N° 57 - 13/12/96
Da il manifesto
Costituenti
Di Rossana Rossanda: NOTE a margine
PER LEGGERE il presente occorre guardarlo come "antiquité",
diceva Rousseau, "prenderne qualche distanza", come chi sale su
una collina per cogliere il paesaggio. Cercare i lineamenti d'una
contemporaneità dispiegata è sempre costruzione di un'ipotesi,
Rousseau lo sapeva. E Gramsci aggiungeva che questo sguardo non è
mai mero riflesso d'un presente, ma entra a farne parte, ne
alimenta una tendenza
Sarebbe bello che vi tenessero mente gli interpreti della
"questione italiana", sulla quale molto ci si divide, ma comune
sembra la premessa che si tratta di una "transizione", un
passaggio non ancora compiuto fra un prima e un dopo. Fino a un
paio d'anni fa, si definiva il "prima" come "sistema dei
partiti", dunque della "mediazione parlamentare", dunque del
"consociativismo", dove tutti gli interessi erano assunti dai e
fra i partiti, dilagati da rappresentanti a gestori. Il "dopo",
la palingenesi, sarebbe stata la restituzione dei suoi interessi
alla società civile, attribuendo a governi di alternanza la
definizione di poche regole del gioco, e interdicendo allo stato
ogni ingerenza, per non dire ogni proprietà, considerate una
indebita appropriazione e terreno di corruzione. Così, chiave
della transizione è apparsa la modifica della rappresentanza -
referendum e legge maggioritaria.
Ma la critica al sistema politico è venuta sostanziandosi: non
come si è eletti o si decide, ma che cosa può venire
rappresentato e deciso? La risposta dominante è: il meno
possibile. Gli va sottratto non solo quanto più direttamente
attiene alla persona, come sottolinea il femminismo, ma quanto
attiene all'economia. Del resto non è già avvenuto? Dallo stato
si sono svincolati i capitali e le imprese nella crescente
globalizzazione, per cui rispondono oramai soltanto ad alcune
istituzioni transnazionali come la Banca Nazionale, il fondo
monetario, i trattati di area o, per esempio in Europa, la futura
unione monetaria. Questa autonomia dei capitali e delle imprese
rispetto al territorio nazionale "oggettivamente" svuota di peso
contrattuale la forza lavoro di cui si servono, e la cui
costituzione era avvenuta sul piano nazionale, dove si erano
conquistati alcuni diritti e contrattualità.
Questo quadro (oggi negativamente connotato come compromesso
fordista, o socialdemocratico) è venuto meno: latita dalla scena
nazionale la "proprietà dei mezzi di produzione", scende la quota
stabile del lavoro dipendente, calano le basi fiscali sulle quali
era costituito lo stato sociale. La sfera politica è in crisi per
il mutare della costituzione materiale del dopoguerra e che
finora aveva rappresentato. La questione italiana diventa
questione costituente.
Sarà l'eredità idealistica, per cui tutto ciò che è reale è
razionale, certo è che in nessun altro paese si teorizza una così
rigida relazione fra sistema di proprietà e di produzione e
l'idea che una società si fa di sé e dei suoi fini. Un efferato
economicismo, e proprio dalla parte che ne rimproverava Marx e
per cui lo giudicava inservibile: dalle "forze produttive"
sarebbe determinato, senza residui, il sistema politico, ivi
compresi i diritti della persona e della cittadinanza, che erano
alla base della democrazia più recente. Se crocianamente la
storia era un procedere verso la libertà, avrebbe ragione
Fukujama: è finita, l'obiettivo essendo diventato superfluo in
quanto garantito dalla libertà di impresa o dannoso in quanto,
non rispondendo ad essa, la potrebbe limitare. Questo è, per
dirla con le maiuscole di Giuseppe Vacca nel suo Per una
nuova Costituzione, il Grande Cambiamento, la necessaria
modernizzazione.
Nella quale non si da più tensione o (non sia mai) dialettica fra
capitale e lavoro, mercificazione e persona ("le dicotomie
fondamentali non sono più capitalismo/socialismo, né
liberismo/dirigismo ... bensì internazionalizzazione negoziata e
nazionalismo economico"). Svuotate le classi, galleggiano come
"disordine" le identità residuali dei salariati, le resistenze
del sindacato, l'inquietudine dei nuovi imprenditori di se stessi
e pochi altri, i corporativismi d'una società trascinata nei
vortici del mare della competitività. Alla rappresentanza viene
chiesto di spostarsi su incerte unità territoriali, definite dai
flussi di impresa, che ridisegnano anche il contrasto nord-sud.
Di colpo la governabilità del sistema, e perfino la sua
espressione in vere maggioranze e minoranze, cessa.
Questa lettura dei processi investe la sinistra nella sua stessa
ragion d'essere. Non per caso l'elaborazione più serrata sul tema
costituente è venuta da quell'area contigua al Pds che è il
Centro di studi per la Riforma dello Stato, istituito da Pietro
Ingrao e da lui diretto finché rimase nel Partito.
Negli ultimi testi - Secessione, Morire per
Maastricht?, Quale Repubblica? - la vera domanda è:
quale margine per il politico rispetto o al mercato o al
"sociale"? Dalla risposta dipende l'urgenza e la qualità delle
riforme istituzionali o costituzionali. Ma le posizioni si
divaricano.
