Gli interventi di "Riforme istituzionali"

N° 156 - 24/07/98
Rassegna stampa: Referendum antiproporzionale ... "caldi" di mezza estate!


Dal Corriere della Sera del 24/07/98

Segni: se la Corte Costituzionale non lo ammettesse, sarebbe un colpo di Stato. L'ex pm contro Berlusconi: non è colpa dei giudici se ha commesso reati

Referendum elettorale: 687 mila firme

Ieri il deposito in Cassazione per il controllo. Prossima tappa il giudizio d'ammissibilità
Di Pietro: le ho raccolte quasi tutte io. E gli altri sostenitori del "no" al proporzionale s'arrabbiano

Gianna Fregonara,

ROMA - "I cittadini possono stare tranquilli, noi siamo i loro gendarmi". Momento di incertezza tra i presenti: queste parole che Antonio Di Pietro ha appena pronunciato non piacciono agli altri promotori del referendum che stanno facendo a turno, davanti al Palazzo della Cassazione, per una foto con l'ex pm e le scatole che contengono le firme dei cittadini. "Questa frase la pronunciò Almirante, ma era davvero un'altra epoca", frena Adolfo Urso di An. "Gendarmi noi? Io sono un liberale, al massimo posso fare il cane da guardia che è più simpatico", è la battuta di Marco Taradash.

Ore 11.15, i promotori del referendum antiproporzionale, quello che dovrebbe cancellare gli articoli della legge elettorale che prevedono l'assegnazione del 25 per cento dei collegi alle liste di partito su base proporzionale, consegnano i 58 scatoloni che contengono le firme: "Ne abbiamo contate 687 mila, scartando quelle dubbie", può annunciare Luigi Abete, l'ex presidente della Confindustria che si è attivato per la battaglia sulla legge elettorale. Ora toccherà alla Corte ricontare le firme, controllarle e stabilire se almeno 500 mila sono valide. Poi sarà la volta della Corte Costituzionale che giudicherà sull'ammissibilità del quesito. "Se la Corte dovesse decidere di non ammettere il nostro referendum, allora quello sì che sarebbe un colpo di Stato", attacca Mario Segni.

Ma la consegna delle firme si trasforma in un Di Pietro-day, che oscura tutto il fronte trasversale di referendari: da Antonio Martino a Elio Veltri, da Augusto Barbera a Peppino Calderisi. Il senatore rivendica di aver raccolto con la sua Italia dei valori almeno 550 mila firme. Parla di "questa repubblica delle banane in cui i giudici vengono messi sotto processo dagli inquisiti, dove tutti sono colpevoli e nessuno è colpevole", vuole cambiare "le teste dei politici con il referendum perché la testa non l'hanno cambiata", ricorda i "mille processi nei quali sono stato coinvolto e dai quali sono stato prosciolto".

Tra insulti ai partiti e sfida politica, Di Pietro rilancia la sua iniziativa: "Le riforme? Non si dialoga con le persone che intendono truffare il Paese: Berlusconi ce l'ha con i giudici che l'hanno inquisito ma non è mica colpa loro se lui ha commesso dei reati. Quanto ai referendum sono un'autostrada per portare la volontà dei cittadini, per aprire il dialogo con un filo conduttore: l'indicazione che i cittadini hanno dato per il maggioritario. Comunque devono tener presente, i politici, che non possono più tradire la volontà dei cittadini, come hanno fatto nel '93". Poi l'ex pm spiega che cosa si aspetta dai referendum e disegna nell'aria la nuova scheda elettorale: "Non ci saranno più i nomi dei partiti, ma le foto dei candidati. Così i cittadini possono scegliere chi va in Parlamento e chi se ne va a casa, senza rientrare dalla finestra del proporzionale. E se candideranno Craxi Benedetto, non importa, non andrà da nessuna parte". E nel Di Pietro-day il senatore prende anche un'altra iniziativa: annuncia che mercoledì presenterà al Senato la legge di iniziativa popolare per il doppio turno di collegio con 350 mila firme a sostegno.

"E' un effetto del caldo, parlano di golpe e di cambiare la testa alla gente", insorge il verde Maurizio Pieroni. "E' una giornata stupenda" invece per il referendario Segni, anche se dentro il movimento ci sono già le prime crepe. Appena finito lo show di Di Pietro i referendari del Polo, una settantina in tutto, convocano una conferenza stampa in cui attaccano il protagonismo dell'ex pm: "Va detto con molta chiarezza che l'appropriazione indebita di Di Pietro è in contrasto con le finalità del referendum. Occorre riformare la politica, non consegnare il Paese all'antipolitica", alza la voce Calderisi. Di Pietro risponde sciorinando cifre: "La quasi totalità delle firme è stata raccolta dall'Italia dei valori". Nei comuni sono state raccolte 47 mila firme e il movimento per le riforme costituzionali di Giuliana Olcese annuncia: "Noi ne abbiamo raccolte cinquantamila". Per quanto riguarda i banchetti è invece il Sud il più attento alle richieste dell'ex pm: in Campania, la regione più attiva, ne sono state raccolte 98 mila, in Lombardia meno di cinquantamila.


