Gli interventi di "Riforme istituzionali"

N° 93 - 01/05/97
Franco Ragusa

Prime considerazioni sull'elezione diretta del premier

Dipenderà forse da una forma di deformazione professionale, ma sinceramente faccio fatica a comprendere il "metodo d'indagine" adottato in sede di Commissione Bicamerale al fine di determinare la forma di governo più idonea per l'Italia.
Facendo riferimento, ad esempio, alle audizioni di Sartori, Cheli, Barbera e Galeotti, le discussioni e le ipotesi sui modelli da adottare hanno spesso sconfinato nell'astrazione dalle situazioni reali; o meglio, dalla situazione reale: una Costituzione vigente; una forma di governo vigente; un paese, l'Italia, con alcune sue peculiarità difficilmente riscontrabili in altri paesi.
Chi è solito affrontare i problemi dal lato tecnico, dal lato funzionale, e non dal lato "accademico", probabilmente può correre il rischio di non vedere lontano; di sicuro, però, credo che sia un errore altrettanto grave pensare di risolvere i problemi buttando il bambino con tutta l'acqua sporca. Ed è proprio questo che sta avvenendo in sede di Commissione Bicamerale: di tutto si parla, tutte le soluzioni vengono analizzate, ma del come e del perché la "macchina Italia" ha funzionato poco e male non si discute e si passa direttamente allo studio astratto di altri modelli.
L'On. Nania, tanto per fare un esempio, sembra avere come scopo principale della vita - un vero e proprio chiodo fisso - quello di escogitare un meccanismo che faccia divenire premier il leader del partito di maggioranza relativa interno alla coalizione di governo; come se in Italia ciò non fosse avvenuto per almeno il 95% dei Presidenti del Consiglio che si sono succeduti dal dopoguerra a oggi.
Altra questione al centro delle ossessioni di molti: il potere di scioglimento nelle mani del premier eletto direttamente o anche soltanto indicato, senza peraltro spiegare come questo potere avrebbe potuto cambiare le sorti di anche uno soltanto dei tanti governi che, in Italia, sono sempre stati uno più uguale dell'altro.

In tutto questo, è poi sorprendente notare come, indipendentemente dal modello da adottare, (Westminster, semipresidenzialismo, cancellierato), ci sia poi una sorta di unanimismo sotterraneo riguardo alla necessità di conferire maggiori strumenti di stabilità al governo. E quale che sia il modello da adottare, la legge elettorale così com'è non va.
Insomma, comunque la si giri, nella sostanza le modifiche essenziali da fare sono due: diminuire le prerogative del Parlamento nei confronti del governo; azzerare il pluralismo (eufemisticamente si dice: stimolare i processi di aggregazione) attraverso una legge elettorale ancor più maggioritaria, bipolare.

Ma è il caso di procedere con ordine, cercando di smitizzare il dibattito che ruota intorno ad alcuni aspetti della questione.
Dire che in Italia si stia soltanto ora affermando il bipolarismo, significa negare che per circa 50 anni gli italiani si sono divisi su due fronti; e dire che non c'è stata l'alternanza (per molti bipolarismo è infatti sinonimo di alternanza), significa negare alla maggioranza degli italiani la dignità di una convinzione che li ha portati a non votare, per circa 50 anni, il PCI; e che i processi di aggregazione dell'elettorato (socialista e di centro), che oggi vengono imposti con la forza della legge elettorale, tirandosi dentro anche le estreme più restie a coalizzarsi, non andavano bene nel passato.
Dal che si deve dedurre che bipolarismo, alternanza e aggregazione sono parole dal significato politico molto relativo, che vanno bene per alcuni paesi e per altri no. Ad esempio, in Germania vige un sistema di alternanza nonostante sia divenuto ormai difficile ricordarsi il nome del Cancelliere precedente a Kohl; idem in Inghilterra, dove per sperare in una concreta possibilità di vittoria laburista si sono dovuti attendere 18 anni ed un leader con un programma "conservatore".
Oppure, per la scienza costituzionale nostrana, può parlarsi di bipolarismo, alternanza e aggregazione soltanto in presenza di un quadro politico estremamente semplificato. In tal senso è illuminante un passaggio del professor Barbera:
"Secondo la mia opinione, in un sistema maggioritario bisogna assecondare la bipolarizzazione, ma occorre anche che le forze politiche assumano un certo atteggiamento: o partecipano alla coalizione e si assumono responsabilità apportando, in maniera originale, un contributo; oppure - so che l'hai definita una visione leninista (rivolto all'On. Cossutta) - c'è un diritto di tribuna, nel senso che ci si assicura una nicchia ecologica in cui si portano avanti certe contestazioni."

