Gli interventi di "Riforme istituzionali"

N° 53 - 23/11/96
Da il manifesto
Lo stato-mondo

Come costruire una cittadinanza non più borghese né laburista, se la razionalità economica resta l'unico riferimento?

Di Antonio Cantaro


BENE ha fatto Marco Revelli (il manifesto di mercoledì 20 novembre) a tornare sui temi del seminario sul Nord svoltosi il 15 e il 16 novembre scorso a Venezia. Revelli, in sostanza, ribadisce e precisa l'impianto della sua relazione, di una relazione che aveva lasciato (in me e in altri) più di un dubbio in ordine al ridimensionamento drastico del ruolo dei luoghi classici della politica nell'epoca del post-fordismo e della globalizzazione. E rilancia chiedendo un po' retoricamente ai suoi "critici":
a) quale sia il grado di "sovranità" delle comunità nazionali nell'epoca della globalizzazione;
b) quali bisogni reali possono essere oggi ancora "garantiti" da quel complesso di istituzioni che chiamano welfare;
c) infine, quali bisogni richiedono, per essere affermati, uno sfondamento verso l'alto (un più ampio raggio di sovranità: l'Unione europea, per esempio) e verso il basso (le pratiche di autorganizzazione, i contropoteri sociali, la logica del "far da sé, l'esodo...).

Una sovranità erosa

Per ciò che concerne la prima questione io concordo con il fatto che oggi lo stato-nazione non costituisca il luogo esclusivo del conflitto sociale e politico, né tanto meno che la sinistra possa ancora considerarlo il luogo privilegiato della trasformazione.
Così, la sovranità dello stato-nazione risulta oggi erosa di fatto e di diritto.
Di fatto, da quell'universo di regole e strutture sovranazionali (il gruppo dei sette paesi più industrializzati, la Banca mondiale, il Fondo monetario, le grandi istituzioni finanziarie, ecc.), i cui orientamenti condizionano non solo la finanza, il commercio e la produzione, ma altresì quelle scelte di politica economica e sociale che sono ancora nelle disponibilità di parlamenti e governi (essenzialmente la manovra sui bilanci pubblici).
E di diritto, poiché la costituzione economica reale è sempre più quella contenuta nei trattati europei, quello di Roma e quello di Maastricht, negli atti degli organi comunitari, nei vincoli che la politica monetaria della Bundesbank e della Banca d'Italia pone alla politica di bilancio e alla gestione del debito pubblico.
L'enfasi che Revelli pone sul declino dell'ordine degli stati-nazione che ha largamente governato l'Europa è dunque fondata. Sia la costituzione economica sia la costituzione politica degli stati sono oggi scosse alle fondamenta. Ma ciò - ecco un punto di distinzione con Revelli - non significa che gli stati-nazione abbiano esaurito ogni funzione.
Il declino della fase "borghese" e "liberale", come di quella "laburista" e "socialdemocratica" dello stato, non significa che questo sia diventato un "luogo" secondario, attraversato da conflitti politicamente e socialmente irrilevanti.
La mia opinione è che l'integrazione transnazionale di produzione, finanza e tecnologie fa sì declinare il legame fra economia e territorio, ma che ciò non comporta una marginalizzazione tout-court della tradizionale sfera pubblica. Noi assistiamo, piuttosto, a una trasformazione dell'agire politico e a un mutamento delle aspettative del territorio nei confronti delle istituzioni, trasformazione conseguente a una sorta di sdoppiamento della cittadinanza che nell'epoca della globalizzazione attraversa lavoratori, imprese, consumatori.