Da LA STAMPA del 24/07/1998

LA RISORSA ESTREMA DELLE RIFORME

BUONA parte della classe politica sta guardando al referendum sull'abrogazione della quota proporzionale come a un inciampo fastidioso. L'altra parte lo considera una minaccia pericolosa. Il governo lo guarda come l'unica mina su cui potrebbe saltare.
Il fastidio e la minaccia vengono intensificati dalla sorpresa, cioè dal fatto che fino a non troppe settimane fa sembrava che la raccolta delle firme, cominciata in sordina, dimostrasse un interesse molto tiepido da parte dei cittadini. Ora invece con il referendum si dovrà fare i conti.
Questa nuova avventura referendaria vede per protagonisti uomini politici dalle speranze deluse, come Mario Segni e Achille Occhetto, outsider della politica come Luigi Abete, liberali spregiudicati e non facilmente omologabili alle logiche di partito come Antonio Martino, con l'aggiunta del personaggio più ingombrante che c'è nella realtà politica italiana, Antonio Di Pietro.
A guardarla con occhio scettico, si tratta di una iniziativa anacronistica. Con i personaggi sbagliati, con i tempi imprecisi. Eppure, anche se si dovrà aspettare il vaglio della Corte Costituzionale, appare chiaro sin d'ora che il referendum sulla proporzionale è un elemento di dinamismo, in quanto è destinato a riaprire giochi politici che sembravano saldamente chiusi.
Il progetto riformista si è arenato nelle secche della Bicamerale, dopo avere dato forma a un progetto di basso profilo. Nell'opinione pubblica si è diffuso un senso di rassegnazione, l'idea che per ciò che riguarda le riforme del sistema politico-istituzionale si fosse raggiunto il massimo, che coincide col minimo, possibile: dopodiché, i partiti si sono riappropriati dello scettro che con i referendum sulla preferenza unica e sulla proporzionale era temporaneamente passato al popolo.
Che adesso quasi settecentomila italiani abbiano deciso di firmare per il nuovo referendum, superando con uno slancio inaspettato le debolezze organizzative e le non grandi aspettative con cui l'iniziativa è stata accolta, dimostra che dentro la nostra società circola ancora una volontà se non altro ostinata. Si potrà giudicare ingenuo affidare ancora residue speranze di cambiamento a una modificazione delle regole: l'esperienza ha mostrato che la capacità di ricatto di alcune parti politiche è insensibile alle leggi elettorali; il Parlamento prolifera di gruppi e sigle politiche; la struttura bipolare è resa incerta dalla persistenza della Lega, dall'irriducibilità di Rifondazione comunista, dall'artificialità dei Poli, dai rigurgiti neocentristi. Insomma, dalla ventata referendaria a oggi si sono visti esiti deludenti o comunque molto contraddittori.
Allora che cos'è il referendum Segni-Di Pietro, un saldo di fine stagione? Sarebbe così se il sistema politico avesse saputo completare la riforma costituzionale, e se nello stesso tempo avesse riformulato una legge elettorale coerente con lo schema bipolare. Come si è visto, il ridisegno delle istituzioni era di qualità molto mediocre, la scelta semipresidenzialista era avvenuta per un incidente di percorso, e la formula elettorale sottostante, basata sul doppio turno di coalizione, era probabilmente peggiorativa del Mattarellum.
Dunque è la cattiva prestazione dei partiti e degli schieramenti a ridare legittimità allo strumento referendario. Il quale oggi rappresenta la risorsa estrema per riavviare dal basso il processo riformatore: non tanto attraverso la via del compromesso fra le parti politiche ma come possibile choc a cui la classe politica sarà obbligata a offrire una risposta.
C'è comunque una differenza rilevante rispetto ai primi Anni Novanta. Allora i referendum erano, o apparivano, il nuovo contro il vecchio, la società civile coalizzata contro la società politica, che subiva senza reagire. Oggi, proprio perché rappresenta un inciampo o una minaccia, il referendum verrà giocato anche dai partiti, cioè diventerà oggetto di lotta politica. Prima i partiti proveranno a sterilizzarlo; se non ci riusciranno, ne faranno l'oggetto di una competizione dalle prospettive per ora imprevedibili.
A questi aspetti va aggiunta la forte personalizzazione che inevitabilmente il referendum incorpora. Il ruolo di Di Pietro rischia infatti di tramutare la consultazione referendaria in un plebiscito fra opposti: fra garantismo e giustizialismo, fra partitocrazia e populismo, fra politica e antipolitica.
Sarebbe un errore disastroso configurare il referendum come un giudizio di Dio su Di Pietro, rappresentante della giustizia di popolo, su Berlusconi, in quanto nemico delle procure e di Di Pietro, o su D'Alema per la sua inclinazione partitocratica. Conviene guardare al referendum esattamente per quello che è, vale a dire l'ultima carta di un processo riformatore che altrimenti rischia di sfumare oltre i confini del millennio.
L'ultima chance di terminare la razionalizzazione del sistema politico. Senza sagomarlo sulle figure e sui problemi dei protagonisti politici di questa fase. Senza farne una guerra di religione. E magari chiedendo ai partiti, grandi e piccoli, uno sforzo di fantasia: affinché non facciano battaglie sante contro il referendum, che nessuno capirebbe, e perché non lo usino come arma politica l'un contro l'altro, o contro la stabilità del governo, aprendo conflitti che i cittadini sarebbero davvero grati di vedersi risparmiare.