Messa così, si tratta della scoperta dell'acqua calda: togliamo un po' di forze politiche, lasciamo in gioco soltanto quelle che più o meno si somigliano, ed abbiamo risolto buona parte dei problemi. In fondo è quello che, per altra via, come ha ricordato Rodotà, è stato fatto in Germania:
"Non dimentichiamo che in realtà il primo elemento di stabilizzazione del sistema tedesco fu non la sfiducia costruttiva parlamentare ma la sentenza della Corte costituzionale che escluse il partito comunista dalla possibilità di partecipare alle elezioni."

Non so se Rodotà intendesse anche riferirsi ad una sorta di fattore anticomunista; un fattore per il quale si ritiene che gran parte dell'elettorato italiano non poteva che votare in un certo modo, e di qui l'irresponsabilità dell'azione di governo degli esecutivi italiani, consapevoli di avere comunque la vittoria in tasca nei confronti del PCI. Personalmente non condivido questo tipo di analisi, considerato anche lo scarso peso elettorale avuto dai vari partiti, anch'essi dichiaratamente anticomunisti, che in vario modo hanno accompagnato l'esperienza di governo della Democrazia Cristiana. Se è infatti vero che una buona parte dell'elettorato ha sempre votato in funzione anticomunista, e anche vero che nell'ambito di questa vittoria annunciata dello schieramento anticomunista c'era la possibilità di articolare questo tipo di voto tra più partiti. Ciò non è stato, tranne la breve parentesi craxiana, e non si capisce come mai, proprio nell'ambito di una discussione che riguarda la modifica di un assetto istituzionale che si ritiene non abbia funzionato, non ci si sforzi di capire il perché di determinati fenomeni.
Più semplicemente, io credo che l'esclusione di un esplicito partito comunista abbia contribuito, in Germania, a semplificare la vita ai governi sostenuti dalle aggregazioni che facevano perno sul partito socialdemocratico, nulla credo che abbia potuto incidere, invece, in ordine alla stabilità e all'efficienza dei Governi facenti perno sulla Democrazia Cristiana tedesca. Di qui l'originalità del caso italiano. Constatato, infatti, che i precedenti governi italiani erano instabili non tanto per il ruolo svolto dall'opposizione, al pari di quanto normalmente avviene anche negli altri sistemi parlamentari normalmente presi come riferimento, ma per i problemi interni alla maggioranza di governo, l'analisi dovrebbe spingersi ad esaminare il ruolo svolto da ogni singolo partito di governo. Si scoprirebbe così che i maggiori problemi per la governabilità e l'efficienza dell'azione di governo sono stati per lo più determinati dai precari equilibri interni alla Democrazia Cristiana; il partito di maggioranza relativa che non è mai riuscito ad esprimere una classe dirigente non in conflitto con se stessa.
Certo, anche la DC aveva un suo motivo di esistenza in funzione anticomunista, e per questo ne ha sicuramente tratto dei vantaggi elettorali, ma da qui al definirla un'aggregazione di forze non omogenee ce ne corre: era sicuramente un aggregato, sia elettorale che politico, più omogeneo che non l'Ulivo o il Polo delle libertà.
Piuttosto, ripeto, bisognerebbe indagare sul perché le altre forze di centro non sono mai riuscite a competere significativamente con un partito sempre in frizione con se stesso. Chissà che non possano venire più soluzioni per la crisi istituzionale italiana da un'indagine di questo tipo, che non il perdersi in sterili simulazioni di modelli che non tengono conto delle situazioni reali.

Ritornando ai problemi della governabilità, pensare ora di risolvere i conflitti interni alla stessa maggioranza, allo stesso partito, attraverso l'investitura diretta del premier, sembra pił che altro una professione di fiducia: non si capisce bene perché, infatti, la legittimazione popolare potrebbe indurre a più miti consigli chi quel premier ha sostenuto nella campagna elettorale e nel quale potrebbe più non riconoscersi.
E laddove si verifichino dei motivi di rottura, il premier o è disposto a mediare o cede il passo, come avviene anche in Inghilterra; oppure entra in un conflitto che in un meccanismo rigido, caduta del premier - scioglimento del Parlamento, lo porterebbe inevitabilmente a non essere più il candidato della maggioranza che ha subito lo scioglimento parlamentare. Si creerebbe cioè una situazione nella quale il premier sarebbe costretto a presentarsi agli elettori, sempre che ne possieda i mezzi, contro la sua ex-maggioranza. Una visione a mio avviso pericolosa dei rapporti istituzionali e che lascia ampio spazio alle tentazioni plebiscitarie e che comunque non libera il premier dai ricatti.