Cosmopoliti e cittadini

Tutti questi soggetti diventano, in realtà, "cosmopoliti" per ciò che attiene il versante della dimensione economica, per la quale sentono di non avere più stringenti vincoli di appartenenza comunitaria e territoriale. Ma continuano a essere "cittadini" dello stato-nazione per ciò che attiene a pretese esercitabili solo rispetto a un territorio e a una collettività concreta: quali, per esempio, sicurezza personale, infrastrutture primarie, servizi pubblici essenziali, politiche sociali e redistribuzione del reddito.
E' per queste ragioni che i conflitti sul futuro, il destino e la qualità dello stato-nazione sono state e continuano a essere negli anni novanta così aspri in Europa e in Italia. Ed è per queste ragioni che il welfare è diventato un terreno cruciale di conflitti e di mobilitazione per la destra e per la sinistra, per i ceti abbienti e per i ceti popolari.
Ciò che è in gioco per coloro che scendono sempre più numerosi in piazza a Roma, Milano, Parigi, Napoli non è semplicemente una certa quantità e destinazione di spesa pubblica.
Ma, più nel profondo, la scommessa dello stato moderno, di limitare le ragioni dell'economia a vantaggio delle ragioni della società, di condizionare gli imperativi del mercato con altri imperativi: quelli dell'eguaglianza, della solidarietà, dell'umanesimo dei bisogni.
Il XXI secolo non sarà certamente - come lo è stato il secolo che volge al termine - il secolo dello stato sociale che abbiamo conosciuto (lo stato fordista e keynesiano). Ma rimane, tuttavia, del tutto attuale il problema più di fondo, al quale il welfare ha tentato di offrire una risposta.

Un'altra razionalità

Ovvero, la ricerca di una razionalità altra rispetto a quella esclusivamente economica, di una razionalità in grado di limitare e correggere il codice meramente calcolistico dell'homo economicus.
Questa ricerca è oggi diventata più urgente, a fronte di culture e pratiche che tendono ad assecondare la vocazione totalitaria e imperialistica della ratio economica. Ad assecondare la tendenza di questa a invadere tutte le sfere dell'agire umano - quali quelle della riproduzione, dell'affettività, della politica, dei beni pubblici - che per mantenere ancora un senso devono essere agite da codici dell'incalcolabilità (economica).
Comprendo quindi bene l'ossessione di Revelli di "accelerare il processo di autorganizzazione e di produzione su scala allargata di socialità". Ma ritengo sbagliato non vedere come tanto la distruzione quanto la ricomposizione dei legami sociali passano anche dalle politiche dello stato-nazionale, dello stato sociale, dalle decisioni delle istituzioni dell'integrazione europea. Pensare che questi non siano più luoghi del conflitto o che comunque le scelte che lì vengono compiute siano indifferenti alla costruzione di un diverso punto di vista sui bisogni di un diverso misuratore della crescita (oltre il prodotto interno lordo) rischia di essere fuorviante e ingenuo.

Ci vuole più politica

Il terzo settore, l'associazionismo no-profit hanno bisogno, per crescere e consolidarsi, non di meno politica pubblica, ma di più politica, di più democrazia, di più progettazione macro-sociale.
Come potremo costruire una cittadinanza non più "borghese" (proprietaria) né "socialdemocratica" (laburista e quindi ancora sviluppista), se la comunità nel suo complesso (si chiami stato, o altro, poco importa) continuerà a essere agita (egemonizzata) da etiche della razionalità economica e calcolistica?
Il diverso punto di vista, il diverso codice della vita comunitaria che vogliamo definire non si affermerà semplicemente con i buoni sentimenti di chi pratica l'economia sociale, di chi è impegnato nell'attività di cura e nel volontariato.
E' necessario, viceversa, battersi affinché tutte queste attività costituiscano il nuovo fondamento della cittadinanza, il presupposto per essere titolari di pretese anche generali (politiche) nei confronti della società, dell'economia, delle istituzioni.
Solo così, oggi, potremo incontrare e parlare di quel Sud d'Italia di quel Mezzogiorno da troppo tempo silente e che a Venezia abbiamo solo evocato, senza mai nominare i valori, i drammi umani e sociali, le potenzialità "antiliberiste" delle sue culture politiche, il suo antico "cosmopolitismo".



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