C'è chi sostiene "nessun cambiamento" per il valore assiologico,
di dover essere, che caratterizza una Costituzione. Che quella
del 1948 non aderisca immediatamente al movimento e ai suoi
soggetti non ha importanza, in quanto il patto attiene ad alcuni
fondamentali principi da tener fermi proprio nei marosi della
storia. Non è così per la Costituzione americana? Nessuno si
sogna di riscriverla, e la si emenda con grandissima precauzione.
Se qualcosa va mutato in quella italiana, può vertere soltanto
sulla seconda parte, e l'art.138 ne indica i modi. Anzi, proprio
in quanto c'è già un surcondizionamento internazionale, e sono
ricorrenti le pretese di riscrivere i diritti partendo dalla
priorità dell'impresa, sarebbe improvvido metter mano a una
riscrittura, affidata o a maggioranze percarie come le attuali o
a processi referandari governati più dalla suggestione
massmediologica che dal ragionamento.
A questa posizione, sostenuta ad esempio da Ferrajoli, Allegretti
ed altri, Antonio Cantaro oppone che la via degli emendamenti
parziali non sarebbe convincente, anzitutto perché non c'è
separazione possibile tra prima e seconda parte della Carta del
1948. Essa è un tutto che si tiene. Il suo specifico
parlamentarismo traduce soggetti e bisogni e culture del
dopoguerra, esprimenti un'idea anche nobile della rappresentanza,
plurale e conflittuale, che è presto decaduta in immobilismo e/o
consociativismo. In essa la sfera politica rappresentava il
cittadino in quanto detentore di diritti fondamentali di libertà,
e ordinati in una società che faceva asse sul lavoro. In quanto
questo principio vada salvato, deve tener conto del mutamento del
ruolo e peso sociale del lavoro a fine secolo. Ne va rivisitata
sostanza e formulazione. Allo stesso modo, per tener fermo il
fine dello stato sociale, ne vanno rivisitate formulazione e
formazione dei mezzi, oggi erosi. Insomma, occorre un restauro
non di superficie, l'assieme dell'impianto va rivisto, in modo da
garantirgli saldezza e difenderlo dalle ingerenze internazionali
già surrettiziamente operanti.
E fin qui le differenze fra gli studiosi del Crs starebbero più
sul metodo che sul rapporto fra storicità e finalità d'un corpo
sociale, la domanda resterebbe circoscritta sulla previsione
della capacità delle forze politiche attuali a consolidare invece
che distruggere. Diversa è la proposta del presidente del Crs,
Pietro Barcellona. Egli mette in causa il principio della moderna
cittadinanza, partendo dalla sua analisi dell'universalismo del
moderno come individualismo proprietario, cittadinanza mediata
dalla proprietà. Della quale il riferimento costituzionale al
lavoro può essere visto come una, sia pur assai mediata, coda. E
cui il "compromesso fordista" avrebbe dato riconoscimento pieno
nell'accordo conflittuale o nella conflittualità limitata del
keynesismo. Caduta la produzione di scala, delocalizzato il
capitale fuori dallo stato nazione, in perdita di identità la
classe operaia, modificati i bisogni fra coazione e libertà,
mutato l'accento su quel che si considera il pieno della vita e
la realizzazione di sé, ogni tentativo di ancorare un patto
fondamentale sullo schema classico della cittadinanza, significa
ingabbiare i soggetti sociali, maschi e femmine, in rapporti
artificiosi, indotti, istituzionalizzati su uno schema lavorista
e centralistico. Il legame sociale va invece protetto là dove
soltanto può liberamente formarsi, nella comunità immediata,
diretta, differenziata, in un autogoverno che sfugga sia al
diktat dei mercati, merce e consumo, sia a quello d'un sistema
politico formale.
Paradossalmente questa società scardinata dalle materialità
consuete e modellata sulle pulsioni del desiderio - dei desideri,
nelle loro vitali differenze, sessuate o di culture; l'analisi
del fluttuare delle psicologie sociali è propria degli ultimi
lavori di Barcellona -dovrebbe sboccare in un patto fra una base
autogovernata e un capo, figura personale non formale, un patto
per dir così modellato non su regole ma sul sentire. Barcellona
sa bene che è stata finora una carta della destra, ma sostiene
che oggi la sinistra potrebbe giocarla in senso opposto; diciamo
contro quanto di "borghese" sarebbe irrimediabilmente connesso
alla modernità. Dove non solo è enunciato un ribaltamento del
politico, ma agisce una mimesi involontaria con lo schema
economicista: non è il postfordismo lo scardinatore più grande
delle verticalità, il trasversale e disseminatore di sedi di
decisione nel processo di produzione e di scambio? E va da sé che
anche qui la sinistra cessa di esistere, identificandosi
nell'immeditamente e diversamente umano/a.
Si può capire che la proposta di una élite personalizzata, un
patto di fiducia, sia piaciuta a Massimo d'Alema, anche se sembra
un fatale incontro più che un approdo di percorsi culturali
affini. E può darsi che questa opzione estremista del Crs
converga anche con altri. Certo è che i contrasti che qui si
delineano, e il sottofondo culturale cui rimandano, appaiono più
interessanti dei documenti finora presentati per il primo
Congresso del Pds. Forse in qualche modo li disvelano. Non vorrei
che il Pds andasse dal dopo l'89 a un fuori dell'89 - quello di
duecento anni fa, fino a ieri cardine convenuto della democrazia
e dei suoi sperati oltrepassamenti.
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