dei cittadini per decidere se l'Italia e lo Stato italiano devono ancora esistere, a un dipresso nella configurazione attuale, o se invece, al posto dell'una e dell'altro, è meglio che ci siano Palermo, il Molise, Domodossola, l'Emilia, e quant'altro di metropolitano, di comunale e regionale offre il lussureggiante localismo della penisola: il tutto tenuto insieme più o meno dallo stesso saldo vincolo che dentro l'unione europea unisce la Grecia e il Lussemburgo.

Non sembri esageratamente pessimistico questo giudizio sul federalismo che ci aspetta. È inevitabile, infatti, che il potere conferito nei giorni scorsi alle future regioni di legiferare in materie come l'istruzione (dalle elementari all'università), l'assetto del territorio, la tutela della salute, le reti di trasporto e l'ordinamento della comunicazione, la sicurezza del lavoro, la protezione civile, la produzione di energia, è inevitabile, dicevo, che un tale potere darà luogo nel giro di pochissimo tempo alla scomparsa di qualsivoglia carattere unitario di quell'insieme rilevantissimo di stili di vita e di pensiero, di comportamenti, di modi di sentire, di abitudini in senso lato antropologico-culturale, che finora sono stati decisivi nella definizione del Paese Italia.

Quando non si studiano più nella stessa scuola gli stessi programmi, non si adoperano più gli stessi trasporti, non si usufruisce più della stessa assistenza sanitaria amministrata con i medesimi criteri, quando in una calamità non si può contare più sugli stessi soccorsi, quando non si pagano più le medesime tasse, è arduo continuare a sentirsi parte di qualcosa di comune, o continuare a sentire di avere qualcosa in comune.

Né valgono le due obiezioni che sempre si sentono a questo proposito: e cioè che altrove un federalismo anche molto più coerente e pronunciato di quello che abbiamo adottato noi non ha affatto messo in pericolo l'unità del Paese, e che comunque nel caso italiano lo Stato conserva il potere di stabilire le norme quadro anche nelle materie di competenza regionale.

Non vale la prima obiezione perché ogni Paese ha una storia diversa da quella di ogni altro. In Italia, per esempio, la dimensione locale ha storicamente sempre avuto uno spiccato carattere oligarchico-notabilare, ha sempre rappresentato la salda tutela degli interessi dei pochi e dei più ricchi rispetto agli interessi dei molti e dei più poveri. E questo - mi dispiace per Cacciari - anche in Veneto, anche sotto l'illuminato governo della Serenissima. I contadini di questa regione, cioè gli otto decimi dei suoi abitanti, non sarebbero stati per secoli una plebe derelitta, incolta e affamata, se le varie oligarchie di Treviso, di Vicenza e compagnia bella, padroni della loro sorte, non li avessero sfruttati per secoli fino all'osso e tenuti in quelle condizioni fino a cinquant'anni fa, dimostrando così in quale considerazione tenessero il benessere dei propri beneamati corregionali.

Quanto alle leggi quadro dello Stato, delle due l'una: o queste leggi saranno effettivamente definitorie e vincolanti, ma allora addio potestà legislativa delle regioni; ovvero tali non saranno, ma allora addio garanzie contro una patologica frammentazione del quadro legislativo regionale.

A chiarire quale sia il grado di pericolosissima confusione ideologica che presiede al federalismo italiano ci ha pensato del resto, l'altro giorno, il consiglio regionale del Veneto approvando con i voti di quei noti partiti moderati che dicono di essere Forza Italia, il Ccd e il Cdu, una mozione in cui si chiede né più né meno che di consentire "al popolo veneto di pronunciarsi con un referendum sulla propria autodeterminazione", cioè, in parole più semplici, di costituirsi in Stato diverso da quello rappresentato dalla Repubblica italiana.

In realtà, se a un certo punto la stragrande maggioranza della classe politica ha deciso che bisognava imboccare a tutti i costi la via del cosiddetto federalismo, ciò è avvenuto senza alcuna vera elaborazione culturale, senza alcuna riflessione sulla nostra storia, ma al contrario nell'assenza più totale di qualunque tensione etico-politica degna di questo nome. L'unità nazionale definita nei suoi ordinamenti dalla Costituzione della Repubblica e dalle larghe autonomie che essa consente, è stata destinata alla rottamazione semplicemente per ragioni di opportunismo e di demagogia.

Parliamoci chiaro. Il federalismo di Forza Italia è mosso dall'unico interesse di fare un bell'accordo di desistenza elettorale con la Lega per poter ottenere la maggioranza dei seggi; l'Ulivo, dal canto suo, cerca anch'esso di ingraziarsi la parte più ragionevole dell'elettorato leghista per ottenere il medesimo scopo. Sono queste le alte motivazioni ideali del federalismo italiano, il suo profondo sfondo culturale. Non è un caso, di nuovo, se prima della comparsa della Lega non risulta che mai, neppure una volta, il minimo proposito federalista abbia fatto capolino nella biografia sia di D'Alema sia di Berlusconi (o di qualunque altro loro compagno di partito o di schieramento). Entrambi, guarda un po', sono diventati federalisti solo quando hanno cominciato a sentire il fascino, o il problema, dei voti leghisti.

Non è solo questo però. È vero infatti che la patetica, generale, conversione italiana al federalismo è anche una delle manifestazioni significative che in Italia ha assunto quella più vasta crisi della politica che caratterizza tutto l'Occidente attuale. È una crisi che si manifesta nella perdita di senso degli ideali tradizionali, nella perdita di consapevolezza della funzione dirigente della politica, nella perdita di qualità di chi vi si dedica professionalmente. È in questo vuoto che nessuna posizione è più tenuta ferma, che destra e sinistra si scambiano uomini e programmi, che non si lotta più davvero per nulla, perché nulla è ritenuto più davvero decisivo, che si diviene pronti a seguire ogni corrente. È in questo vuoto che l'unica bussola diviene "la gente" e ciò che si pensa - a torto o ragione - che essa pensi.

La politica federalistica italiana costituisce un esempio da manuale di questa subalternità ai presunti voleri del pubblico. Ci si è convinti che "la gente", che gli italiani vogliono il federalismo, e dunque avanti con il federalismo! Nessuno però si chiede: ma quanti italiani lo vogliono realmente? E cosa intendono per federalismo? Quali contenuti concreti danno a questa formula, cosa si aspettano dal federalismo che magari potrebbero avere altrimenti e che il federalismo non gli darà mai? E "la gente", poi, non vuole forse anche la pena di morte per i pedofili, un condono edilizio ogni anno, non vuole anche evadere il fisco a piacere?

Ma nessuno sembra interessato a porsi e a porre queste domande. Nessuno sembra colto dal sospetto che forse il compito di una classe dirigente non è già quello di trarre le conseguenze meccanicamente da ciò che crede o vuole "la gente", bensì piuttosto è quello di stabilire con tali sentimenti od opinioni un rapporto di scambio e dunque, nel caso, anche pedagogico, di ascolto ma insieme anche di chiarificazione e di direzione.

Sarebbe bene ricordarlo. Infatti, per le classi politiche che lo dimenticano la smentita può rivelarsi assai sgradevole. Come per l'appunto sarebbe, per tornare all'inizio del nostro discorso, un referendum sulle riforme istituzionali che divenisse per forza di cose un referendum sull'unità nazionale (e magari, insieme, anche sulle questioni della giustizia). I federalisti della ventiquattresima ora sembrano non rendersene conto, ma in realtà è davvero col fuoco che essi stanno scherzando.


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