Edmondo Berselli


Da il manifesto del 24/07/1998

 

REFERENDUM: 687mila firme contro il proporzionale (e a favore dell'ex pm?)

- GIOVANNA PAJETTA - ROMA

I l pulmino con i pacchi, 58 per un totale di 687mila firme, arriva alle 11 e 15. Ma il vero protagonista della giornata a ben vedere è già lì, davanti all'entrata laterale del Palazzaccio (sede della Corte di Cassazione), da una mezz'ora buona. Come riconoscerà poi anche Luigi Abete, senza Antonio Di Pietro forse non ci sarebbe stata nemmeno la campagna per il referendum. O quantomeno non avrebbe raccolto così tante firme. C'è chi dice che l'"Italia dei valori" abbia raccolto addirittura il 60 per cento del totale, ma al sud potrebbe aver fatto anche di più. E' stato proprio l'effetto Di Pietro infatti, come racconta Maurizio Chiocchetti, coordinatore della campagna, pidiessino e ulivista, a dar vita a quello che si può chiamare decisamente un successo meridionale. In testa all'elenco ecco la Campania con 92mila firme, in coda la Val D'Aosta e il Trentino con un misero 1000. Ma il quadro non cambia se si confrontano invece la Lombardia, che non arriva nemmeno a 50mila firme, e la Puglia, che sfiora tranquillamente le 60mila. Persino in Veneto, una volta terra referendaria per eccellenza, ci si è fermati a quota 26mila.

"E' vero, al Nord attorno ai banchetti si è sentito un gran gelo" dice mesto Peppino Calderisi, vecchio pannelliano e decisamente il meno festante tra i leader presenti ieri mattina al Palazzaccio. Anzi, il radicale forzista convoca un'apposita conferenza stampa separata per denunciare il successo di pubblico e di critica dell'ex pm di Mani pulite. "Se il referendum rimarrà monopolio dell'impostazione demagogico-populista e giustizialista di Di Pietro, sarà votato alla sconfitta" dichiara. Poi si spinge più in là, accusa l'odiato avversario di "appropriazione indebita", visto che il quesito referendario era nato da un'idea di Marco Pannella e minaccia di uscire dalla composita compagnia.

Ma, ovviamente, l'interessato nemmeno lo sente. "Questa è una realtà di cui il Palazzo dovrà tener conto - sentenzia Di Pietro davanti alle telecamere - Perché la politica la fanno i cittadini e gli elettori, quelli che nel '93 hanno votato per il maggioritario per poter scegliere chi mandare in parlamento. E, soprattutto, chi mandare a casa". E il tono non cambia quando i cronisti lo tempestano di domande su Tangentopoli e la famosa commissione d'inchiesta. "Lo ribadisco, dal punto di vista personale nè io nè il pool di Mani pulite abbiamo nulla da temere. Io del resto ho già avuto mille processi - dice l'ex pm - Resta il fatto che nemmeno in una repubblica delle banane è permesso che l'inquisito diventi giudice del suo inquisitore". Ma ciò che interessa Di Pietro (che, cauto, in conferenza stampa si limiterà a ringraziare i volontari) è approfittare dell'occasione per fare un po' di propaganda al suo nascente partito. Quello che, come dice nel suo italiano improbabile, ha contribuito "in modo quasi totalizzante" al successo di ieri. E che "non si ferma, anzi rilancia" già settimana prossima. Quando, mercoledì, saranno cosegnate a palazzo Madama le 35Omila firme apposte sotto la proposta di legge popolare che chiede l'istituzione di un doppio turno di collegio per le prossime politiche. Ma se il parlamento potrà far spallucce, più difficile sarà far lo stesso davanti al referendum sulla quota proporzionale.

Ora infatti, dopo il controllo delle firme da parte della Cassazione la parola toccherà (tra gennaio e i primi di febbraio del '99) alla Corte Costituzionale. E se, come si dicono sicuri i leader referendari, la risposta sarà positiva andremo a votare tra il 15 aprile e il 15 giugno. Ovvero nel bel mezzo di quella corsa a ostacoli che già prevede un turno di amministrative, l'elezione del presidente della repubblica e le prime europee del dopo Maastricht.


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