Ma anche nel caso di una rottura parziale con la propria maggioranza (possa questa rottura arrivare anche a configurare un ribaltone), l'irrigidire il sistema verso l'unica soluzione dello scioglimento potrebbe facilmente condurre all'inefficienza: non ti posso rimuovere ma però posso non farti "lavorare", forte della consapevolezza che lo scioglimento è comunque un arma a doppio taglio, coincidendo la vita del premier con la vita della legislatura.
E non a caso i professori hanno indicato, per rafforzare il governo, indipendentemente dal sistema scelto, di adottare tutti gli "strumenti di stabilizzazione" tipici dei sistemi francese ed inglese: voto bloccato, ghigliottina, non si emenda si vota.

Non è cioè il potere di scioglimento che dà forza al premier e al suo governo. Ragionando in termini pratici e facendo riferimento alle ultime due legislature, si constata facilmente che il potere di scioglimento non avrebbe potuto impedire la crisi del Governo Berlusconi e né risolvere le attuali difficoltà del Governo Prodi.
Riguardo a quest'ultimo, appare evidente che uno scioglimento anticipato della legislatura, per superare le difficoltà poste da Rifondazione Comunista, comporterebbe la perdita immediata del Governo e la sicura sconfitta alle prossime elezioni: non potrebbe infatti essere riproposto nessun patto di desistenza, essenziale ai fini elettorali, dopo una simile rottura politica. E una simile perdita vale sicuramente meno, sul piatto della bilancia, dei rischi che potrebbe correre Rifondazione nel correre da sola in elezioni di tipo maggioritario.
Lo stesso discorso, visti anche i risultati pratici, poteva chiaramente farsi per il Governo Berlusconi; e l'astensione che ha permesso la nascita del Governo Dini la dice lunga su quali fossero le reali intenzioni del Polo delle libertà.

Si ritorna insomma al nodo iniziale: quale che sia il modo di formazione del premier, questo trae la propria forza non tanto dall'investitura diretta e dal conseguente "potere di vita o di morte" sul Parlamento, quanto dal complesso dei meccanismi di stabilizzazione.
Si chiamino quindi le cose con il proprio nome e si eviti di giustificare l'attribuzione di poteri enormi, all'apparenza di poco conto di fronte a quello relativo lo scioglimento del Parlamento, con la legittimazione che deriverebbe dall'investitura diretta. Un argomentare fortemente demagogico con il quale far ritenere naturale ed ovvia l'instaurazione di un vero e proprio regime. Un regime che si considera poter essere più facilmente digeribile in quanto espressione diretta della sovranità popolare. In tal senso, è illuminante come il professor Galeotti dipinga il quadro:
"... nel sistema del premier eletto dal popolo il tasso di democrazia immediata, cioè la capacità decisionale propria del voto dei cittadini elettori per quanto riguarda la scelta del Governo nella persona del suo premier e del suo vice, è pieno, perché la scelta popolare del governante è diretta e non subisce, durante la legislatura, né interruzioni, né mediazioni, né intermediazioni."

Fortunatamente, non bisogna essere degli irriducibili estremisti per poter contestare una visione così semplicistica del rapporto tra rappresentati e rappresentanti. Lascio quindi volentieri la parola all'opinione del ben più moderato professor Sartori:
"Con tutto il rispetto, mi chiedo quante cose voti un povero elettore, quante volontà esprima e come si faccia a sapere quale abbia espresso. Il voto è per un partito, per un programma, quello dell'Ulivo ha cento punti: per quale di questi cento punti ha votato l'elettore? Non esageriamo con la tesi per la quale il popolo ha espresso una certa volontà: ..."

Ad ogni buon conto, per i timori reciproci elencati sopra, anche i maggiori poteri potrebbero non essere sufficienti per piegare le resistenze di alcune forze politiche interne alla maggioranza di governo. Ed ecco quindi l'esigenza, nell'attuale congiuntura, di modificare ulteriormente la legge elettorale, scremando così, per l'appunto, il pluralismo di quelle posizioni rigidamente collocate agli estremi delle coalizioni; nella fattispecie dell'Ulivo: liberarsi delle ragioni degli elettori di Rifondazione senza però perderne i voti.
Ma se è però vero che attraverso la legge elettorale si può impedire ad ampi settori della società di condizionare il "tecnicismo economicista" dei governi di tipo liberale, nulla si risolve in termini di stabilità e di efficienza laddove si conferisce alle forze di centro un potere di ricatto fortemente amplificato dal maggior peso elettorale acquisito: azzerate definitivamente le estreme attraverso l'ingegneria elettorale, i conti si fanno con quei pochi voti che in qualsiasi momento potrebbero minacciare di passare da uno schieramento all'altro.
Ma probabilmente, per quel concetto di valore politico relativo di alcuni termini, non è questo il tipo di "antagonismo" che spaventa i sostenitori dell'inadeguatezza dell'attuale Costituzione.


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